Mario Perniola – Tre stili post-politici


  1. L’eclissi del “politico”

La domanda sul destino del “politico” in Italia dopo il Sessantotto presuppone un breve riferimento alla nozione di “politico”. Com’è noto, lo studioso che ha recato il contributo fondamentale alla determinazione del concetto di “politico” è stato Carl Schmitt. A suo avviso, l’essenza del “politico” si basa sull’individuazione di un nemico reale, di un’ostilità sulla base della quale diventa cogente la scelta delle alleanze. “Inter pacem et bellum nihil est medium“: ciò naturalmente non vuol dire l’ineluttabilità della guerra. Essa non è affatto la meta del politico: la guerra è il presupposto sempre presente come possibilità reale che determina lo specifico comportamento politico. Un conflitto acquista dimensione politica quando obbliga a schierarsi da una parte o dall’altra. Il politico è perciò, secondo Schmitt, l’ambito per eccellenza della serietà e della decisione: la parola tedesca Ernst (serietà) voleva dire originariamente Kampf(battaglia). La nozione schmittiana di politico è l’erede di una tradizione di pensiero, di cui fanno parte Hegel, Kierkegaard e Marx, la quale ha attribuito al problema del conflitto un ruolo essenziale.

Nemico reale tuttavia non vuol dire né nemico assoluto, né nemico convenzionale: tanto la condanna morale del nemico, quanto la sua riduzione a partner di un gioco sono estranei al rapporto politico. L’hostis è per Schmitt sempre in fondo un alter ego, una misura di me stesso: esso si situa sul mio stesso piano. Tra partigiano e brigante resta per Schmitt una differenza essenziale, così come tra il duellante e il giocatore di scacchi.

Chiediamoci ora: che ne è del “politico” in Italia nel corso degli ultimi decenni? Si può individuare un conflitto essenziale sulla base del quale si sono distinti gli amici dai nemici? Dov’è stato il conflitto in grado di stabilire una divisione netta e pubblica tra amici e nemici? Nel periodo che corre dal 1945 al 1968 questo conflitto è esistito: esso si è articolato sulla opposizione fascismo-antifascismo. Il fascista è stato l’hostis, di cui parla Schmitt, individuabile senza possibilità di errore. Sull’opposizione politica tra fascismo e resistenza è nata la Repubblica italiana: in questo periodo i tentativi di incrinare tale opposizione sono falliti a furor di popolo. Quasi mai però il fascista è stato presentato come un nemico assoluto: anzi lo sforzo di ricercare le radici culturali del fascismo testimonia appunto la volontà di attribuirgli una dignità teorica.

A partire dal Sessantotto tuttavia questa opposizione politica fondamentale per l’Italia perde la sua chiarezza e perspicuità. Le ragioni del declino del fascista come nemico sono molteplici. In primo luogo la contestazione fa un uso del termine “fascista” del tutto nuovo e improprio, allargandone enormemente l’ambito di applicazione: nella contestazione, “fascista” diventa sinonimo di autoritario, di legalitario e quindi vengono definiti più o meno “fascisti” non solo tutti i partiti di destra, ma perfino quelli di centro e di sinistra. In secondo luogo i partiti dell’arco costituzionale, che si riconoscono cioè nel regime repubblicano, denigrano come “obiettivamente fascisti” i loro oppositori di estrema sinistra aumentando la confusione. Il risultato è che in Italia dal Sessantotto in poi tutti hanno potuto essere insultati come “fascisti”! Più essenzialmente, sul piano della ricerca storiografica e della riflessione filosofica, diventa sempre più evidente che il fascismo fa parte della stessa civiltà politica e filosofica che ha prodotto i suoi oppositori: la preoccupazione di uscire dalla modernità tende a prevalere sui conflitti interni alla modernità. Infine il neo-fascismo stesso, e in particolar modo i gruppi della nuova destra tendono a fare proprie tematiche appartenenti alla nuova sinistra e arrivano addirittura a parlare di un “gramscismo di destra”.

La crisi del “politico” iniziata in Italia nel Sessantotto si protrae fino a oggi: essa è strettamente connessa con l’indebolirsi dell’opposizione fascismo-resistenza e con il fatto che nessun’altra opposizione ha avuto la forza di prendere il posto di questa: non l’opposizione destra-sinistra, perché in Italia la presenza di numerosi partiti rende estremamente sfumata questa distinzione, né quelle di rivoluzione-restaurazione, operai-capitale, atlantismo-filosovietismo, conservatorismo-progressismo o simili.

Infine le opposizioni terrorismo-antiterrorismo e mafia-antimafia non possono essere considerate dal punto di vista di Schmitt come opposizioni politiche, perché trasformano l’avversario in un nemico assoluto senza peraltro individuarlo con precisione: esse trasformano la dimensione politica in una questione criminale o in una questione morale e quindi favoriscono il tramonto del “politico”. In realtà l’Italia dal Sessantotto in poi, è stata un laboratorio estremamente interessante per cogliere il passaggio da un’età politica a un’età post-politica.

 

  1. Lo stile contestativo

Questo passaggio si articola in tre momenti che implicano una profonda trasformazione delle nozioni schmittiane di “nemico” e di “amico”. Questi tre momenti possono essere definiti come momento contestativo, momento protettivo e momento performativo. Tutti e tre sono momenti post-politici perché instaurano relazioni irriducibili a quelle descritte da Schmitt. Tutti e tre si pongono in un ambito che implica un profondo mutamento dei rapporti tra reale e immaginario: possono perciò essere definiti come stili. Per quanto abbiano recato profonde conseguenze pratiche, tuttavia la loro effettività è essenzialmente differente dalla effettualità politica tradizionale, perché implica un coinvolgimento molto maggiore dell’immaginazione.

Lo stile contestativo sostituisce il rapporto politico nemico-amico con il rapporto post-politico reo-compagno. La contestazione si presenta a prima vista come un’estensione della politica a tutti quegli spazi che ne erano tradizionalmente esclusi: non solo le relazioni economiche e quelle di lavoro, ma soprattutto quelle private e quelle scientifiche diventano oggetto di una critica radicale che si estende fino ai più piccoli particolari del comportamento e che scopre nelle abitudini apparentemente più innocue e consolidate significati e intenzioni che devono essere severamente biasimati e stigmatizzati. Contestare vuol dire in effetti aprire un dibattito pubblico, producendo testimoni contro qualcuno ritenuto colpevole. Il significato di questo procedimento non è tuttavia giuridico perché non mira a una sentenza, ma a un’autocritica: il reo deve riconoscere la propria colpevolezza e riscattarsi dai propri errori. La messa sotto accusa non è la premessa di una condanna, ma il momento iniziale di un processo di autoliberazione che dovrebbe coinvolgere l’intera umanità. Contrariamente al principio giuridico secondo cui ogni imputato deve essere ritenuto innocente, fintanto che non è stata provata la sua colpevolezza, il reo è già colpevole per definizione fin dall’inizio: ogni tentativo di autodifesa non fa che aggravare la sua posizione. Lo stile contestativo perciò non ha niente che fare con la mentalità giuridica, perché anche questa è oggetto di contestazione.

Analogamente tuttavia, nonostante le apparenze, lo stile contestativo non ha niente che fare con il “politico”, perché instaura un rapporto di reversibilità tra reo e compagno che è completamente estraneo al rapporto nemico-amico. Nella contestazione il reo di oggi è il compagno di domani: la messa sotto accusa è indispensabile affinché egli prenda coscienza e si liberi. Non è la guerra che costituisce il presupposto sempre presente della contestazione, ma al contrario la pace. Lo slogan “fate l’amore e non la guerra” mette in evidenza un aspetto essenziale della contestazione. Il reo non è mai un nemico reale, ma qualcuno che ha sbagliato e può essere rieducato. La fiducia nella resipiscenza dei rei non viene meno. Perciò lo stile contestativo non è violento, ma semmai pedagogico: esso ha fiducia nell’infinita plasmabilità dell’uomo. La contestazione congiunge utopismo e irenismo.

La reversibilità del reo in compagno tuttavia si accompagna alla reversibilità opposta: da compagno a reo. Il compagno della contestazione non è l’amico politico, non è colui che è legato per la vita e per la morte in un conflitto, ma piuttosto è quello che s’incontra nella messa in stato di accusa di un reo, nella petitio. I gruppi della contestazione si formano sulla base di una concordanza indiretta che passa attraverso la critica del reo. Il compagno di contestazione è un com-petitor, uno con cui si converge nella denunzia del reo. Ora proprio il carattere indiretto di questa concordanza non genera fedeltà, ma crea competizione. Non appena cade il bersaglio di una contestazione, il compagno si trasforma in com-petitor, competitore, concorrente, diventa così a sua volta oggetto di sospetto e di critica. Il compagno di contestazione è perciò il reo di domani, colui che sarà smascherato domani.

Questa reversibilità di reo in compagno e di compagno in reo ha reso la contestazione politicamente inconcludente. Nessun partito politico è nato dalla contestazione, ma solo una miriade di gruppi e di gruppetti che si sono scissi e qualche volta ricomposti in modo effimero. Ciò che unisce e ciò che divide non può essere soltanto la concordanza o la discordanza su un obiettivo negativo. Una dimensione essenziale del partigiano, dell’uomo di partito — dice Schmitt — è il suo carattere tellurico, cioè il rapporto positivo con la terra, con la patria, con la nazione. Lo stile contestativo è invece internazionale: il contestatore ritiene di poter trovare compagni ovunque, perché ovunque ci sono rei da contestare in massa. Questo internazionalismo si accompagna però a un isolamento radicale, senza paragone con le altre esperienze associative del passato: in effetti il contestatore può essere ovunque giudicato come reo. Egli non ha più un nemico che sia il suo alter-ego, che gli dia la misura, che si ponga sul suo piano; egli non ha più un amico che gli sia alleato pur essendo diverso da lui.

Lo stile contestativo è una combinazione di aggressività e di pacificazione, di conflittualità radicale e di irenismo utopistico, di polemica e di estetica che si regge su una tonalità emotiva trionfalistica. Quando questa Stimmung trionfalistica non può più essere mantenuta, lo stile contestativo crolla su se stesso come un castello di carte. Non è tuttavia la fiducia che un giorno vicino o lontano tutti saranno compagni a venire meno. Ciò che annienta il contestatore è la scoperta che un giorno vicino o lontano egli stesso possa essere contestato. Per allontanare lo spettro di questa enantiodromia, di questo capovolgimento, egli è pronto a mettere sotto accusa il compagno più prossimo: ma così non fa che accelerare la sua rovina.

 

  1. Lo stile protettivo

La scoperta della reversibilità dell’amicizia e dell’inimicizia costituisce il punto di partenza del secondo stile post-politico. Anche in questo caso le parole “amico” e “nemico” intese nel senso schmittiano sono completamente inadeguate. Dal momento in cui cade ogni punto di riferimento comune, non solo a una realtà tellurica, ma perfino a una teoria, a una concezione del mondo, a una forma culturale, le alleanze e le discordie sono stabilite soltanto dalla convenienza: la richiesta che il singolo rivolge al gruppo è innanzitutto una domanda di protezione contro chi lo ostacola nel raggiungimento dei suoi scopi. Il gruppo tende ad assumere perciò l’aspetto di un’agenzia di protezione, di una mafia, di un’associazione priva di qualsiasi fine che non sia quello di aiutare i propri membri. Il socio prende il posto del compagno. Le sue caratteristiche sono del tutto indeterminate: chiunque può diventare socio di chiunque. Le tematiche della liberazione e dell’anarchia, che avevano giocato nello stile contestativo un ruolo importante vengono intese in un’accezione che ne stravolge completamente il significato. Cade la barriera tra compagno e delinquente, che è essenziale per la tradizione rivoluzionaria dalle origini fino alla contestazione compresa. La malavita assume un ruolo e un’importanza senza precedenti storici moderni, imponendo le sue pratiche e i suoi stili di comportamento.

Lo stile protettivo è lo stile della delinquenza liberato dai vincoli posti dalle società tradizionali: esso è ormai liberato dalla cattiva coscienza che lo accompagnava. Ne deriva che il nemico non è più il reo da indurre ad autocritica: il nemico è il criminale da annientare, oppure da trasformare in socio. All’opposizione reo-compagno succede perciò una nuova opposizione post-politica: quella criminale-socio.

Lo stile protettivo non ha interessato soltanto piccole frange marginali della società italiana: ancor più di quello contestativo esso ha trasformato profondamente l’intera società italiana. Infatti su di esso si è modellato, dalla metà degli anni Settanta, il comportamento di molti circoli appartenenti a tutte le classi sociali, a tutti i mestieri e professioni. Entrare a far parte di un’agenzia di protezione, costituirne una ex-novo, trasformare le istituzioni, i partiti, i gruppi esistenti in agenzie di protezione è stata la preoccupazione principale di quanti non volevano essere emarginati dai processi sociali in corso. Lo stile protettivo, che in Italia apparteneva alla tradizione di alcune regioni italiane, si è esteso ovunque con effetti profondamente dissolvitori e in quelle stesse regioni d’origine si è sviluppato in forme degenerate e più violente.

La scomparsa del rapporto nemico-amico e la sua sostituzione con il rapporto criminale-socio rappresenta la massima divaricazione del rapporto tra sapere e potere, da cui è nata e si sviluppata la civiltà occidentale. A partire dal momento in cui all’antagonista si toglie sia la qualifica di nemico, di alter-ego, sia la possibilità di essere il compagno di domani (come nella contestazione), non gli si lascia che una sola possibilità: quella del pentito e del dissociato. Ma pentiti e dissociati non sono nemici, né amici: sono, a seconda dei punti di vista, solo ex-criminali che diventano soci, oppure ex-soci che diventano criminali.

Già nell’essere soci è implicito un reciproco disprezzo che è anche auto-disprezzo: un’alleanza che si mantiene soltanto ed esclusivamente sulla protezione, su una bilancia di scambi vicendevoli, e talvolta addirittura su complicità in azioni illegali o delittuose, nulla ha più che fare con l’amicizia politica. I soci, come gli ultimi uomini di cui parla Nietzsche, non stabiliscono tra loro un rapporto di comunicazione, ma ammiccano. Che cosa significa ammiccare? Scrive Heidegger: “Ammiccare significa: darsi una certa aria e far sì che qualcosa appaia in modo tale che si aspetti un esito positivo, pur essendo reciprocamente d’accordo, anche senza una formulazione esplicita, che non si terrà in seguito alcun conto di queste apparenze” (Che cosa significa pensare?, I, p. 77). L’ammiccamento è una determinazione fondamentale dello stile protettivo: il micare, il luccicare, lo sfavillare dell’occhio del socio implica l’intesa segreta che solo il profitto conta e che tutto il resto è fumo per i gonzi.

L’ostentazione dello stile protettivo, il superkitsch di cui esso si ammanta non è solo promessa truffaldina di aiuto e millantato credito, ma affermazione dogmatica della universale ignominia. Il criminale, terrorista o mafioso, è un socio potenziale: il suo tradimento, la sua delazione, il suo pentimento è dato per scontato, per ovvio. La mancanza di scopi impegnativi — che costituisce la prerogativa dello stile protettivo — si manifesta nella rapidissima reversibilità del criminale in socio. Il procedere dello stile protettivo è una continua e affannosa ricerca di nuovi soci e di nuovi criminali. Ciò che Heidegger dice a proposito della volontà di volontà illustra benissimo le sue caratteristiche: esso “comporta il calcolo che muta gli scopi e vi si impegna provvisoriamente di volta in volta, la mistificazione, i giochi di astuzia, lo spirito inquisitorio per il quale la volontà di volontà è diffidente e insidiosa anche verso se stessa” (Saggi e discorsi, p. 58). Nonostante la sua protervia e iattanza, la sua arrogante presunzione, la Stimmung dello stile protettivo è melanconica, se non isterica e disperante.

La fretta nell’avere ricambiato il favore, l’appoggio, il sostegno, la paura di riuscire perdente nella partita del dare e dell’avere, il sospetto nei confronti di tutti, offusca la corretta valutazione dei tempi e delle processualità, provoca errori, genera ineffettualità in un gioco in cui tutto dipende dalla riuscita pratica. La perfetta reversibilità tra socio e criminale finisce con il corrodere alle radici la volontà stessa, che diventa autodistruttiva.

  1. Lo stile performativo

Lo stile protettivo segna la riduzione del linguaggio, del sapere, del logos a mera decorazione, a inganno, a indicazione fuorviante. La strizzata d’occhio nei confronti dei soci, la violenza nei confronti degli avversari sono comportamenti che non hanno essenzialmente bisogno del linguaggio: la farsa che accompagna l’ammiccamento e l’invettiva che accompagna l’aggressione sono alcunché di posticcio e di falso. L’avvento di un terzo stile post-politico segna una completa inversione di tendenza e l’attribuzione di un ruolo essenziale al linguaggio, al sapere, al logos. Questo stile può perciò essere definito performativo perché in esso l’attenzione è portata sulla pragmatica del linguaggio, su quei fenomeni in cui dire equivale a fare qualcosa. La dimensione operativa del linguaggio prevale su quella costantiva e su quella valutativa: non interessa tanto come stanno le cose, né come devono essere giudicate, ma come possono funzionare. Lo stile performativo è connesso con l’informatizzazione della società, con l’incontro tra l’elettronica e gli strumenti di comunicazione, la produzione, la conservazione e la circolazione di data. Contrariamente a quanto pare a prima vista, non è affatto uno stile positivistico o scientistico, che privilegia il meccanismo e l’esprit de géométrie. Al contrario semmai si preoccupa dell’effettività dei comportamenti ritenuti come tradizionalmente non effettuali, come le formule della cortesia, i rituali, le cerimonie. La politesse risulta un elemento essenziale di questo stile.

Per definire l’aspetto relazionale positivo dello stile performativo, le determinazioni di amico, compagno, socio si rivelano del tutto inadeguate. A costoro succede il collega, colui che è collegato nella rete, nel network, nella circolazione dei data. Il collega performativo è colui che è in grado di potere a sua volta immettere nuovi data e far circolare quelli che riceve. Nella colleganza sono impliciti tutti i significati del verbo latino lego, che vuol dire innanzitutto raccogliere ciò che è sparso, ma c’è già. Nessuna tensione utopistica anima lo stile performativo: esso fa passare, trasforma, rende transitabili i data di cui si occupa, ma non li crea ex-novo. In secondo luogo, lego vuol dire riunire, mettere insieme non però nel senso di ridurre a un’identità unica il molteplice, bensì nel senso di ordinarlo in una collezione, in una serie, in un archivio. In terzo luogo, lego vuol dire scegliere: quindi non si tratta affatto di un’accettazione indiscriminata di tutto, ma nemmeno di una scelta nel senso schmittiano di Entscheidung, di decisione che divide e separa in modo inesorabile. La parola latina electio nel senso di fare proprio qualcosa che ci è dato è molto più conforme allo stile performativo. Infine lego vuol dire leggere: lo stile performativo implica una rivalutazione dell’importanza del sapere in generale e della filosofia in particolare.

Per definire l’aspetto relazionale negativo dello stile performativo, le determinazioni di nemico, reo, criminale si rivelano del tutto inadeguate. L’avversario della performatività è piuttosto chi non accetta di entrare a far parte del rapporto di colleganza, l’estraneo, l’inclassificabile, il singolare, l’unico. L’opposizione collega-unico è però la più reversibile che si possa immaginare, sia perché la pluralità e la ricerca di nuovi tipi di colleganza implica per definizione l’esistenza di spazi di unicità quanto mai ampli ed estesi, sia perché gli unici formano a loro volta una serie che sta accanto alle altre. Sotto questo aspetto lo stile performativo implica un’estrema attenzione alla singolarità e al suo rapporto con la duplicazione e moltiplicazione. Esso rappresenta perciò la manifestazione più radicale del post-politico.

Tuttavia non è escluso che lo stile performativo contenga in se stesso le premesse di un ritorno al “politico”. Ciò potrebbe avvenire a partire dal momento in cui il suo avversario venga ad assumere i caratteri del barbarico. L’opposizione collega-unico verrebbe distorta in quella incivilimento-barbarie. Il barbarico sarebbe tutto ciò che accade una sola volta, che è privo di ordine, che crea una rottura di intelligibilità nella rete, il prodigium, il fenomeno che genera orrore. Al polo opposto si troverebbero tutti coloro che ritengono l’esistenza di un collegamento tra gli individui, come un bene essenziale da difendere ad ogni costo. L’opposizione amico-nemico risorgerebbe allora come opposizione tra politico e barbarico.

È interessante osservare che le premesse di questo sviluppo sono presenti già in Schmitt, nel suo libretto dedicato all’Amleto shakespeariano. In esso Schmitt fa riferimento alla costituzione del “politico” nel suo triplice aspetto di politica, polizia e politesse nell’Inghilterra del XVII secolo. Il ritorno del politico passa dunque attraverso l’alternativa posta da Schmitt come titolo del suo libro: Amleto o Ecuba? Chi scegliesse Amleto, sceglierebbe il potere del sapere, l’incivilimento, l’ordine telematico, il collegamento sociale, in una parola il politico. Chi scegliesse Ecuba, sceglierebbe la debolezza del sapere, il lamento estetico e la protesta morale contro la cattiveria del mondo, l’isolamento, in una parola il barbarico.

 

di Mario Perniola