Enea Bianchi – Contro gli artisti. Tanizaki Jun’ichirō e l’uomo d’arte


Ritualità estetica e tradizione

Si usa far coincidere la nascita del Giappone moderno con l’inizio della Restaurazione Meiji (1868). In quegli anni il potere politico e militare decadde dallo shogunato Tokugawa (cominciato nel 1603) e ritornò effettivamente nelle mani dell’Imperatore. Gli oligarchi, che accompagnavano quest’ultimo nel governo del Paese, attuarono sia politiche conservatrici sia innovatrici: conservatrici perché, appunto, favorirono una restaurazione politica che guardasse all’identità millenaria del Giappone stesso; innovatrici poiché di lì a poco avrebbero privilegiato una modernizzazione su tutti i fronti. Da questo periodo in avanti il Giappone, non a caso, modernizzò l’apparato statale, l’industria, le infrastrutture, il settore agricolo, quello educativo, economico, culturale e, non meno importante, l’esercito, che gli permise di uscire vittorioso dalla guerra contro la Cina (1894-95) e contro la Russia (1904-05). Il Giappone, in altri termini, da regno feudale si trasformò in potenza mondiale. È in questo orizzonte storico che bisogna cominciare ad inquadrare l’opera di Tanizaki Jun’ichirō. Tanizaki nacque a Tokyo nel 1886, e, come sottolinea lo storico della letteratura giapponese Katō Shūichi, il sistema politico avviatosi con la Restaurazione Meiji era qualcosa di scontato, che non concedeva molte scelte alla generazione di scrittori nata intorno al 1885.

Come rileva Katō, nel clima di generale espansionismo territoriale e di cultualizzazione della figura dell’Imperatore, molti scrittori contemporanei di Tanizaki furono dichiaratamente nazionalisti. Allo stesso tempo erano critici nei confronti di numerose conseguenze della modernizzazione, avvertite come pericolose per l’unità culturale del Giappone. Per quanto Tanizaki non abbia formulato delle chiare istanze politiche nei suoi testi, ha comunque prodotto delle riflessioni sulla società del suo tempo che di certo non possono essere considerate neutrali. D’altro canto, non è possibile nemmeno inquadrarlo in un comodo nazionalismo nipponico. Egli, piuttosto che criticare il Giappone di quegli anni fornendo un’alternativa alla realtà effettuale e politica, si mosse verso una solennizzazione dell’arte “al di sopra di ogni cosa”. Nelle sue opere, più nello specifico, è viva la passione verso l’eredità estetica giapponese, che da sé parla anche in riferimento alle conseguenze della modernità. Se ogni nozione estetica e tradizionale viene a confondersi e ad appiattirsi per via di una crescente industrializzazione della cultura, la strategia di Tanizaki è stata quella di produrre opere che andassero ancora nel senso di un’elevazione e di una valorizzazione del patrimonio culturale della propria terra. Non è un caso che Neve sottile, scritto nel 1939, fu poco dopo censurato. Infatti, nonostante in esso non vi sia nessuna critica aperta del militarismo guerresco che allora la faceva da padrone, Tanizaki descriveva un mondo che non esisteva più, e questo non poteva essere tollerato. Un mondo che era accompagnato da un sentire differente dove non c’era spazio per la militarizzazione e l’espansionismo ma dove si dava voce all’immediatezza di un microcosmo familiare, socialmente ristretto e in cui piccoli episodi quotidiani permeavano la vita dei sensi delle persone: “una raffinata sensibilità, la vita di ogni giorno vista come una cerimonia, la bellezza immediata e trascendente delle stagioni, la parte intesa come una delicata e perfettamente realizzata entità senza alcun riferimento a un tutto architettonico. L’intensa chiarezza con la quale Tanizaki esprimeva il suo sincero desiderio di tornare a un mondo passato, non poteva sfuggire ai censori” (Katō 2002: 196). È un tipo di scrittura che, per così dire, affonda le proprie radici più nelle arti tradizionali che nella letteratura in senso stretto.  Non è un caso che i drammi del teatro kabuki siano composti da scene e atti dallo svolgimento autonomo, spesso non legati alla trama principale. In questo modo ogni atto è un fine in sé e dà luogo ad uno spettacolo indipendente. L’unità strutturale è frammentata anche perché i drammi sono opera di più scrittori, per cui ognuno si occupa di una particolare sezione. In tal modo “i dialoghi di un kabuki rendono soltanto la situazione di fatto o esprimono i sentimenti dei personaggi in un modo semplice e quotidiano, non hanno forza oratoria. Non propongono nulla di universale, di paradossale o di astratto, e il loro contenuto intellettuale è molto esile” (Katō 2000: 199). Quella che a primo impatto potrebbe sembrare una critica alla povertà spirituale dei drammi teatrali giapponesi si rivela essere in realtà proprio il contrario: l’ideale di una comunicazione non verbale in cui ciò che è veramente importante viene espresso senza il ricorso alla parola. Avviene una sorta di scambio intuitivo tra i personaggi, che riescono a comprendersi attraverso la forma piuttosto che attraverso il contenuto, in questo caso privilegiando la recitazione sul dialogo. Non c’è una repressione emozionale e tanto meno un’esternazione incontrollata dei sentimenti, quanto semmai una ritualità estetica attraverso la quale esprimere la propria sensibilità.

A questo va aggiunto che Tanizaki, a differenza di altri suoi colleghi scrittori a lui contemporanei – come per esempio Nagai Kafū e Natsume Sōseki –, era di modesta estrazione e non poté mai permettersi un viaggio fuori dal Giappone (salvo una breve permanenza in Cina nel 1918). Le implicazioni di questo fatto nei riguardi del suo rapporto con l’Occidente sono notevoli: quando egli si sofferma sullo stile di vita occidentale – dall’arredamento al modo di vestire, passando per l’arte e la cinematografia – vede questi elementi già interagire con il sostrato estetico giapponese. In effetti Tanizaki, nel suo saggio Geidan (Conversazioni sull’arte, tradotto in italiano con “Sulla Maestria”, 2014), delinea una sottile distinzione al riguardo: sotto l’influsso occidentale prende sempre più piede l’idea che l’arte (geijutsu) e l’artista (geijutsuka) siano qualitativamente superiori all’Arte (gei) e all’uomo d’arte (geinin). Ora, innanzitutto vanno chiariti i termini e i concetti appena accennati. Il termine geijutsu infatti si è diffuso in Giappone soltanto a partire dalla modernizzazione Meiji, ed esso indica ciò a cui gli occidentali si riferiscono con “belle arti”. D’altro lato invece il concetto di gei indica l’arte in un senso più ampio, che ingloba anche i significati di “realizzazione”, “capacità”, ma anche “tecnica” e “abilità” (si potrebbe qui ravvisare una vicinanza semantica con il concetto greco di techne). In ogni caso gei è una nozione unica che dovrebbe essere compresa indipendentemente dal concetto moderno e occidentale di belle arti. L’arte performativa tradizionale giapponese (, kyōgen, bunraku, kabuki) è un tipico esempio di gei (tuttavia, come vedremo più avanti, anche la letteratura, la musica, la poesia e la pittura sono racchiuse nel concetto di gei). Colui che recita in questo tipo di performance è chiamato geinin, cioè “uomo d’arte”. In italiano gei, nella traduzione italiana di Geidan, è stato reso con “maestria” e geijutsu con “arte”. Ora, per quanto “maestria” non sia errato, esso rappresenta pur sempre una delle possibili accezioni del concetto originale di gei. Non si capisce perché l’originale giapponese debba essere ristretto nel suo significato mentre geijutsu, di importazione occidentale, venga tradotto con il più ampio “arte”. Per non creare una confusione semantica e per non rischiare di cadere in uno scontato imperialismo linguistico, abbiamo preferito lasciare questi quattro concetti direttamente in lingua giapponese, ferme restando le distinzioni appena delineate.

Tanizaki opera una netta distinzione tra il geinin e il geijutsuka, e dedica a questa pressoché l’interezza dello scritto che andremo esplorando principalmente in questa sede. Il concetto di geinin, come si evince dalle riflessioni di Tanizaki, implica tre caratteristiche principali: 1) l’educazione rigorosa e durissima con la quale i bambini cominciano la via della recitazione; 2) l’ambiente in cui sono immersi, che ne sviluppa ed esalta la sensibilità; 3) la raffinatezza e la destrezza che scaturiscono soltanto dopo un lungo cammino di maturazione.

Tanizaki riporta l’esempio di Ichikawa Danjuro IX (1838-1903), uno dei più eminenti attori di kabuki dell’era Meiji. Questi, racconta Tanizaki, da bambino viveva nel terrore continuo che il suo genitore adottivo (nonché maestro) avrebbe potuto ucciderlo in qualsiasi momento. La vita di ogni giorno era scandita da esercizi di tecnica estremamente rigorosi che, se da un lato contribuivano a rafforzare la padronanza della propria arte, allo stesso tempo, sostiene Tanizaki, inducevano per forza di cose a trascurare lo studio teorico. Tanizaki parla addirittura di una sorta di “ritardo intellettuale” in cui accanto a delle straordinarie capacità drammatiche si affiancava “l’incapacità di contare gli spiccioli” che si avevano in tasca. La distinzione dei figli degli attori era evidente anche nelle scuole. Infatti essi erano abituati ad un ambiente separato, con proprie regole e specifiche peculiarità. Questo implicava il fatto che, agli occhi degli altri bambini, i piccoli aspiranti attori apparivano come qualcosa di estraneo se non alieno. Rievocando alcuni ricordi dell’infanzia Tanizaki afferma che questi futuri attori erano trattati con disprezzo per via delle loro “fogge leziose, quasi femminili” che li accomunavano piuttosto al mondo delle apprendiste geisha che a quello spensierato dei loro coetanei.

A questo punto l’autore si chiede come mai delle persone che avevano anche difficoltà nella scrittura riuscissero a recitare dei drammi – anche dal difficile contenuto filosofico – ad un livello letteralmente irraggiungibile. Ciò accade, egli sostiene, perché nella via del teatro “la comprensione non si realizza nella mente”, ma gli attori “penetrano il contenuto dall’esterno” (Tanizaki 2014: 22). Trascurare lo studio teorico in favore della perizia tecnica, privilegiare la recitazione alla parola, in altri termini dare più importanza al rito che al mito (Perniola 2011: 66) e ad una forma che significa se stessa. Tutto questo produce l’incantesimo del gei. L’interesse, dallo spettacolo tout court, scivola verso la performance del singolo attore. Come rileva lo studioso Bonaventura Ruperti, nella completa dedizione del geinin alla sua vocazione, ciò che viene stimolato in tutta la sua policromia è in ultima analisi un’esperienza percettiva e sensoriale anche nei confronti delle opere recitate

Questa relazione con il corpo si riflette anche in un approccio sensuale, più che intellettuale, al testo drammatico da interpretare. Questa abilità speciale di sentire le emozioni, le affezioni e i sentimenti è coltivata in un ambiente che comunemente viene considerato poco salubre, senza il comune denominatore di un’educazione regolare ma con una continua immersione tattile e olfattiva negli oggetti, nelle sensazioni, nelle emozioni, nei luoghi e nelle situazioni (Ruperti 2009: 103).

 

Questo sprofondare percettivo negli oggetti e negli ambienti è affiancato dalla devozione e dalla perizia nell’imitare le tecniche del maestro. In questo senso il geinin si avvicina all’artigiano piuttosto che all’artista puro. In aggiunta, i maestri di gei piuttosto che essere considerati ognuno come rappresentante del proprio sé individuale, sono racchiusi in un sé collettivo, che non può essere separato dall’entità olistica del gei.

Arte e annullamento dell’io

Quasi per converso, secondo Tanizaki, dietro il discorso razionale e dietro la comprensione puramente intellettuale si nasconde il calcolo cinico incentrato sul proprio sé. Il vero uomo d’arte agisce in modo opposto, esso emerge proprio quando la soggettività si dissolve! La tradizione dell’annullamento del sé in Giappone ha radici antichissime. Basti pensare che dalle prime fonti scritte, il Kojiki e il Nihonshoki (VII – VIII sec. d.C.), si comprende come, nel culto shintoista dei kami “l’efficacia del rito non dipende dal sentimento interiore di chi lo officia e del fedele che vi partecipa, ma dalla perfezione formale con cui è eseguito” (Raveri 2014: 24). Anche qui, nonostante ci troviamo in un ambito religioso, è presente l’idea che il soggetto rituale debba “perdersi” nella sua dedizione e nella sua concentrazione in modo da far scomparire se stesso. La ricorrenza di questo oblio del proprio sé ritorna continuamente anche in altre correnti di pensiero: per esempio in alcune scuole del Buddhismo tradizionale il monaco deve compiere un percorso meditativo in cui l’obiettivo è proprio quello di arrestare il flusso dei desideri e sospendere la propria coscienza volitiva (pena il cadere nuovamente nel regno della sofferenza). Andando nello specifico, all’interno del Buddhismo Tendai, fondato da Saichō (767-822), veniva data un’importanza senza precedenti in Giappone alla figura del bodhisattva, vale a dire colui che fa voto di “posporre la propria estinzione fino a che tutti gli esseri senzienti siano salvati” (ivi: 171). Questo implica una ancora più radicale liberazione dall’idea del sé. L’io viene avvertito come l’ostacolo più grande all’Illuminazione poiché confonde continuamente la mente dell’uomo non ponendolo davanti alla realtà ultima delle cose, cioè il loro essere vuoto. L’io è una forza cieca che ci rende schiavi del ciclo vitale (samsāra), esso crea dolore e illusorietà, che alla fine si rivelano essere soltanto il mio dolore e la mia sofferenza. Il bodhisattva, in questo senso, corrisponde all’atteggiamento di chi si fa cassa di risonanza del dolore altrui e lo aiuta nel percorso di liberazione e redenzione. Sempre all’interno del Buddhismo giapponese, fu ancora più radicale la posizione del monaco Shinran (1173-1263), appartenente alla scuola amidista della Terra Pura, secondo cui bisognava rinunciare non soltanto ad ogni tipo di meditazione ma anche alle pratiche rivolte al mondo e agli altri esseri. Infatti, secondo Shinran, per quanto eticamente apprezzabili, esse risultavano soltanto in un’autoglorificazione che rivelava ancora una volta il dominio dell’io sul soggetto e quindi il suo estremo e illusorio attaccamento all’esistenza. Tutte queste pratiche dovevano essere abbandonate in favore del nenbutsu, vale a dire la continua recitazione e invocazione del nome del Buddha Amida. Anche il nenbutsu ovviamente non può fungere da strumento di salvezza (altrimenti si ricadrebbe nuovamente nella logica dell’io strumentale). Esso è piuttosto una sorta di ringraziamento con il quale si “proclama” e allo stesso tempo si “ascolta dentro di sé il Nome”. Avere dentro di sé il nome significa risvegliare in sé la propria buddhità e scoprire di essere già da sempre dei salvati, sperimentando l’Illuminazione in questa stessa esistenza. Come nota Massimo Raveri, infatti, è attraverso quest’annullamento del sé che il meditante giunge ad un’intuizione fondamentale: l’Illuminazione non è il punto di arrivo di un percorso da compiere ma “una realtà donata all’uomo”. Questa visione è per certi versi compresa e rifiutata dalla scuola del Buddhismo Zen: anche qui nella pratica meditativa dello zazen non c’è nessuna tensione verso l’Illuminazione, dal momento che ogni essere è illuminato; non c’è scopo ma un’azione gratuita. Ogni pensiero va abolito in quanto esso non fa altro che reiterare quella più generale facoltà discriminante e intellettuale della mente, quindi della centralità dell’io. Tuttavia, nel fare questo non si deve negare il pensiero attraverso un “non-pensiero”, altrimenti si resta in un circolo vizioso, cioè si resta invischiati nel tentativo, massimamente cosciente, di voler eliminare il proprio flusso meditativo. Nello Zen infatti si parla di “senza-pensiero” piuttosto che di “non-pensiero

il pensiero deve essere lasciato libero, ma la mente deve essere calma e indifferente all’insorgere dei pensieri. Devono essere lasciati andare e venire spontaneamente, senza la minima volontà di trattenerli. Il pensiero, abbandonato, diventa trasparente, senza connotazioni, senza colorazioni, senza luce, e si dissolve (ivi: 521).

 

Per quanto questo excursus non sia specificamente dedicato a Tanizaki, ci sembrava opportuno ricollegare le sue affermazioni sul sé dell’artista ad una millenaria tradizione che è sicuramente alle sue spalle. Non è un caso, infatti, che anche per quanto riguarda altre arti tradizionali del Giappone si ripresenti questa concezione. Nell’ikebana, cioè nell’arte del disporre i fiori, si impone una questione decisiva: nella realizzazione compositiva, la mano dell’uomo si deve far vedere oppure no? La personalità dell’artista deve essere presente o è la natura che dovrebbe emergere? Qui troviamo, molto similmente a quello di cui parla Tanizaki, un’estrema dedizione e concentrazione per produrre una composizione spontanea, fresca, delicata e sobria. Essa rappresenta il raggiungimento di una semplicità tutt’altro che fanciullesca e innocente, poiché è piuttosto l’esito conclusivo di una disciplina interiore rigorosa. Ques’ultima consiste da un lato nel “diventare fiore col fiore”, vale a dire conoscere a tal punto le forme, i colori, gli odori e la disposizione naturale dei fiori da “diventarlo”; dall’altro lato l’allievo, per così dire, impara a confluire nella più grande tradizione che lo ha preceduto

L’allievo, più progredisce nella sua arte, più si dimentica del suo piccolo ego e si immedesima totalmente nella tradizione […] Si riconosce finalmente nell’insegnamento del maestro e comprende che creare non significa comporre qualche cosa di nuovo fuori di sé, quanto piuttosto vivere l’esperienza di un ritorno a sé, di una scoperta di qualcosa di più intimo, di più vero, di un’armonia universale che è già in lui e che non aveva ancora riconosciuto (ivi: 553).

Piuttosto che essere a tutti i costi un creativo, oppure un destabilizzatore del sentire del fruitore, il geinin è chi prende le distanze da se stesso e si fa vicino agli antichi e alle leggi armoniche che governano la natura. Egli è colui che in un gesto tiene racchiusi secoli di tradizioni, mondi del silenzio trasmessi attraverso l’eleganza e la maestria. In questi termini ci stiamo già avvicinando alla visione di Tanizaki sui concetti opposti a quelli di gei e geinin, vale a dire geijutsu e geijutsuka, cioè quelli entrati in uso comune in Giappone con la sua recente modernizzazione. Tra i vari esempi presi in considerazione dall’autore, quello più interessante è forse Charlie Chaplin. Pur riconoscendo le eccellenti doti dell’attore, Tanizaki sostiene che questi esibisca il proprio genio a tal punto da far apparire anche le emozioni inscenate come artificiali e poco spontanee. È come se ci fosse un elemento preponderante di fredda razionalità che non riesce a far affezionare  veramente il pubblico. Hollywood e l’industria cinematografica (allora soltanto nascente!) rappresenterebbero proprio quell’essere costantemente al passo coi tempi, quella furbizia effettuale e quella versatilità interessata che sono agli antipodi dell’atteggiamento estetico del geinin. Inoltre, e in maniera più significativa, questo porta pressoché all’abolizione delle eccellenze, dal momento che esse sono enormemente difficili da raggiungere e per niente facili da gestire:

Forse Hollywood si è trasformata in un meccanismo all’interno del quale un temperamento da geinin, che si sforzi di perfezionare continuamente la propria tecnica, non ha alcuna speranza di emergere. Eppure non vi è altra via per emergere (Tanizaki 2014: 43).

Questo tipo di cinema, assimilabile ad un più generale tipo di cultura, costringe l’individuo ad uno stato di tensione permanente. In ultima analisi, però, se da un lato un attore di kabuki può sembrare ingenuo e sprovveduto nei confronti di un attento e risoluto attore occidentale, secondo Tanizaki i primi incantano laddove i secondi li dimentichiamo appena usciti dalle sale cinematografiche. In altri termini, potremmo dire che i primi fanno i conti con la storia mentre i secondi restano schiacciati in un presente estremamente volatile. Si fa strada un elemento decisivo: il geinin (l’uomo d’arte) è in quiete, il geijutsuka (l’artista) è inquieto. C’è la quiete di una luminosità leggera, di “argento brunito”, vale a dire la serenità e l’intensità che si manifestano in un qualsiasi oggetto o corpo in cui “sotto la ruggine risplendono gli elementi magnifici degli anni” (ivi: 25). Esiste una grande differenza tra la ricerca senza sosta di un progresso e di un’evoluzione (sia essa sociale o individuale) e la ricerca, opposta, della quiete nel movimento.

Effettualità della letteratura

La grandezza si raggiunge, quindi, attraverso un continuo esercizio di raffinamento della propria tecnica e delle proprie qualità, che solo con il passare di molti anni può suscitare nello spettatore un senso di devozione spirituale e di rapimento magico. È grande chi dedica la sua esistenza alla propria arte senza aver timore di finire tra gli “scarti della storia”, vale a dire senza il dover continuamente scendere a compromessi con la “purezza” per raggiungere gli obiettivi prefissati e mantenerli nel tempo. Qui non si vuole, tuttavia, fare un elogio della purezza “santa” o “morale”. Anzi, a ben vedere Tanizaki è uno dei più raffinati glorificatori proprio della sporcizia e dei suoi derivati. Sono proprio l’unto e il sudiciume – sostiene Tanizaki –  a rendere un oggetto degno di ammirazione. Gli elementi connessi con l’impurità, infatti, rievocano il passare delle stagioni e l’instancabile lavorìo di artigiani che li hanno prodotti, rimodellati e soprattutto restaurati. Tanizaki arriva addirittura ad affermare che l’eleganza è data dalla sporcizia (2013: 26)! Allo stesso modo il geinin è colui che, anche soltanto in una fugace posa del proprio corpo, possiede quella disinvoltura (non lontana dalla sprezzatura di cui scriveva Castiglione) che può manifestarsi solo dopo anni di paziente esercizio e destrezza. Paradossalmente non importa se, essendo in avanti con l’età, alcuni movimenti del corpo, o del pennello o ancora della penna (e quindi del più generale tessuto narrativo di un’opera), non sono più estremamente precisi, difettano in controllo e così via. C’è una “ricompensa” che si manifesta in una sorta di intensa serenità, di sicurezza data dall’esperienza e di accettazione dei limiti del proprio corpo, che presi insieme esprimono l’arte.

Tanizaki vede, inoltre, una significativa differenza tra queste due visioni del mondo. La letteratura dovrebbe essere uno specchio – seppur critico – della realtà storica in cui viene prodotta, oppure dovrebbe prendere congedo da essa? La questione che risiede alla base di questa domanda è cruciale ed è relativa all’effettualità della letteratura. Detto altrimenti: il fine della letteratura è il cambiamento sociale? Se sì, qual è la strada da privilegiare per ottenerlo? Gli occidentali, scrive Tanizaki, hanno privilegiato un modello secondo cui per ottenere un cambiamento l’arte e la letteratura dovrebbero coltivare una coscienza impegnata e inoltre fornire delle linee interpretative della società (o dell’anti-società). Ancorché la letteratura contribuisca al soverchiamento dello status quo, gli oppressi, scrive Tanizaki, esisteranno comunque. Con una certa vena di crudezza, Tanizaki afferma che l’uomo, se continua ad alimentarsi con le speranze collegate al progresso e al rinnovamento, non riuscirà a tenere a bada la sua ambizione, il suo senso del limite, e finirà per produrre sofferenze ancora maggiori. “Se il mondo ci aggrada, ci aggrada così com’è, se ci stiamo male le cose non cambieranno” (Tanizaki 2014: 66). La tradizione giapponese invece, la quale risente dell’influenza di pensatori come Lao-Tzu e Sun-tzu, ma anche delle numerose scuole buddhiste, privilegia la ricerca di un punto immobile di serenità in mezzo al tumulto e alle violenze. In prima battuta verrebbe da chiedersi se, allora, Tanizaki veda la letteratura soltanto come un mezzo di fuga dalla realtà, certamente un mezzo tra i più eleganti, ma pur sempre un mezzo per il solo utilizzo consolatorio del lettore. Questo, tuttavia, non significa minimamente il ricercare uno stato di egoistica beatitudine quando, per così dire, di fuori il villaggio brucia. Non è questo quello che intende quando afferma che essa dovrebbe prendere congedo dalla realtà. Piuttosto egli si inscrive in un filone della riuscita strategica di alcunché tipico della tradizione Daoista. L’arte è bensì un “nutrimento per l’anima”, una forma di annullamento dell’io e di distacco dalla realtà, ma ciò accade perché dopo averne beneficiato si ritorna con le forze centuplicate proprio per combattere nella realtà stessa! (ivi: 68). In questi termini l’arte è un qualcosa di irriducibile alla sola esperienza estetica ma comporta una forma di non-azione (wuwei) quanto mai attiva.

Una breve parentesi. La visione che Tanizaki ha dell’Occidente non è senz’altro immune da critiche. Nella vastissima tradizione letteraria e artistica degli ultimi due secoli, soprattutto europea, sono state prodotte teorie e opere che ovviamente già lo stesso Tanizaki apprezzava e dalle quali era influenzato. Mi riferisco soprattutto al Decadentismo e al Simbolismo del primo Ottocento. In aggiunta, possiamo anche dire che in seno allo stesso Occidente siano sorte delle visioni che, pur nella loro diversità di fondo, possiedono delle caratteristiche affini a quello che sostiene Tanizaki. Tuttavia vorremmo allo stesso modo specificare due punti, che a ben vedere confluiscono in un’unica ragione. In primo luogo, come scrivevamo all’inizio, Tanizaki non è mai stato né in Europa né tantomeno negli Stati Uniti. Questo significa che egli ha veduto con i propri occhi non tanto quello che accadeva in terra straniera quanto quello che veniva importato ai fini della modernizzazione voluta durante il periodo Meiji.

D’altro lato, fu anche testimone, soprattutto in termini di politica economica e commerciale, di ciò che invece veniva imposto. In altri termini, se la visione di Tanizaki può essere avvertita come prospettica, ricordiamoci che è così che l’Occidente è stato presentato in Giappone, o almeno è questo il modello che è andato via via diffondendosi nella vita quotidiana dei giapponesi.

Ora, per ritornare al discorso sul geinin, se lo sguardo del pubblico, il suo immediato giudizio e la sete di notorietà diventano la palestra a cui si allena l’uomo d’arte, egli potrà anche ottenere un qualche tipo di successo, ma quest’ultimo sarà un’alternanza infinita tra gloria e fallimento. Tuttavia, cosa significa essere glorificati dal pubblico, cioè dalla massa? Oppure dai potenti? Significa rincorrere la popolarità per timore di essere seppelliti nell’anonimato. È proprio questa paura che l’uomo d’arte deve combattere: egli annullando se stesso si fa viandante di un’armonia che esisteva prima di lui e che trasmetterà nell’avvenire. Qualora anche egli non venga ascoltato da nessuno, deve continuare a difendere se stesso e la propria arte. L’arte, compresa nel concetto di gei, per Tanizaki, è e deve restare qualcosa di sacro, vale a dire deve mantenere quel nucleo di mistero che le è proprio e che non può in ogni caso svelarsi o essere oggetto di luce troppo forte. “La sacralità dell’arte si preserva proprio perché sono gli artisti i soli a sapere che cosa avviene all’interno della campana di vetro: se tutti iniziassero a parlarne si otterrebbe, invece l’effetto contrario”. (Tanizaki 2014: 76)

In un’epoca in cui chiunque abbia a che fare un minimo con il mondo della cultura è costretto quotidianamente a contrattare con editori rapaci e cinici; in cui “la Republique n’a pas besoin de savants” e in cui gli artisti sono i primi a deridere se stessi e la propria vocazione “il modo migliore per giungere a uno stile di vita tranquillo e sicuro non è cercare il favore dei potenti o una via di fuga dal mondo, è piuttosto riuscire a liberarsi dell’altisonante titolo di ‘artisti’ (geijutsuka) e nascondersi invece tra le vie della città come geinin [uomini d’arte]” (ivi: 71).

Conclusione: l’ombra e la perversione

Tanizaki coglie delle inclinazioni sensoriali anche da elementi presi dall’estetica quotidiana. Tutto lo scritto Libro d’ombra è permeato da una sensibilità estetica in riferimento all’ordinario. Si può dire che il testo ruoti intorno alla relazione tra luce e ombra nel contesto culturale giapponese. Nessuna delle due prevale in modo definitivo sull’altra, si crea piuttosto una complementarità in cui ad essere considerati antiestetici sono gli estremi: in questo caso il bagliore e il buio totale. Gli occidentali, scrive Tanizaki, che vogliono sempre “mutare di stato” e, per esempio, sono passati in un batter di ciglia dal lume a petrolio a quello a gas, all’elettricità al neon e via dicendo, hanno una sorta di paura dell’ombra e ogni cosa devono rendere chiara e artificiale. Allo stesso modo, la complementarità tra luce e ombra, tipica della sensibilità estetica orientale, corrisponderebbe ad una più generale visione dell’esistenza: “v’è forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e scopriamo loro una beltà” (Tanizaki 2013: 68). È anche una differenza che si situa nella dicotomia tra pura effettualità e quieta contemplazione. La prima corrisponde ad un’esigenza di funzionalismo ed utilità pratica, la seconda ad una sorta di disposizione all’incanto, non per questo priva di attenzioni verso la riuscita pratica di alcunché. Per fare un esempio tratto dalla vita di tutti i giorni, Tanizaki afferma che la carta occidentale, con il suo bianco asettico, trasmette un “impulso” al mero utilizzo; al contrario, la carta cinese o giapponese “invade” la persona con una moltitudine di sensazioni ed impressioni. Ciò accade perché questo tipo di carta non cerca di rappresentare il bianco in sé, come la carta occidentale, ma una delle sue policrome manifestazioni. In tutta questa serie di sfumature risiede la bellezza. È nel fascino del chiaroscuro che una stanza, ma anche un angolo di essa, risalta ed emerge con eleganza. Una cameretta senza questo tipo di ombre, indagata in ogni suo interstizio, è volgare e priva di seduzione. Questo perché una volontà ferma sul voler scoprire e “vedere meglio” è una volontà annichilente. Il colore infatti, in Tanizaki, non ha tanto una funzione prettamente letteraria e decorativa ma soprattutto una valenza simbolica. Come nota Maria Teresa Orsi “il bianco rappresenta l’efficienza e l’igiene della borghesia, che si sente obbligata a imbiancare le proprie mura e a sradicare ogni traccia di eventi e persone passate, manifestando così una mentalità ‘civilizzatrice’ che, per pulire ogni cosa, spazza via le aree d’ombra” (Orsi 1998: 8).

Tanizaki allarga ulteriormente l’estensione di questo simbolico e va a toccare l’immagine della donna e la seduzione. Nel suo saggio Amore e desiderio sessuale (non tradotto in italiano ma significativo all’interno delle sue riflessioni) la donna occidentale viene descritta come estremamente bella, soprattutto per quanto riguarda il viso e i lineamenti del corpo. Tuttavia, una volta che ci si avvicina, si scopre per così dire una “grana” della pelle “volgare” in opposizione alla delicatezza della carnagione delle orientali: “potremmo dire che la maggior parte delle donne occidentali sono più adatte ad essere guardate che ad essere abbracciate, mentre con le donne orientali è vero il contrario” (Tanizaki in LaMarre 2005: 345). Tuttavia, a ben vedere, questo discorso non va inteso come un elogio, a primo impatto prospettico e generalista, sulla superiorità seduttiva della donna orientale. Le riflessioni di Tanizaki corrispondono ad un più vasto tentativo di difesa da ciò che viene avvertito come una minaccia proveniente dallo stile di vita occidentale: inondare di luce il corpo orientale significa distruggere una tradizione estetica e sessuale ben radicata. In altri termini, se si rende visibile ciò che non dovrebbe essere tale, lo si rende allo stesso tempo impotente. Per quanto le questioni siano irriducibili l’una all’altra, potremmo vedere in questo discorso un’anticipazione, non soltanto letteraria, di ciò che accadrà a partire dagli anni Ottanta con l’esplosione della pornografia: alcuni teorici della società, tra i quali Boris Groys (2006), affermano che ciò è un’evidente strategia politica occidentale volta a destabilizzare i costumi medio-orientali. In questo senso non c’è da meravigliarsi se ancora oggi nei video porno giapponesi gli attori e le attrici   vengano censurati nelle zone intime.

La donna a cui si riferisce Tanizaki “dimora” in notti e ombre senza fine, perché è attraverso il mistero che domina i sentimenti maschili e li attira verso le sue profondità. È come se l’Occidente si facesse vicario di una purezza superficiale, mentre l’Oriente di un’impurità profonda. Questo discorso sull’impurità implica, inoltre, come si può constatare in numerosi romanzi di Tanizaki, la sottomissione dell’uomo alla donna, accompagnata da una ricerca masochistica per via della quale l’uomo riesce in ultimo ad essere redento. Qui si vede ancora di più lo stretto legame tra tradizione e arte da un lato e impurità e perversione dall’altro.

Tanizaki traccia, senza mai esprimerlo intellettualmente, il non detto della modestia, del riserbo, della pietà filiale, del rispetto gerarchico e di tutti gli ideali che permeano il sentire giapponese. Questo non detto corrisponde ad un fondo impuro, ad un’ombra di perversioni sessuali e criminali che risiedono da sempre non solo nell’arte, nella letteratura e nella poesia ma anche e soprattutto nel pensiero e nell’agire quotidiano. In tal senso, come rileva l’orientalista Thomas LaMarre, “l’estetica diventa geopolitica”, vale a dire “c’è una soluzione estetica ad un problema geopolitico, quello della dominazione e dell’espansione dell’Occidente” (2005: 370). Questa soluzione estetica corrisponde nella solennizzazione della differenza giapponese, e tale differenza risiede, in ultima analisi, nella coesistenza tra impurità e purezza, perversione e modestia, criminalità e onore. Al fondo dei principi dei samurai o dell’etica confuciana, si agitano da sempre delle pulsioni complesse che, alla stregua del rimosso freudiano, sono sempre lì eppure non si palesano mai. Tanizaki mette in mostra una “devianza originale” del popolo giapponese. Ancora più nello specifico, egli individua questa devianza nella logica del feticismo: “ciò che è visto dopo (per esempio, i genitali della donna) diventa l’origine traumatica di ciò che viene visto prima (per esempio, i piedi). La scena primaria getta il tempo di colpo fuori. Da lì in avanti tutto diventa devianza, per sempre” (ivi: 372). Il punto principale, come rileva lo stesso LaMarre, è chiedersi se in questo modo Tanizaki sia alla ricerca di una verità dietro l’immagine oppure se ci sia una venerazione della sola immagine. In altri termini, conta l’originale o la copia? Tanizaki rovescia il platonismo ed entra nella logica del simulacro: la copia non è rappresentante dell’originale, è l’originale stesso; il piede non rappresenta la donna, è la donna stessa. La paradossalità di questo discorso è che chi cerca la verità dietro l’immagine trova solo false immagini; chi cerca le immagini nella loro vita indipendente trova invece autentiche immagini. Queste ultime potranno essere immagini soltanto e non idee, ma solo per un pensiero platonicamente orientato le prime hanno una realtà ontologica inferiore rispetto alle seconde. È anche vero, come prosegue LaMarre, che la logica del feticismo non dispensa completamente dall’origine. Infatti, dal momento che l’originale non c’è si dà un “trauma” originale. Già a primo impatto possiamo vedere le numerose implicazioni psicoanalitiche di questo discorso, ma quello che ci preme sottolineare in conclusione è che se all’origine c’è un trauma, tutto ciò che ne segue è una devianza. Non è un caso allora se nell’opera di Tanizaki i protagonisti siano continuamente alla ricerca di una redenzione attraverso il crimine e la perversione: in un certo senso essi, attraverso un confronto continuo con le immagini feticcio/simulacrali, tornano verso il trauma originario, vale a dire tornano continuamente verso casa.

di Enea Bianchi

 

 

Bibliografia

Groys, B., 2006, “I corpi di Abu Ghraib”, in Ágalma No. 11, Roma, Meltemi: 16- 23.

LaMarre, T., 2005, Shadows On the Screen. Tanizaki Jun’ichirō on Cinema & “Oriental” Aesthetics, Ann Arbor, Michigan.

Orsi, M.T., 1998, “The Colors of Shadows”, in A Tanizaki feast: the international Symposium in Venice (edited by A. Boscaro e A. H. Chambers), Ann Arbor, Michigan: 1-15.

Perniola, M., 2011, L’estetica contemporanea. Un panorama globale, Bologna, il Mulino.

Raveri, M., 2014, Il pensiero giapponese classico, Torino, Einaudi.

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