Diana J. Fembonne – La decomposizione del sistema americano


Siamo in molti a chiederci come mai gli Stati Uniti abbiano nel giro di pochi mesi dilapidato quel patrimonio di solidarietà e di simpatia che l’11 settembre aveva creato intorno a loro ed abbiano adottato una politica estera militaristica, aggressiva e intimidatoria, di cui le guerre dell’Afghanistan e dell’Irak sembrano essere solo le prime manifestazioni. Tale politica contraddice i modelli economici e culturali di cui gli Stati Uniti sono stati i portatori negli anni Novanta, individuabili nel fenomeno della new economy e in quello che Luc Boltanski, sulle colonne di questa rivista, ha chiamato il “terzo spirito del capitalismo”: infatti il bellicismo è l’esatto contrario di quei valori di libertà e di creatività che con tale spirito sarebbero connessi. A meno di non ritenere la guerra come la conseguenza logica del prometeismo e del faustismo implicito nella rivoluzione tecnologica degli anni Novanta, risulta difficile capire il senso di questa svolta che proietta una luce sinistra ed inquietante sul clima culturale effervescente e trasgressivo degli anni Novanta, orientato verso l’apertura di nuovi orizzonti in tutti gli ambiti scientifici, artistici e culturali. Ma tanto l’aspetto culturale della new economy quanto le tendenze “postumane” che hanno caratterizzato l’arte emergente in quell’epoca, si fondavano sul presupposto ottimistico che la guerra era scomparsa con il crollo dell’Unione Sovietica dal nostro orizzonte: pertanto il nuovo millennio sarebbe stato semmai definibile come “post-storico”.

Le grandi domande intorno a cui ruota il presente malessere sono pertanto queste: le nostre società hanno davvero subito una brusca inversione di tendenza passando dal pacifismo post-storico al militarismo statalistico? Il fronte degli stati pacifisti (Francia, Germania e Russia soprattutto) sarebbe davvero un insieme di paesi arretrati avviati verso il declino? In che direzione va “la forza delle cose”, sulla quale gli uomini hanno ben poca influenza? Il dispotismo orientale – su cui mi sono soffermata nel mio intervento sul modo di produzione asiatico (vedi “Ágalma” n. 3) – avrebbe investito anche l’Occidente, trasformando le nostre democrazie in autocrazie plebiscitarie? La retorica apologetica della comunicazione globale, su cui si regge tanto utopismo in buona fede, sarebbe semplicemente volgare propaganda politica non dissimile da quella svolta in passato dai totalitarismi? In altre parole, la svolta militaristica ci riporta drasticamente ad una logica realistica secondo la quale ciò che conta è solo la potenza militare?

Pur avendo partecipato alle manifestazioni pacifiste, non nascondo di avere nutrito non poche perplessità circa la realtà del fenomeno che contestavo: mi sembrava infatti impossibile che quelle persone scettiche e disincantate che sono i miei contemporanei occidentali potessero di colpo trasformarsi in eroi potenziali, pronti a morire per gli interessi degli Stati Uniti o per la causa dell’Occidente o per qualsiasi altra causa (compresa quella della pace!). Una conferma del mio sospetto viene dall’importante volume di Emmanuel Todd il cui titolo suona Après l’empire. Essai sur la décomposition du système américain (Paris, Gallimard, 2003). Secondo Todd, la stragrande maggioranza del mondo (compresa una larga parte delle società islamiche) vuole vivere in pace e lo stato del mondo (considerato sotto il duplice aspetto dell’alfabetizzazione e del controllo delle nascite) è nel corso dell’ultimo decennio migliorato ovunque (con l’eccezione di alcuni stati africani). Ciò non esclude la presenza di crisi di transizione, all’interno delle quali vanno interpretati i fenomeni dell’integralismo islamico: il fanatismo religioso non è una regressione al medioevo, ma un momento transitorio non dissimile dal ruolo svolto dalla Riforma protestante nelle nostre società. L’idea delle moltitudini sovversive e lo spettro del terrorismo universale sono miti mediatici che dimenticano le crisi di crescita delle società occidentali.

Si tratta peraltro di miti che sono funzionali rispetto alla recentissima scelta strategica degli Stati Uniti, i quali hanno bisogno di diffondere un clima di insicurezza e di paura. Lo stesso neomilitarismo americano è un bluff! Todd lo chiama una specie di “micromilitarismo teatrale”, che si avventa su stati che, come l’Irak, hanno una potenza militare insignificante, per nascondere una realtà molto più grave e preoccupante: il declino e la decomposizione dell’impero americano! Perciò il libro di Todd non è affatto rassicurante: anzi apre uno scenario geopolitico nel quale i grandi stati continentali sono destinati a veder peggiorare le loro relazioni. Se c’è uno scontro di civiltà, questo non è tra l’Occidente e l’Islam, ma tra gli Stati Uniti e l’Europa.

L’impero americano, infatti, secondo Todd, appartiene al passato. Esso ha ottenuto il suo massimo successo nella seconda metà del Novecento, cioè nel periodo compreso tra il piano Marshall e la rivoluzione digitale. Oggi gli Stati Uniti conoscono una gravissima crisi che si manifesta su tre piani distinti: economico, militare e culturale. Sul primo piano, la nazione americana si è trasformata in un paese di consumatori, più dipendente dal resto del mondo di quanto il resto del mondo dipenda da lei. Il suo deficit commerciale ha assunto dimensioni gigantesche. Il grande afflusso di capitali da ogni parte del globo verso il dollaro statunitense sta per esaurirsi, non a causa dell’11 settembre (evento che appare a Todd molto meno importante di quanto i media ci fanno credere), ma per l’insicurezza degli investimenti e delle frodi contabili, messe in luce dall’affare Enron e dall’affare Andersen. Infine anche l’aspirazione dei ricchi di tutto il mondo ad essere cooptati nell’oligarchia economica statunitense non sembra coronata da successo. Sul piano militare, gli Stati Uniti sono ovviamente la massima potenza mondiale, ma il loro potere se è largamente sufficiente per proteggere la nazione americana non è in grado di tenere sotto controllo l’intero pianeta. Secondo Todd, la Russia sta ritornando negli ultimi anni sullo scacchiere mondiale come potenza anche militare: a differenza degli Stati Uniti, essa è economicamente indipendente ed ha abbandonato le pretese egemoniche del passato.

Contrariamente ad un’interpretazione molto diffusa, non sarebbe l’interesse diretto nei confronti del petrolio l’unica e la più sostanziale ragione dell’interesse frenetico che gli Stati Uniti hanno per il Medio Oriente: infatti i paesi del Golfo Persico coprono soltanto il 18% del fabbisogno americano di petrolio (dati 2001). Molto più importante sarebbe assicurarsi che il controllo di questa fonte d’energia non cada nelle mani dell’Europa e del Giappone. Infine sul piano culturale gli Stati Uniti sembrano avere abbandonato quei principi universalistici che nell’antichità furono alla base del successo dell’Impero romano e che costituiscono l’eredità più importante della Rivoluzione francese e di quella russa.
La conclusione a cui giunge Todd è che il micromilitarismo teatrale americano è la manifestazione non della forza, ma della debolezza degli Stati Uniti. Attraverso l’istericizzazione mediatica di conflitti secondari, gli Stati Uniti cercano di reagire alla sensazione di essere diventati inutili sulla scena mondiale, nella speranza di conservare ancora per un po’ di tempo il ruolo di unica e indispensabile superpotenza del globo. Se ci si ricorda che Todd preannunciò già nel 1976, nel volume La chute finale. Essai sur la décomposition de la sphère soviètique (Paris, Robert Laffont, 1976), il crollo dell’Unione Sovietica, la sua metodologia di tipo antropologico e demografico, attenta alle piccole variazioni statistiche, merita un’attenta considerazione. Colpisce il fatto che tutta la sua analisi prescinda dall’uso delle categorie politiche tradizionali di destra e di sinistra.

D’altra parte queste categorie sono inadeguate per spiegare la situazione che si è creata a partire dal momento in cui la politica americana ha reintrodotto la guerra come un’opzione possibile. L’analisi di Todd mi consente infatti di capire il disagio che ho provato nel vedere uniti nella difesa della pace la destra francese, la sinistra tedesca, il centro russo, i cattolici, nonché i fifoni e i pantofolai di tutti i paesi e di tutti i colori. Nei confronti delle grandi forze antropologiche e demografiche studiate da Todd, le lotte politiche tradizionali decadono a questioni locali. Il rischio è che guardando da così lontano, prevalga un’attitudine contemplativa che esclude ogni possibilità di impegno. Tuttavia di fronte all’arroventarsi del mondo (di cui le attuali vicende sarebbero solo un’anticipazione) e al “falso allarme permanente” intrattenuto dai media, solo uno sguardo scientifico-filosofico (cioè fenomenologico), che non si stanca di vedere le cose secondo parametri universali, può consentire un minimo orientamento. In fondo, anche questa è una forma non trascurabile di impegno, se non si accompagna ad un senso di frustrazione e di impotenza. Ma i primi a sentire questa impotenza sarebbero proprio i governanti.

(Traduzione dal portoghese di Mario Perniola)