Ágalma 22 – Divismo/Antidivismo Torna al sommario del numero

Cristina Jandelli – Il divismo cinematografico contemporaneo: le star della politica, la politica delle star 


In quanto indispensabile parure degli oggetti attualmente prodotti, in quanto esposizione generale della razionalità del sistema, in quanto settore economico avanzato, che manipola direttamente una crescente moltitudine di immagini-oggetto, lo spettacolo è la principale produzione della società attuale.

Guy Debord

 

Le star della politica

Ne L’élite senza potere. Ricerca sociologica sul divismo, Francesco Alberoni definisce per differenza divi come Sophia Loren e Brigitte Bardot da altre celebrità oggetto del discorso sociale, come regnanti e uomini politici, rilevando che i primi non possiedono un potere istituzionale. I divi sono personaggi pubblici, spiega Alberoni, ma il loro agire sembra appartenere esclusivamente alla sfera del privato. Tutto il contrario di ciò che accade per i personaggi in vista della scena politica e del potere economico che vengono giudicati soltanto per il loro agire sulla comunità. “I divi possono divenire la fantasia della società”, scrive, “perché ad essi le vie del potere sono sbarrate” (Alberoni 1963: 11).

Nel periodo in cui Alberoni elabora e ripropone la sua teoria, né i divi del cinema né quelli musicali o sportivi occupavano posizioni elevate nel potere politico, patrimoniale o economico, secondo il sociologo neanche in forma occulta. Nel 1981 però si verifica un evento che inficia questo assunto: Ronald Reagan, atletico cowboy dello star system hollywoodiano che aveva girato oltre cinquanta film, diventa presidente degli Stati Uniti.

L’immagine divistica della vecchia star della Hollywood classica si travasa, senza alcuna forzatura, nell’immagine del leader della grande nazione occidentale che coniuga il mito della  frontiera selvaggia da civilizzare (incarnata nell’Impero del Male sovietico) con lo splendore di un sorriso  smagliante. L’ottimismo e la celebrazione del culto individualista sembrano la chiave del successo della presidenza Reagan: il mandato si conclude con una popolarità altissima. Il suo eloquio viene considerato strepitoso, e straordinariamente efficace l’identificazione con il tipo del cowboy ingenuo e idealista che aveva spesso interpretato in gioventù.

Il titolo dell’autobiografia di Reagan, Where’s the Rest of Me?, è tratto da una battuta da lui pronunciata in un film. Anche sua moglie Nancy è un’ex attrice cinematografica militante repubblicana. Il 31 marzo 1981 uno psicopatico tenta di assassinare Reagan per ingraziarsi la donna che ama, la star democratica Jodie Foster; l’emorragia al polmone non lo uccide né lo prostra: come in un film, la ferita si rimargina e Reagan torna a guidare la nazione. La sua sfida tecnologica all’Unione Sovietica, la Strategic Defence Iniziative, viene ribattezzata Guerre Stellari come la celebre saga fantascientifica di George Lucas. Reagan pronuncia nel 1987 una frase storica a Berlino, davanti alla porta di Brandeburgo, con l’enfasi generalmente riservata alla battuta chiave di un copione hollywoodiano (“Mr. Gorbachev, open this gate! Mr. Gorbachev, tear down this wall!”) e l’ex star dello studio system vince la guerra fredda, come fece notare la Thatcher, senza sparare un colpo. Il Grande Comunicatore (appellativo che lo accomuna a Karol Woytila, anche lui attore in gioventù) non è altro che un divo cinematografico che fin dal 1964 mette la sua immagine di intransigente tutore dei valori tradizionali americani al servizio della politica repubblicana. Nel 1966 era diventato governatore della California con una vittoria schiacciante sull’avversario democratico. In quell’occasione, un anno prima che uscisse La società dello spettacolo di Guy Debord, Reagan azzardò una similitudine sintomatica e profetica: “la politica è come un’industria dello spettacolo” (Drew 1981: 263).

Gli anni ottanta non sono solo il decennio in cui un divo di Hollywood diventa il leader della più influente nazione dell’occidente, ma anche quella in cui François Mitterrand viene eletto alle presidenziali francesi del 1981 grazie alla consulenza di un pubblicitario francese, Jacques Séguéla, che applica per la prima volta la sua teoria della star strategy , desunta dalla prassi hollywoodiana dell’epoca d’oro, a una campagna elettorale. Per motivi assai diversi, la presidenza Reagan e quella di Mitterrand rimandano alla concezione della star dell’epoca classica: Reagan perché ne è un esponente, Mitterrand perché la sua immagine è costruita in base ai precetti impartiti dal produttore indipendente più influente dell’epoca d’oro dello studio system, Samuel Goldwyn.

Nei primi anni del ventunesimo secolo stiamo assistendo a un progressivo potenziamento, ad una variegata formalizzazione, ad uno sviluppo coerente del processo iniziato negli anni ottanta, quando per la prima volta il marketing si è rivolto alle modalità di costruzione dei divi, elaborate a Hollywood dagli anni venti in poi, per proiettarle sul modo di comunicare un prodotto a livello pubblicitario. Alla copy strategy si è progressivamente sostituita, nell’ultimo ventennio, la star strategy che consiste nel trasformare la marca in una star. Secondo la teoria della star strategy, la marca-oggetto deve diventare una marca-persona, cioè i prodotti vengono considerati esseri viventi. Poi la marca-persona viene tramutata in marca-star perché le star del cinema possiedono tre qualità assolute per attirare su di loro il consenso del pubblico: convincono, seducono e durano nel tempo. Il consumatore viene indotto all’acquisto non più attraverso una presentazione delle caratteristiche oggettive del prodotto ma grazie a una strategia di comunicazione emozionale che agisce su un livello profondo e non razionale della coscienza. L’ideatore della star strategy, Jacques Séguéla, non si è limitato a creare questo nuovo orizzonte della comunicazione per i prodotti pubblicizzati (nel suo libro Hollywood lava più bianco scrive: “Ogni marca deve essere una stella, di qualsiasi grandezza possa essere, a qualsiasi altezza possa brillare”. Séguéla 1985: 22-23). Nel 1981 ha deciso di applicare la sua strategia di marketing a un candidato elettorale. E, grazie all’abile piano da lui predisposto, François Mitterrand vince le presidenziali francesi.

La regola aurea per creare una star era, secondo Samuel Goldwyn, rendere unico il suo fisico, il suo carattere e il suo stile. Oggi siamo nell’era dell’immagine, ingrediente base su cui, dall’inizio del novecento, ogni divo ha costruito, grazie alla sostanza visiva del cinema, il suo personaggio. Coerentemente al centro della comunicazione sono stati posti i processi di identificazione che il cinema ha esperito fin dal suo primo apparire: come lo spettatore si identifica nella star, così l’acquirente deve identificarsi nel prodotto perché il consumatore vuole sognare, ingannare l’infelicità, sconfiggere la noia. Ormai non si compra più per bisogno, i bisogni vengono creati, comprare significa accedere a una proiezione del sé di tipo affettivo. E la star strategy utilizza il “fisico” della marca per convincere, il suo “carattere” per durare e il suo “stile” per sedurre l’acquirente – o l’elettore. Intanto l’immagine divistica delle nuove star del cinema appare sempre più disciplinata dal culto della forma fisica, ma anche piatta e tautologica: è pura apparenza, segno visivo ispessito solo in superficie, anche perché le immagini dei personaggi del cinema postmoderno appaiono analogamente bidimensionali se non scheletrici. L’unico tratto essenziale che li accomuna è una cinica, irriverente ironia.

Vent’anni dopo l’insediamento alla Casa Bianca del presidente Reagan, all’inizio del ventunesimo secolo, a calcare le sue orme provvede la star di origine austriaca Arnold Schwarzenegger, iperfetazione del personaggio muscolare ideato da Sylvester Stallone nei primi anni ottanta e fra le principali icone responsabili di aver rilanciato il neodivismo hollywoodiano. Perché negli Stati Uniti,  parallelamente alla scoperta della star strategynel vecchio continente, il divismo stava vivendo una stagione di rilancio impensabile solo un decennio prima, quando la Nuova Hollywood aveva abbattuto i divi per liberare sullo schermo la forza degli attori, il primato della recitazione, il dominio della bravura, della tecnica, dell’Actors Studio. Stallone è la star della presidenza Reagan come Schwarzenegger lo diventa della successiva presidenza Bush: il fisico scultoreo che il reduce del Vietnam mostra nella trilogia dei Rambo impallidisce a paragone con quello da bodybuilder che il detentore del titolo di Mister Universo ostenta in ogni suo film. Questione di quantità: in Schwarzenegger albergano più muscoli, più azione, più inverosimiglianza, più immobilità facciale. Più che un personaggio è quasi un robot ed è infatti un cyborg a garantirgli la celebrità: con la serie dei Terminator la sua fama diventa planetaria. Bush senior insignisce il divo austriaco del titolo di portavoce del Council on Physical Fitness and Sports, carica che gli spiana la strada alla carriera politica come esponente del partito repubblicano. L’avventura ha inizio nel 2003 con la nomina a governatore della California. La star del  riconsolidato firmamento hollywoodiano decide di annunciare la sua candidatura a governatore nel talk-show televisivo più seguito d’America, The Tonight Show with Jay Leno, appena concluso il tour promozionale per Terminator 3: Rise of the Machines (Johnatan Mostow, 2003). La decisione è incerta fino all’ultimo perché l’attore austriaco intende ottenere l’avallo e il sostegno della moglie, Maria Shriver, influente esponente democratica della famiglia Kennedy, fino all’ultimo contraria alla sua candidatura politica nel partito avversario. Subito Schwarzenegger diventa il candidato più in vista della tornata elettorale ma anche quello di cui più si ignora il programma politico: non sembra però uno svantaggio, e neanche lo sforzo degli avversari di dipingerlo con tratti aggressivi e trucidi riesce a scalfire la sua immagine di eroe positivo costruita fin dalla seconda metà degli anni ottanta in film di fama come Codice Magnum (John Irwing, 1986), Red Heat (Danko di Walter Hill, 1988) e Total Recall (Atto di forza di Paul Verhoeven, 1990). Miscelando abilmente l’immagine divistica con quella del politico repubblicano, Terminator diventa il popolare “Governator”. I suoi rapporti con i media sono affidati all’attore Rob Lowe, famoso nel ruolo di consulente stampa in una fortunata serie televisiva. Nel 2004 il referendum che Schwarzenegger sostiene per avviare la schedatura dei codici genetici a fini di prevenzione anticrimine, autentico gesto da eroe fantascientifico, ha esito positivo; nello stesso anno i sondaggi di popolarità lo danno su percentuali mai raggiunte dallo stesso Reagan cui concorrono però, a sorpresa e in larga parte, anche elettori democratici. Dal 2007, riconfermato il mandato, l’impegno che Schwarzenegger profonde perché la California possa legiferare sulla riduzione delle emissioni inquinanti trasforma nuovamente la sua immagine: come molte altre star hollywoodiane ed ex attori della politica statunitense, l’impegno nella battaglia ecologista sembra rivestire un ruolo chiave all’interno dei diritti etici e civili, in illusoria sintonia con i nuovi rigurgiti di democrazia dal basso. Nel gennaio 2011, appena concluso il mandato, ha annunciato il suo ritorno al cinema in Terminator 5 di Justin Lin.

La scena politica americana possiede agli albori del secondo millennio un’aura divistica che non può spiegarsi altro che con una lunga familiarità contratta dalle istituzioni di Washington con il mondo dorato di Hollywood. Tanto più che questa similarità è storicamente databile almeno con l’avvio  della presidenza Roosevelt che all’inizio degli anni quaranta assegnò a Hollywood e ai suoi molteplici talenti, fra cui Orson Welles, un ruolo centrale nel suo progetto di rinascita della nazione dalla grande depressione. Dopo che l’ottimismo e la celebrazione del culto individualista del cowboy hollywoodiano sembrano essere stati la chiave del successo dei due mandati di Reagan, l’osservanza delle regole dello star system all’interno dell’agone politico non ha neanche bisogno di passare attraverso la rivoluzione del marketing che ha segnato quello europeo. È semplicemente un’evidenza a cui si assoggettano tutti, candidati e politici, cittadini ed elettori.

Il terzo e ultimo ko televisivo di John McCain contro Barak Obama porta la data del 16 ottobre 2008. Anche quel confronto viene vinto dall’attuale presidente degli Stati Uniti. Per David Gergen, consigliere di Reagan e Clinton, il motivo è chiaro: McCain ha dominato la prima metà del dibattito, ma quando è passato agli attacchi personali il suo volto si è trasformato in una maschera nervosa di sdegno e stizza che ha consegnato la vittoria a Obama. Sorpreso dalle telecamere a sbuffare, strizzare gli occhi e scrollare la testa, McCain perde per la terza volta contro un Obama imperturbabile, garbato anche di fronte agli attacchi più duri. Provvede YouTube a rafforzare l’impatto mediatico della performance del futuro presidente; ancora il canale Internet celebrerà, mesi dopo, la divistica danza presidenziale fra Barak e la moglie Michelle, e poco importa che Obama venga sorpreso a pestare lo strascico: il suo aspetto è e resta magnifico, la sua eleganza fisiognomica quasi solenne. Segno visibile, amplificato in un’epoca dove l’apparire è tutto, la cura dell’immagine è affidata a solerti consulenti, perché in base ad essa i candidati vincono, per colpa sua perdono.

In campagna elettorale è apparsa un’esigenza primaria per Obama allontanare da sé lo stereotipo mimico-gestuale dell’afroamericano, attestare all’inverso un’immagine simile a quella accreditata a livello internazionale dal divo Denzel Washington, a sua volta considerato l’erede di Sidney Poitier,  entrambi interpreti di personaggi di colore colti, raffinati e intimamente positivi, ma anche attori capaci di esercitare un lucido controllo sulla gestione del loro corpo. Sia Washington che Poitier contribuiscono a suggerire un modello di afroamericano che conduce direttamente dalle battaglie contro la discriminazione razziale degli anni sessanta arrivando ad oggi, legato alla rappresentazione di un tipo rispettabile e autorevole.

Quella di Obama, che decreta la vittoria su McCain, si direbbe una recitazione sottrattiva, all’insegna della misura. Misura che nel linguaggio mimico-gestuale della cultura americana viene assimilata al decoro, quindi associata alla virtù. Al contrario l’eccesso è stigmatizzato come portatore di disordine, quindi di minaccia sociale, segno di un’alterità legata all’appartenenza ad una minoranza etnica. L’eccesso mimico-gestuale è nero, ma è anche latino. Rodolfo Valentino, l’attore italiano che ha segnato la nascita del divismo americano classico, costituisce un modello ideale su cui l’immagine di Obama si innesta. Quasi tutte le riprese ravvicinate sul volto dell’attore del muto – scuro, palesemente scuro di pelle; capelli neri lucidissimi, occhi allungati dallo sguardo profondo, inoccultabile fisionomia latina – sono segnate da una recitazione che riduce al minimo l’espressività. Valentino rese credibile, attraverso una mimica estremamente contenuta e controllata, una gamma assai ampia di sentimenti complessi eppure limpidi, perché perfettamente leggibili sul suo volto e attraverso i suoi gesti, a volte marcatamente femminei, non solo perché fu prima ballerino che attore.

La strategia di Valentino ad Hollywood, riguardo ai codici della rappresentazione cinematografica, pare l’antecedente più illustre di quella adottata da Obama scrutato dalle telecamere e posto davanti all’avversario che perde le staffe e si scompone: la sfida consiste nel cancellare lo stereotipo etnico sostituendogli una maschera imperturbabile, impassibile, appena atteggiata. Lo scopo è connotare l’immagine attraverso i segni del decoro, della misura e quindi della virtù; ricacciando indietro il sospetto del disordine, del caos, della minaccia sociale. Fortuna vuole, per Obama, nell’incontro televisivo decisivo per la vittoria elettorale, che l’avversario maldestro prenda su di sé questo peso, rovesciando significativamente, e in modo non progettato, il gioco delle parti: il veterano McCain, punzecchiato, finisce per eccedere.

È ancora difficile comprendere perché in Italia si sia esaurito il sistema divistico che negli anni sessanta ha reso splendida la stagione più florida del nostro cinema. Se Sophia Loren continua le sue apparizioni rivestita di un’aura ormai mitica che ricorda a tutti il suo primato indiscusso nello star system italiano di ogni tempo, sulla sua scia sembra ormai muoversi solo un’emula con residenza francese, Monica Bellucci, che continua ad alternare sortite vincenti come attrice nel cinema italiano, francese e soprattutto hollywoodiano (Matrix Reloaded e Matrix Revolution, 2003, La passione di Cristo di Mel Gibson, 2004) con esibizioni da top model (calendari e passerelle, indossando chili di gioielli per le multinazionali del lusso) e super testimonial (spot d’autore, soprattutto). Il resto – a parte forse la figlia d’arte Asia Argento, cattiva ragazza assai corteggiata dalle marche del glamour per giovanissimi – sono al massimo bravi attori e brave attrici, ma nessuno in grado di creare un’immagine che interpreti, come illustre mediatore sociale e culturale, questa nostra epoca.

Così in Italia l’unica grande celebrità dell’ultimo quindicennio proviene dall’altro potere mediatico, quello televisivo: Silvio Berlusconi, da giovane cantante e intrattenitore sulle navi da crociera, crea a partire dalla fine degli anni settanta quel che diverrà un vero impero televisivo e nel 1994 si candida alle elezioni politiche diventando presidente del Consiglio per quattro mandati, a cavallo fra gli anni novanta e il decennio successivo. La sua immagine appare maniacalmente curata. Sempre sorridente, lo sforzo di mantenere a dispetto dell’età un aspetto giovanile non viene nascosto, come nel caso del trapianto di capelli documentato dai servizi giornalistici, o le tante fotografie che lo immortalano mentre fa jogging circondato dal suo entourage politico e mediatico: la sua immagine pubblica gareggia con quella dei presidenti americani, anche e soprattutto quando si tratta di apparire in televisione. Il trucco appare studiato come la calza fatta montare sull’obiettivo della telecamera per ottenere un effetto flou, la programmazione delle modalità dell’apparizione (o dell’assenza) è attentamente calcolata: ad esempio dopo la sconfitta elettorale del 2006 Berlusconi decide di non comparire per un anno sui teleschermi e nella campagna elettorale del 2008 si sottrae al faccia a faccia con l’avversario per un calcolo politico che si rivela esatto. L’arte del sorriso e della bonomia (celebre il modo con cui intrattiene i giornalisti con battute e barzellette) si rivela vincente: Berlusconi trasmette affabilità e affidabilità, crea distensione e dà sicurezza, ma soprattutto la sua immagine televisiva riesce a creare una significativa distanza con i lati in ombra della sua fortuna economica legati alle varie vicende giudiziarie. È su questo terreno che lo sfida apertamente, uscendo nelle sale italiane pochi giorni prima delle elezioni del 2006 con Il caimano, Nanni Moretti, unico autore-attore-divo del cinema italiano contemporaneo che in questo film offre una rappresentazione simbolica dello scontro in atto fra i due poteri mediatici rivali: cinema (rigorosamente d’autore e con pedigree internazionale, battezzato da Berlino e adottato in pianta stabile da Cannes) contro televisione (la nuova incalzante declinazione del potere persuasivo dei media).

Il personaggio morettiano, sullo schermo e fuori da esso, fin dai tardi anni settanta (quelli della liberalizzazione delle frequenze televisive da cui ha inizio la fortuna di Berlusconi) è un antagonista che trasforma il sé in una forma di rappresentazione orgogliosamente autarchica e autoreferenziale, solo all’apparenza in stridente contraddizione con la sua epoca. L’appassionato cronista di un tempo che ha perso ogni passione per l’angoscia, condizione ermeneutica della modernità, non si rifugia nella deriva della soggettività – come spesso è accusato di fare per il fatto di essere anche l’attore protagonista dei suoi film – ma, al contrario, utilizza il narcisismo come scarto, principio dinamico ed elemento residuale di un confronto in continua evoluzione. Il motto morettiano, “uguali ma diversi”, è una perfetta illustrazione della condizione dell’uomo contemporaneo: la coabitazione degli opposti è certo il suo paradigma epistemologico ma non è detto che sia una condizione indolore. Nel 2002 Moretti diventa il leader di un movimento politico che non mira al riconoscimento istituzionale ma desidera farsi portavoce del diffuso disagio nei confronti della classe politica: avversario del centrodestra al governo, il movimento dei Girotondi rimprovera al  centrosinistra la sua incapacità di fare un’opposizione efficace e se ne incarica facendosi promotore di azioni politiche autonome. Se Berlusconi era “sceso in campo”, Moretti scende in piazza: a un comizio del centrosinistra, dopo i leader politici, l’attore-regista prende la parola per pronunciare frasi di fuoco contro chi aveva appena parlato. I girotondisti poi circondano il Palazzo di giustizia di Roma e indicono una giornata della legalità a cui partecipano decine di migliaia di simpatizzanti. Ancora nel 2004 manifestano davanti a Montecitorio contro una legge del centrodestra. In quella occasione Moretti spiega ciò che chiede alla sinistra: di essere moderata e intransigente. Un ossimoro in puro stile morettiano. Due anni dopo perfino i detrattori dell’attore-regista sono costretti a indicare nel colpo di scena finale de Il caimano, dove Berlusconi viene sottoposto a giudizio in tribunale e in sua vece compare all’improvviso l’attore-regista romano, come un momento oscuramente eccitante del film. Fedele al pensiero postmoderno, abitato da figure in transito permanente e da identità dislocate che si scambiano di ruolo, Moretti pronuncia frasi realmente dette da Berlusconi, ma è il suo volto dall’espressione feroce, gradatamente inquadrato in primo piano, a colpire, oltre al tono intimidatorio con cui le parole vengono proferite. Moretti esce dal suo trentennale personaggio cinematografico di narciso moralista e fa dimenticare quel Berlusconi che è stato incarnato, all’inizio del film, da Elio De Capitani, attore fisicamente e gestualmente simile al presidente del consiglio. Così un’alterità minacciosa si insinua nell’immagine di Moretti-Berlusconi, personalità all’antitesi per appartenenza politica e rappresentanti di due poteri mediatici contrapposti e interdipendenti, cinema e televisione. Sono due perfetti avversari che si confrontano, ibridando le loro forme, sulla scena mediatica e politica del nostro tempo.

 

La politica delle star

All’inizio del ventunesimo secolo, sfere d’influenza un tempo distinte tendono a confondersi e a mescolarsi: la politica e il marketing, il divismo e il consumo, le battaglie civili e una sapiente costruzione dell’immagine. Così non deve sembrare un paradosso il configurarsi di un singolare processo di scambio: mentre i prodotti si trasformano in star e la politica ne crea di nuove, a Hollywood i veri divi sono diventati marche influenti, in grado di orientare l’opinione pubblica. Agli albori del nuovo millennio infatti il loro potere di seduzione e la capacità di emozionare, uscito ben al di fuori dei confini ristretti del mondo del cinema, vengono applicati e stabilmente associati a qualsiasi sfera della vita civile. Soprattutto, i divi hanno conquistato il potere di legare la propria immagine a quella di alcuni beni, materiali e immateriali, che rappresentano a livello simbolico le sfide più delicate del presente. Questo accresce il loro potere, in un ciclo virtuoso che si autoalimenta, sia sulla scena pubblica che nella contrattazione con il potere economico e decisionale della macchina hollywoodiana da cui pur sempre dipendono a livello professionale.

Fin dal neodivismo degli anni ottanta, le star hollywoodiane hanno potuto esercitare una forma di controllo attivo sulla loro carriera, grazie anche ad agguerrite agenzie, come la William Morris, la Creative Artists Agency e la International Creative Management, incaricate di guidate le loro scelte professionali. Nel tempo gli agenti si sono dimostrati capaci di influenzare la composizione del casting di un film, nucleo originario determinante al fine della sua concreta realizzazione e decisivo anche per lanciare i nuovi divi. Le star si sono gradualmente impadronite dell’intero processo di costruzione e sfruttamento della loro immagine, storicamente appartenente alle grandi case di produzione da cui venivano stabilmente scritturate nel periodo classico. Quando le Major possedevano i diritti di sfruttamento dell’immagine e della voce – non solo legati alle pellicole ma anche a ogni apparizione della star in contesti differenti -, i divi erano totalmente controllati dall’apparato: nulla sfuggiva al dominio della produzione cinematografica hollywoodiana. Nel nuovo millennio la situazione si presenta ribaltata: sono le star che, decidendo quale film opzionare, hanno un forte controllo su quali progetti verranno varati.

L’era del corporate blockbuster ha accresciuto il potere dell’attore-divo sull’approvazione di un film a Hollywood. Nella star, infatti, è personificato il concetto stesso della pellicola. I maggiori divi americani, considerati come esemplari unici e dotati di qualità individuali esaltate da ogni performance filmica, nel tempo si sono rivelate determinanti nella creazione degli high concept movie, tanto da venir scritturati direttamente in fase di pre-produzione: il pagamento del loro compenso viene onorato anche quando i film, del cui successo economico la loro presenza si fa garante, non vengono poi realizzati. Le cifre d’ingaggio sono sempre crescenti e ormai esorbitanti. I divi di Hollywood prevendono ai produttori la loro immagine filmica che garantisce appeal al progetto cinematografico: per lo più su questa base l’ideazione di un film a largo budget trova i finanziamenti necessari a innescare il processo produttivo. In questo modo il costo della star si rivela sproporzionato al budget complessivo e il divo-brand ha finito per acquisire un valore di mercato di molto  superiore a quello conosciuto in precedenza.

Le star hollywoodiane dell’epoca classica reclamizzavano per lo più prodotti di bellezza, sigarette e liquori di marca: i proventi delle campagne pubblicitarie spettavano agli studios che possedevano i diritti sulla commercializzazione della loro immagine. Le star contemporanee, che al contrario detengono il pieno controllo della loro immagine, sono contese come testimonial dalle più grandi multinazionali del lusso su scala globale. I grandi atelier e i maggiori stilisti, per l’alta moda come per il prêt-à-porter, ingaggiano le dive hollywoodiane per campagne pubblicitarie lanciate su scala globale mentre i maggiori produttori di gioielli e orologi corteggiano quelle maschili. La star cinematografica nel nuovo secolo è un testimonial costoso quanto infallibile nell’incarnare il potere seduttivo degli oggetti di lusso, i più desiderati e in grado di simboleggiare lo status sociale elevato dei loro possessori. I maggiori divi hollywoodiani rappresentano, nel secondo secolo del cinema, la nuova aristocrazia del gusto: per questo i grandi stilisti corteggiano ognuno di loro e, compensandoli con cifre enormi, utilizzano i red carpet per associare il capo d’alta moda o il gioiello da emiro all’immagine seducente della  star. All’inverso i media commentano le passerelle degli Oscar o dei grandi festival internazionali come sfilate di moda. Dalla fine degli anni ottanta si determina anche la progressiva estensione del potere delle star nell’ambito della produzione cinematografica: l’elenco dei divi-produttori e dei divi-registi è ormai molto lungo, perché l’attività produttiva certifica lo status del divo. Se è davvero di prima grandezza, può dirigere o produrre film propri e altrui spendendo il suo nome come garanzia del progetto.

Le superstar del ventunesimo secolo possiedono case di produzione come catene di negozi: è celebre il caso dell’impresa di ristorazione denominata Planet Hollywood che nel 1989 vararono Arnold Schwarzenegger, Sylvester Stallone, Bruce Willis e Demi Moore, cioè i principali protagonisti dell’action-movie del decennio, mentre all’inizio del ventunesimo secolo si distingue il locale Man Ray di Parigi di proprietà di star “radical” come Johnny Depp, Sean Penn e John Malkovich. Ma il divo-brand in realtà può vendere, promozionare e pubblicizzare di tutto, dagli alcolici alle macchinette per il caffè, dalle associazioni umanitarie a un candidato della campagna elettorale alla presidenza. Il riferimento va, ovviamente, a George Clooney di cui all’inizio del 2008 i settimanali di tutto il mondo hanno diffuso un’immagine di copertina particolarmente significativa. In primissimo piano a destra, ma sfocato, compare il volto di Barak Obama; al centro dello scatto, perfettamente a fuoco, Clooney – affascinante nell’evidente sforzo di concentrazione – che ascolta il suo discorso. Il candidato democratico alle presidenziali americane è al centro dell’agone politico ma i media scelgono, per rafforzare la sua immagine, di focalizzare l’attenzione sul suo celebre sostenitore, la star hollywoodiana la cui abbronzatura permanente, fra l’altro, accorcia le distanze con il problematico meticciato razziale di Obama.

Anche così è nata la leggenda della “lobby Ocean”, dal titolo di una fortunata serie di film diretti da Steven Soderbergh (Ocean’s Eleven, 2001; Ocean’s Twelve, 2004; Ocean’s Thirteen, 2007), che vedono George Clooney impegnato nel ruolo di un ladro gentiluomo. Al suo fianco altre grandi star – Brad Pitt, Julia Roberts, Matt Damon, Catherine Zeta-Jones, Andy Garcia, Casey Affleck, Elliott Gould – condividono con Clooney, con il suo sodale Soderbergh e con la celebre moglie di Pitt, Angelina Jolie, scelte politiche nette e un infaticabile impegno sociale e civile che sembra far riemergere, nel panorama contemporaneo, alcuni tratti dell’antidivismo proclamato dalle star impegnate degli anni sessanta e settanta. Fra le istantanee di un’ideale galleria di Clooney vanno infatti posti incongruamente al fianco i molteplici personaggi cinematografici, sempre così seducenti, autoironici e intimamente etici – a partire da quello televisivo, l’indimenticato pediatra di E.R. Medici in prima linea – con l’immagine mediatica dell’ambasciatore Onu nel Darfur che si spende nella causa di un conflitto dimenticato mentre dichiara senza reticenze di lavorare per le multinazionali: a suo avviso tutto ciò non andrebbe considerato contraddittorio a patto di alzare la posta e di riuscire, con il supporto del grande potere economico, a portare alla luce questioni politiche e sociali rilevanti. Il modello dunque viene ancora dagli anni ottanta, dal primo Live Aid (1985) e dalla successiva indefessa militanza politica di Bono, il cantante leader del gruppo rock degli U2.

Negli ultimi anni i divi liberal di Hollywood, capeggiati da Leonardo DiCaprio che nelle elezioni del 2004 ha partecipato attivamente alla campagna elettorale del democratico John Kerry, hanno messo collettivamente fama e bellezza al servizio di cause civili, sociali, politiche e  umanitarie, seguendo l’esempio di star classiche come Audrey Hepburn che, dal 1988 fino alla morte, si è dedicata totalmente all’infanzia violata sostenuta dall’Unicef in qualità di ambasciatrice speciale o di Elizabeth Taylor che è stata fra le fondatrici, dopo la morte per Aids dell’amico Rock Hudson, della potente  American Foundation for AIDS Research (amfAR). Sempre in prima linea nella raccolta di fondi per come nei viaggi in Africa – accuratamente documentati dai media del gossip internazionale – nella creazione di associazioni no-profit come nella ricostruzione di luoghi devastati per cause naturali, nella militanza a favore dell’Onu e in quella per le associazioni non governative, le star più in vista negli ultimi anni hanno gareggiato primeggiando in virtù filantropiche: la loro immagine e il loro corpo sono stati ampiamente impiegati al servizio di varie battaglie civili. Mostrando una certa fantasia c’è chi ha messo all’asta un bacio (George Clooney) e chi un servizio fotografico sulla nascita della figlia (Angelina Jolie e Brad Pitt): tutto ciò, evidentemente, ha garantito un ritorno d’immagine immediato di segno virtuoso, compresa l’apparizione al fianco dei Nobel per la pace per sostenere le loro missioni. All’indomani del disastro ambientale causato a New Orleans dall’uragano Kathrina (2005), Brad Pitt ha varato insieme all’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton un piano di ricostruzione mettendo la propria passione per l’architettura al servizio della progettazione di nuovi alloggi popolari. Leonardo DiCaprio si presenta nel suo profilo su MySpace come “attore e attivista ambientale”, tanto da prestare la propria immagine a un documentario in cui cinquanta scienziati di fama internazionale discutono sul futuro a rischio del pianeta (The 11th Hour, 2008, prodotto dallo stesso DiCaprio). Altri divi hanno invece stabilmente legato nei primi anni del Duemila il loro nome alla rinascente spiritualità new age: Richard Gere è divenuto l’uomo immagine del Dalai Lama, Tom Cruise, anche a costo di mettere a repentaglio il suo contratto plurimiliardario con la Paramount, quello di Scientology. In un panorama complessivo assai composito, questa tendenza ad associare l’immagine divistica con la militanza per cause di rilevanza sociale, spirituale e umanitaria può dirsi stabilmente realizzata, tanto che a Hollywood è ormai divenuta moda, e prassi per le celebrities, l’adozione di bambini del terzo mondo.

Una nuova configurazione dell’universo simbolico legato al culto delle celebrità si presenta all’insegna del tema della fertilità: in epoca contemporanea l’inesausto valore mitopoietico del divismo passa attraverso l’esibizione della maternità, e in secondo luogo della paternità. Grandi pance nude, ventri prominenti fasciati, abbronzati, orgogliosamente mostrati si diffondono su vecchi e nuovi media: le star femminili manifestano un inedito entusiasmo nei confronti della gravidanza, l’ultimo tabù infranto. Nel 1991 Demi Moore è stata la prima ad esibirsi, immortalata dalla celebre fotografa Annie Leibovitz, nuda e incinta su una copertina, ma prima di allora era considerato disdicevole per le star mostrarsi in pubblico durante la gravidanza. Mentre le donne occidentali hanno finito per sottomettere la procreazione alle esigenze professionali, le star di Hollywood fanno figli e l’evento viene celebrato in pubblico attraverso migliaia di scatti rubati da paparazzi a caccia di star in dolce attesa. I divi incarnano il mito della fertilità in un’epoca segnata dal tasso zero delle nascite nelle società occidentali. Anche la vita privata è soggetta a diritti di prevendita: il divo prolunga il valore della sua marca investendo sulla riproduzione biologica. Così anche il momento della nascita diventa spettacolo.

Negli ultimi anni il baby-boom della Mecca del cinema non accenna a diminuire, anzi un clamore mediatico crescente accoglie l’esibizione di padri celebri che spingono passeggini, porgono biberon e accudiscono amorosamente i propri neonati. Uno scatto rubato a un divo che si occupa dei suoi figli vale più di tante esibizioni in passerella. Madri e padri negligenti, al contrario, vengono esposti alla gogna mediatica. Progressivamente l’immagine divistica della star investe i figli delle celebrità corteggiati dalle multinazionali dell’editoria che si contendono per milioni di dollari l’esclusiva per un servizio fotografico sui piccoli eredi. L’ultima tendenza, lanciata da Madonna e dalla coppia Pitt-Jolie, consiste nel programmare un viaggio, accuratamente documentato da reporter al seguito, nei paesi del terzo mondo per iniziare in loco pratiche di adozione che permettano di creare una famiglia solo per metà biologica. Negli anni ottanta l’allora moglie di Woody Allen, Mia Farrow, ha inaugurato la vocazione a comporre la famiglia con figli provenienti dai più diversi paesi, e negli anni novanta un’altra ex-coppia di star all’epoca molto in vista, Tom Cruise e Nicole Kidman, ha compiuto la stessa scelta. Negli anni Duemila le star femminili devono anche essere madri naturali e poter esibire la loro gravidanza su copertine patinate per poter poi decidere, secondo un preciso schema di filantropia mediatica, di adottare un bambino dei paesi poveri. I bambini perduti nelle pieghe statistiche dei tassi decrescenti di natalità sono così diventati i nuovi idoli della società occidentale: ad essi loro le star affidano il ruolo di tutori e garanti della loro immagine pubblica.

di Cristina Jandelli

 

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