Enea Bianchi – George Kubler o l’arte perenne


Le cose e la loro libertà

Sul tempo dell’inorganico esistono svariate prospettive filosofiche – e non soltanto –, spesso in rapporto di vicendevole opposizione. Ai due estremi troviamo le posizioni di Kant e Bergson: secondo il primo “il tempo non inerisce agli oggetti stessi”, dal momento che esso sarebbe una disposizione formale posseduta solo dall’uomo; l’altro arriva invece a scrivere che “l’universo dura”, vale a dire che anche il mondo della materia possiede una realtà temporale. Vediamo più da vicino il cuore delle loro teorie attorno alla temporalità delle cose.

Ora, nella ricerca delle condizioni di possibilità e dei limiti del nostro conoscere, dispiegata nella Critica della ragion pura, Kant afferma che a fondamento di ogni tipo di conoscenza sensibile troviamo le intuizioni pure di spazio e tempo. La loro “purezza” deriva dal fatto che, sebbene appartengano alla sfera della sensibilità, non presuppongono alcunché di empirico: affinché un individuo possa rappresentarsi le sensazioni al di fuori sé, e affinché possa intuire i fenomeni nel loro mutamento, egli deve già possedere le fonti conoscitive di spazio e tempo. Queste ultime, in altri termini, fungono da condizione di possibilità dei fenomeni che il soggetto si rappresenta. Ciò implica anche il fatto che non sia possibile fare astrazione da tale soggetto, dal momento che spazio e tempo si riferiscono soltanto ad esso e non agli oggetti in sé. Nello specifico, il tempo, oltre a fondare i rapporti di simultaneità e successione tra le cose, viene definito da Kant come la “forma del senso interno, cioè dell’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno” (2010: 89). Vale a dire esso non si riferisce a nessun oggetto in particolare, in quanto rappresenta piuttosto la “cornice” entro cui possiamo figurarci uno o più oggetti in tempi diversi. Non a caso fuori del soggetto, afferma Kant, il tempo non esiste, per così dire è nullificato. Il tempo sarebbe dunque la condizione della percezione degli oggetti da parte del soggetto e non un qualcosa che inerisca agli oggetti stessi, perché essi si danno sempre e soltanto nella loro fenomenicità. Secondo l’idealismo trascendentale kantiano, infatti, noi non abbiamo mai a che fare con le cose come sono in se stesse, ma unicamente con la loro rappresentazione.

Accanto alla cornice spazio-temporale, che ci permette di accogliere i dati sensibili, Kant pone la spontaneità dell’intelletto, che riordina questi dati e permette di pensarli come concetti. Da qui prende avvio la sua argomentazione sulla metafisica come “scienza dei principi a priori”. In effetti, egli scrive, la metafisica si è sempre regolata dal punto di vista degli oggetti – e qui si situa il cuore della rivoluzione copernicana di Kant –: l’uomo non deve attribuire niente alle cose, semmai deve prendere in considerazione ciò che egli ha posto in esse.

Se ora prendiamo in considerazione la prospettiva bergsoniana, potremmo dire che Kant non ha fatto altro che giustificare una precisa tipologia di temporalità: quella del tempo scientifico, quantitativo ed omogeneo. Proseguendo il discorso nei termini di Bergson, potremmo dire che il filosofo di Königsberg colleghi l’intelletto alla sensibilità operando un filtraggio arbitrario delle esperienze soggettive e non solo di esse. C’è infatti un’azione immediata dell’esperienza, un suo presentarsi qualitativamente come vissuto non categorizzabile dall’intelletto, che Kant non vuole far entrare nella fondazione di una teoria gnoseologica a priori –  per motivi di ovvia coerenza della sua argomentazione. Tuttavia il punto è proprio questo: per Bergson dalla percezione non nasce la conoscenza bensì l’azione!

Le categorie dell’intelletto, e, più in generale, i calcoli e le misurazioni a cui la scienza sottopone gli oggetti restano insensibili nei confronti dell’eterogeneità che scaturisce da essi, ossia della “durata” di cui trabocca ogni realtà, tanto organica quanto inorganica. Bergson, più in particolare, distingue appunto il tempo omogeneo dalla durata reale. Il primo sarebbe il tempo oggettivo, convenzionale ed omogeneo (in quanto “omogeneizza” l’istante rendendolo identico sia a quello appena passato sia al prossimo); la seconda è invece l’esperienza del tempo interno, cioè la prosecuzione del passato nel presente, e non un tempo estremamente dilatato fatto di soli istanti, come nel caso il tempo omogeneo: “La durata è il continuo avanzare del passato che rode il futuro e che si gonfia man mano che avanza” (Bergson 2012: 14). Secondo la prospettiva bergsoniana noi ci edifichiamo continuamente insieme al tempo che passa, e soprattutto non perdiamo niente del passato. La durata acquista così i caratteri della continua creazione del sé.

Ora, cosa accade quando consideriamo l’oggetto in sé, indipendentemente da noi che, potremmo dire, lo inglobiamo nel nostro durare? Inizialmente Bergson afferma che l’oggetto, in quanto tale, resta sempre lo stesso (a meno che non arrivi una forza esterna a modificarlo). Non esistono intervalli di tempo per la materia, e dunque tutti gli oggetti possono darsi d’un sol getto anche solo spazialmente. Tuttavia questo è l’approccio della scienza, scrive Bergson, approccio che isola la materia ai fini delle proprie teorie restando cieco nei confronti di tutte le influenze, più o meno visibili, che si producono  nell’inorganico. Dai più piccoli atomi che compongono un corpo, fino ai pianeti  e alle galassie, ciò che appare isolato per via della prospettiva scientifica è in realtà connesso attraverso una rete di influenze reciproche. Lo sbocco a cui arriva Bergson è radicale: “L’universo dura” (ivi: 20), e può durare perché anche i moti millenari dei corpi celesti producono creazione e rinnovamento continui, se considerati appunto nella rete di influenze che ogni corpo esercita su se stesso e sugli altri. La scienza vede l’oggetto singolo e isolato, così facendo però dimentica di reintegrarlo nel tutto dell’universo di cui fa parte insieme a tutti gli altri elementi, tanto inorganici quanto organici.

Il tempo della scienza è, in ultimo, un tempo che per esigenze interne non può non essere ciclico e spazializzante. Ai fini di una sicurezza convenzionale e di una praticità quotidiana è senza dubbio utile e necessario, ma ciò non toglie che, per così dire, la realtà degli oggetti – secondo Bergson – andrebbe intuita collocandosi nel solco della durata e non attraverso la lente omogeneizzante della scienza (e dell’intelletto kantiano). Solo così le cose possono scrollarsi di dosso le pastoie della prevedibilità e della regolarità e mostrarsi come sono da sempre, vale a dire imprevedibili, intermittenti, in una parola: libere.

Questo discorso attorno al tempo delle cose ci sembra fondamentale per iniziare ad approssimarci alla teoria che George Kubler ha sviluppato nello scritto, pubblicato per la prima volta nel 1962, The Shape of Time. Remarks on the History of Things (tradotto in italiano con La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose). Questo testo, infatti, oltrepassa gli orizzonti estetici delle civiltà centro-americane prima e dopo l’arrivo dei conquistatori europei – oggetto preminente dello studio kubleriano. Nonostante sia piuttosto breve suggerisce un vero e proprio ripensamento del nostro modo di considerare il divenire dell’arte attraverso il tempo, anzi, il divenire delle cose tout court – intendendo per cose le idee, i manufatti artistici e gli oggetti di utilità pratica. Il pensiero di Kubler presenta delle affinità sotterranee con la teoria di Bergson in quanto anch’egli tende a considerare, accanto all’individuo che produce oggetti, gli oggetti stessi nella loro temporalità e nella loro sequenza storica.

Quella che Kubler traccia è una teoria che, prendendo congedo da alcune nozioni tradizionali e per certi versi consunte per via di un utilizzo logorante – tra le quali quella di stile in primo luogo – “propone un’analisi dell’arte in termini di […] un sistema pulsante che rivela la forma del tempo” (Anker 2009:99). Ai fini di una chiarezza concettuale occorre innanzitutto delimitare i confini del concetto di “forma” (shape). Kubler non segue la dialettica tra forma sensibile e sovrasensibile in cui si dava cioè l’opposizione tra una forma che riesce a concretarsi adeguatamente nel sensibile  (morphé), e una forma intelligibile, poiché animata dalla pulsione verso la trascendenza (eidos). Come rilevato da Mario Perniola, il concetto di forma cui fa riferimento Kubler è debitore degli scritti del suo maestro, lo storico dell’arte francese Henri Focillon, e in particolare del suo scritto Vita delle forme. La forma, in questa particolare declinazione, prescinde dall’opposizione appena accennata e si inscrive sostanzialmente all’interno della nozione di esteriorità. Quest’ultima rimanda alla nozione greca di schéma, che ha trovato un fecondo utilizzo nel mondo latino con il termine habitus (forma, foggia, veste…). I vari significati con cui questo termine viene tradotto, osserva ancora Perniola, hanno in comune l’attenzione verso l’esteriorità, cioè verso tutta quella serie di atteggiamenti, modi di vestire e di comportarsi (ma anche le stesse opere d’arte), in cui solo quando un qualcosa si dà esteriormente, allora viene considerato forma. In tal modo non si pone più nessuna separazione tra sensibile e sovrasensibile: la forma non ha bisogno di altro da sé per significarsi.

Dunque, la forma è di per sé immobile e vuota soltanto in apparenza. Essa è soggetta, come la vita? ed è per questo che Focillon parla di una vitadelle forme ? al principio delle “metamorfosi”, che rinnova continuamente le forme plastiche. L’opera d’arte dunque “esprime un desiderio di fissità, è un arresto; ma alla maniera di un momento nel passato. In realtà l’opera nasce da un cambiamento e ne prepara un altro” (ivi: 10). Ed è proprio in questo ambito che si riaggancia il discorso di Kubler. L’opera d’arte non può essere vincolata dall’appartenenza ad un qualche stile, essa ha dei legami con altre opere anche profondamente differenti per contesto e cultura d’origine, che dipendono non tanto dal contenuto specifico dell’opera ma dalla mano dell’uomo che le ha prodotte e dallo sviluppo indipendente e impersonale delle forme. Lo stesso Kubler, nelle prime pagine de La forma del tempo, scrive che gli interessano non già i significati degli oggetti artistici ma le relazioni formali che fra tali oggetti si presentano di volta in volta. In tal modo viene privilegiato il trasmettitore delle cose, il veicolo formale senza il quale non si dà nessun significato.

 

Lo stile è un arcobaleno

Poco sopra abbiamo accennato al fatto che Kubler reinterpreta alcune nozioni tradizionalmente legate alla storia dell’arte. Due ci interessano particolarmente: quella di “arte” e quella di “stile”. Quando infatti Kubler parla di “forme artistiche”, di “oggetti artistici” o più in generale di “arte”, dobbiamo ampliare l’orizzonte di ciò che siamo soliti definire con questa terminologia. Egli infatti allarga il dominio dell’arte uscendo dai confini dell’opera d’arte, elevata a unico oggetto degno di essere considerato “artistico”, e vi immette anche tutti gli oggetti prodotti dall’uomo:

“Supponiamo che il nostro concetto di arte possa essere esteso a comprendere, oltre alle tante cose belle, poetiche e inutili di questo mondo, tutti in generale i manufatti umani, dagli arnesi di lavoro alle scritture. Accettare questa premessa significa semplicemente far coincidere l’universo delle cose fatte dall’uomo con la storia dell’arte, con la conseguente e immediata necessità di formulare una nuova linea di interpretazione nello studio di queste stesse cose.” (Kubler 2002: 7)

Secondo Kubler tanto gli oggetti utili quanto quelli inutili possono essere riconsiderati secondo la linea interpretativa della storia dell’arte, dal momento che il loro divenire mostra una notevole affinità e dato il fatto che tanto un’opera d’arte, che si vuole prettamente estetica, possiede al suo interno una commistione di elementi legati al suo uso e così, allo stesso modo, un arnese accanto alla sua praticità racchiude alcunché di estetico. “Alcuni arnesi sono come canzoni”, scrive Kubler, sottolineando in questa affermazione come l’emotivo e l’effettuale possano trovare un fecondo punto d’incontro nelle cose. Tuttavia questa sorta di unità estetica tra arte e utilità non deve essere confusa con l’egualitarismo del disegno industriale, dal momento che, prosegue Kubler, quest’ultimo appiattisce entrambe le sfere e dimentica in ogni caso una differenza fondamentale: nell’oggetto d’uso prevale il sostrato strumentale, sostrato che manca all’oggetto artistico. Il progetto che dunque gli sta più a cuore è quello di ridefinire le modalità attraverso cui le cose nascono, mutano e si relazionano tra loro nel tempo. Un’altra precisazione utile a chiarire il linguaggio utilizzato da Kubler va fatta sulla nozione di cosa (thing). La sua “storia delle cose” intende distaccarsi dall’uso che gli antropologi fanno della nozione di cosa (intesa come tutti i “prodotti lavorati” e per questo distinti dalle idee). La storia delle cose “intende invece riunire idee e cose sotto la rubrica di ‘forme visive’ […] in breve, tutte le materie lavorate dalla mano dell’uomo sotto la guida di idee collegate e sviluppate in sequenza temporale” (ivi: 17).

Ora, per Kubler c’è sia chi, come Focillon, intravede lo stile nelle opere più importanti di una data civiltà – quelle che fungono da modello imprescindibile a cui rifarsi – sia chi, e qui l’autore sembra riferirsi alla Pop art allora nascente, “attribuisce ‘stile’ anche alla benzina o alla carta igienica, o al dominio della moda”. Tra questi due estremi si situa un tipo di definizione che – secondo Kubler –  è stato tradizionalmente adottato nel campo della storia dell’arte:

“Lo stile è soprattutto un sistema di forme dotato di qualità e di significativa espressione attraverso cui sono visibili la personalità dell’artista e l’ampia prospettiva di un gruppo. Esso è anche un veicolo di espressione all’interno del gruppo, che comunica e determina certi valori di vita religiosa, sociale e morale attraverso la suggestività emozionale delle forme.” (Schapiro 1953: 287)

Lo stile viene definito, dunque, come una sorta di unità fondamentale della vita sociale e culturale di un artista o di un gruppo, riconoscibile attraverso un sistema di forme. Tutte queste definizioni, secondo Kubler, ambiscono ad un senso di stabilità e di ordine ma in realtà danno luogo ad un’impalcatura concettuale precaria e instabile; senza considerare il fatto che il concetto di stile è stato utilizzato e abusato a tal punto da diventare un concetto logoro, confuso,  disperso tra gli innumerevoli significati e nascosto tra le impercettibili sfumature che di volta in volta gli vengono conferite. L’errore fondamentale che commette lo storico dell’arte, che svolge le proprie ricerche guidato dal concetto di stile, è quello di classificare l’arte secondo criteri simili a quelli utilizzati dalla biologia per spiegare la vita degli organismi. Per illustrare il suo pensiero, Kubler si serve di un esempio tratto dal ciclo vitale della pianta: una pianta ha inizialmente foglie di piccole dimensioni non ancora ben formate; successivamente, giunte a maturità, esse assumono una forma ben definita e infine tornano ad essere di nuovo piccole con lineamenti più complessi e intricati. In questo esempio viene mostrato il principio organizzativo che si rifà alla metafora biografica. La pianta nasce, cresce, matura e infine deperisce fino a marcire in un processo ciclico e prevedibile; allo stesso modo lo storico dell’arte guarda ad un particolare evento artistico comprendendolo in uno stile determinato: studiando un’opera di Picasso, la inserisce, poniamo, nel periodo Africano – perché possiede alcune caratteristiche specifiche che si accordano all’unità fondamentale di tale periodo – e poi la introduce nel movimento di più vasta portata che è il Cubismo, di cui si può facilmente individuare, secondo tale modello di ricerca, nascita, sviluppo e declino. Questo ragionamento è proprio quello che resterebbe insensibile a ciò che è essenziale in un dato oggetto artistico, e cioè tutta la serie di relazioni che tale oggetto ha con altri oggetti, pur enormemente distanti per cultura di provenienza e per epoca di origine. In realtà, scrive Kubler, esiste una continuità fra le opere artistiche che viene oscurata dal concetto di stile.

La conclusione a cui giunge Kubler sulla nozione di stile è, in ultimo, la seguente:

“Lo stile è come un arcobaleno: è un fenomeno di percezione soggetto alla coincidenza di certe condizioni fisiche. Possiamo vederlo solo per brevi istanti quando ci soffermiamo tra il sole e la pioggia e svanisce appena ci portiamo sul luogo dove abbiamo creduto di vederlo. Quando crediamo di averlo afferrato, ad esempio nell’opera di un certo pittore, esso si dilegua nelle prospettive più lontane dell’opera dei suoi predecessori o dei suoi seguaci. […] Lo stile è legato alla considerazione di gruppi statici di entità. Esso svanisce appena queste entità sono reintegrate al flusso del tempo.” (2002: 153)

 

Mutazioni in sequenza

Gli oggetti materiali “riflettono” un ritratto della forma del tempo. Quest’ultima ha la possibilità di emergere agli occhi dello storico solo se egli prende congedo dalla terminologia con cui è solito riferirsi a tali oggetti. La forma del tempo diviene, per così dire, visibile solo quando siamo in grado di vedere le cose “allineate” in modo differente lungo il corso della storia.

Kubler afferma che “tutti gli oggetti fatti dall’uomo, di qualsiasi tipo, corrispondono a intenti umani in sequenza storica” (ivi: 54). Questo significa che tanto le forme dell’arte quanto gli arnesi sono degli “intenti”, nel senso di soluzioni intenzionali a problemi che l’uomo tenta di risolvere. Poco importa se da una parte abbiamo un pittore che tenta di risolvere, poniamo, il problema della riproduzione della luce naturale sulla tela, mentre dall’altra abbiamo un orafo che cerca un procedimento di fusione più raffinato: entrambi hanno in vista un problema ed entrambi nei loro rispettivi campi provano a dare una risposta migliore delle precedenti – dunque in sequenza storica. Il bisogno che tenta di venire soddisfatto, e il problema che cerca di essere risolto, procedono di pari passo con la “desiderabilità” (desirableness) delle cose. Gli oggetti vengono prodotti dall’uomo in quanto sono desiderabili. Qualora invece non fosse il desiderio a spingere l’azione umana, scrive Kubler, è molto probabile che rimarremmo tutti in una sorta di “naturale inerzia”.

Man mano che si danno nuove soluzioni al problema, il problema stesso cambia aspetto, ed è per questo che la sequenza delle soluzioni riesce a far luce sulla natura del problema in questione. L’insieme dei problemi e delle soluzioni forma la cosiddetta “classe formale” (class of forms), cioè una serie di soluzioni, collegate fra loro, che lungo una sequenza temporale tentano di trovare la chiave di volta per risolvere quel dato problema a cui sono dirette, cioè a cui sono “intenzionate”. È fondamentale il carattere “sequenziale” delle soluzioni dato che, secondo Kubler, esso mette in luce da una parte la coerenza interna delle soluzioni che si sono via via succedute, dall’altra evidenzia proprio il loro insorgere irregolare e imprevedibile ? l’intermittenza e la variabilità. Per fare un esempio concreto pensiamo all’eolipila di Erone di Alessandria (la sfera metallica che si mantiene in rotazione grazie al vapore contenuto al suo interno), la quale rimase inutilizzata per oltre diciassette secoli, finché non si verificarono le condizioni economiche, sociali e tecnologiche adatte allo sviluppo delle macchine a vapore vere e proprie. Ciò a dimostrare come appunto alcuni problemi possano essere ripresi dopo intervalli di tempo lunghissimi. Le sequenze di questo tipo sono dette intermittenti (intermittent), appunto perché sono suscettibili di una ripresa futura, senza che ciò intacchi la loro coerenza interna.

Una classificazione del genere appare a Kubler molto più appropriata per studiare la dinamicità delle cose (rispetto alla metafora dello stile che si rifà alla biografia individuale), soprattutto perché il telos del concetto di sequenza è quello di “accedere a parti prima invisibili dell’edificio storico”, parti che rimarrebbero invisibili se ritenessimo di individuarle sia nei termini finora privilegiati dalla tradizione della storia dell’arte sia secondo le categorie statiche di certo formalismo estetico-filosofico. La “sequenza formale”  (formal sequence) permette allo storico dunque di intravedere nel mare magnum degli oggetti artistici una sorta di filo invisibile che li tiene uniti, a seconda della classe di forme a cui appartengono. Per tali motivi è più opportuno considerare l’opera singola non tanto nel suo isolamento cronologico quanto nel continuum temporale, cioè nello “sforzo concatenato” in cui viene meglio compresa.

Uno degli aspetti più radicali di questa teoria è che dovremmo riconsiderare ogni oggetto materiale inserendolo in una nuova prospettiva (in questo caso quella della concatenazione temporale) del tutto diversa rispetto a quella che il concetto di stile faceva propria trattando gli eventi artistici:

“Le più antiche reliquie dell’opera dell’uomo sono gli arnesi dell’età della pietra. Da questi arnesi alle cose di oggi non c’è soluzione di continuità: è un’unica e lunga sequenza di  oggetti che si è ramificata più volte ed è spesso finita in rami morti […] tutto ciò che esiste oggi è o una replica o una variante di qualcosa che esisteva qualche tempo fa e così via, senza interruzione, sino ai primi albori della vita umana.” (ivi: 8)

Arriviamo ora ad un passo centrale della teoria di Kubler.

“All’interno di ogni sequenza, sono da scoprire gli oggetti primi (prime objects) e le vaste masse di repliche (replicas). Gli oggetti primi, descritti come invenzioni che possiedono tratti primi, vagamente comparabili a geni mutanti, sono suscettibili di generare mutamento. Essi si risolvono in copie e varianti, che a loro volta generano mutamento attraverso variazioni minute.” (Kubler 1982: 113)

Gli oggetti primi sono dunque delle “invenzioni principali”, paragonabili ai geni mutanti e ai numeri primi. Essi differiscono dagli oggetti ordinari per variazioni che possono essere anche microscopiche, e che tuttavia sono in grado di dar vita ad una nuova classe di forme, strettamente collegata al cambiamento inaugurato dalla comparsa del gene mutante. Similmente ai numeri primi, non esiste una regola certa che governi il loro apparire oppure una che ne determini la struttura interna in modo dettagliato.

Oltre a queste caratteristiche, potremmo dire, “irrazionali” dell’avvento di un oggetto primo, Kubler porta l’esempio del Partenone e delle statue del portale di Reims, dove per via delle numerose innovazioni e raffinamenti, e quindi per mutamenti voluti razionalmente dall’uomo, possiamo ben dire che questi siano oggetti primi data la loro “grande potenza generativa” nel far sorgere un nuovo problema.

A questo punto una domanda potrebbe legittimamente sorgere: come possiamo essere sicuri di trovarci di fronte ad un oggetto primo? È scontato che, data la presenza nell’oggetto primo di “tratti” primi, esso si differenzi sostanzialmente da tutti quelli che lo hanno preceduto nella serie, e, in via indiretta, da quelli che lo hanno seguito (dunque potremmo scoprirlo attraverso una sorta di teologia negativa dell’arte). Tuttavia non è raro che essi siano andati distrutti col tempo e che lo storico non possa fare altro che lavorare sulla massa delle copie sopravvissute. Kubler non a caso afferma che un oggetto primo è per sua natura sfuggente. Non lo si riesce a plasmare tanto facilmente poiché è sempre collegato alle possibilità tecniche e all’assetto sociale del periodo storico in cui si presenta – come è accaduto con l’eolipila di Erone. È la metafora astronomica quella privilegiata per far luce su questo concetto così fantasmatico: gli oggetti primi sono simili ai buchi bianchi, l’opposto dei buchi neri. Questi ultimi, i buchi neri, sono degli oggetti celesti formati dal collasso gravitazionale di una stella massiccia (cioè con massa enormemente più grande di quella del Sole) al termine della sua esistenza. Nella regione di spazio in cui i buchi neri gravitano nulla, nemmeno la luce, può sfuggirgli. Essi sono dunque dei corpi che distruggono al loro passaggio ogni forma di materia. D’altra parte i buchi bianchi sono degli oggetti teorico-speculativi ? solo potenzialmente esistenti, secondo le leggi della relatività generale di Einstein – antitetici rispetto ai buchi neri, poiché espellono materia invece di catturarla. Quello che premeva a Kubler era esemplificare l’azione degli oggetti primi attraverso il paragone con i buchi bianchi. Poco importa dunque se l’oggetto primo non sia più visibile poiché è andato distrutto o perché si è perso nella moltitudine delle repliche: se ne possono tuttavia ancora vedere le “perturbazioni” che hanno alterato la sequenza formale, tanto con la creazione di nuovi problemi quanto con le successive nuove soluzioni.

Secondo la teoria newtoniana la gravità, in termini generici, è una forza che attrae oggetti verso la terra e la terra stessa verso il sole, e così accade per tutti gli altri corpi celesti. Tuttavia, nel corso del Novecento, Einstein ha dimostrato che la gravità è in realtà l’effetto della curvatura dello spazio e del tempo in presenza di corpi molto grandi: spazio e tempo formano la struttura dimensionale dell’universo (lo spazio-tempo). La gravità così passa da essere una forza tra le altre a “proprietà” della materia di deformare lo stesso spazio-tempo, il quale, di conseguenza, varia a seconda della massa dei corpi. Questo brevissimo accenno alla relatività generale vuole sottolineare come per secoli la scienza abbia ritenuto che spazio e tempo fossero quantificabili in valori assoluti e distinti, cioè identici in tutti i sistemi di riferimento (e non è un caso, fra l’altro, che Kant aveva in mente i principi della meccanica classica). Einstein invece ha dimostrato che quando abbiamo a che fare con velocità che sono prossime a quella della luce assistiamo al fenomeno della “dilatazione” del tempo. Trasposto nel linguaggio kubleriano, ciò significa che il tempo degli oggetti non è un tempo “assoluto” ma “relativo” alla portata innovatrice di un oggetto artistico – in termini astronomici, potremmo dire, relativo all’enorme massa di un corpo, che appunto produce una curvatura nello spazio-tempo.

Se questi sono gli oggetti primi, cosa dobbiamo intendere invece con “massa di repliche”? Il concetto di replicazione è spesso associato alla ripetizione di ciò che veniva prodotto o compiuto nel passato, ai fini di mantenere un disegno stabile del mondo e delle persone. In altri termini, in tal modo il senso del reale è rintracciabile nella sua omogeneità con il passato. Per Kubler invece questo tipo di stabilità è una stabilità precaria, debole, imperfetta. Nel momento della replicazione infatti l’oggetto replicato subisce delle minute e impreviste variazioni, che accumulandosi provocano un allontanamento graduale dall’oggetto che si intendeva replicare. Replicazione è dunque un lento processo di mutamento storico. Non a caso Kubler scrive: “Non ci sono mai azioni completamente nuove, né è mai possibile compiere un’azione senza una qualche variazione. In ogni atto si mischiano sempre inestricabilmente la fedeltà al modello e il distacco da questo” (2002: 89, corsivo nostro). La ragione per cui ciò accade è dipendente principalmente da un motivo: la società tende a replicare nel corso del tempo le usanze, i rituali e le cerimonie (in breve la tradizione) perché così facendo protegge l’individuo dai “rischi di un’originalità disgregante”. Il nuovo e il creativo vengono quasi sempre tenuti nascosti per paura di compromettere la prosperità della società. Ora ci preme mostrare come, per Kubler, il tempo proceda secondo le due condizioni di mutamento (change) e di regolarità (regularity). Si dà storia solo nella misura in cui gli avvenimenti producono un qualche mutamento; dall’altra parte possiamo parlare di tempo solo quando constatiamo una certa struttura regolare: “il tempo è la cornice regolare alle divagazioni della storia” (ivi: 88). Un tempo senza regolarità rappresenterebbe solo caotici mutamenti; viceversa una replicazione identica e ininterrotta può bene adattarsi al concetto di una spazialità infinitamente estesa, ma non ad una successione temporale. Allo stesso modo quando parliamo di repliche in campo artistico ci troviamo nell’orizzonte della regolarità e quindi del tempo, quando abbiamo a che fare invece con le innovazioni siamo invece in quello dell’imprevedibilità storica.

Porre alla base del cambiamento la replicazione (non la ripetizione identica), significa, secondo Kubler, restituire la dignità ai cambiamenti infinitesimali e gradualmente differenziati, invece che mettere l’accento sulle grandi scoperte (per esempio la scoperta della forza di gravità). Questi due tipi di mutamento, cioè a “grandi intervalli” e a “piccoli intervalli” sono in realtà molto simili tra loro. Infatti ogni grande cambiamento non può essere riferito a un lasso di tempo brevissimo, tutt’altro: esso è il felice compimento di ricerche che hanno occupato molte vite di artisti e pensatori – apparentemente distanti tra loro ? e che invece si muovevano per così dire nella stessa direzione, cioè nella risoluzione di uno stesso problema. La differenza che si mantiene è solo una differenza di grado e non di genere.

La storia non è semplicemente un susseguirsi di durate vuote intervallate da momenti di estrema creatività.

 

La deriva dell’arte

Ora, questi eventi passati possono essere considerati come degli impulsi che si propagano nel corso del tempo. Durante la propagazione tale impulso viene deformato continuamente, non solo per via di “disturbi accidentali” ma anche perché viene interpretato in maniera differente. Nel corso di una normale trasmissione di un alcunché, ci devono essere un trasmettitore (l’oggetto o l’avvenimento che dà origine all’impulso) e un ricevitore del segnale inviato da questo trasmettitore ? a sua volta il ricevitore sarà grazie al suo lavoro un secondo trasmettitore e così via. Molto concretamente, possiamo spiegare queste nozioni con un esempio: un manufatto antico (trasmettitore) viene scoperto da un archeologo (ricevitore), che a sua volta lo pone nel contesto d’appartenenza, lo paragona agli altri simili scoperti in precedenza e ne prosegue l’impulso originario (il ricevitore diventa trasmettitore), trasformandolo. Kubler chiama questa rete di trasmettitori e ricevitori la “rete dei relè”, riferendosi a quel particolare dispositivo elettrico che sulla base di variazioni di corrente influenza le condizioni di un altro circuito. Il relè da una parte prosegue il segnale dell’impulso originario, dall’altra lo deforma ponendo l’attenzione su certi aspetti piuttosto che su altri (nel caso del manufatto potrebbe essere messa in evidenza la struttura cromatica piuttosto che la forma ecc.). Utili al riguardo sono le considerazioni della teorica dell’arte Joanne Danford, che in uno scritto sulle maschere della popolazione irochese scrive:

“Il mittente/artista/irochese e il ricevitore/storico/europeo sono entrambi coinvolti nella deformazione/creazione del segnale/artefatto/maschera.” (1989: 255)

In altri termini, secondo la Danford, quando gli irochesi producono una maschera rituale, essa è già deformata rispetto al segnale originale ? in questo caso rispetto al sogno degli sciamani cui appaiono spiriti mascherati ? e che nel momento della replicazione, nella concretezza del materiale scolpito, subiscono per forza di cose un mutamento. In secondo luogo dal momento che le maschere utilizzate nei rituali sono differenti rispetto a quelle prodotte per i turisti, quando lo storico europeo entra in contatto con queste repliche, esse si presentano ad un livello già doppiamente deformato. Infine, immettendo queste repliche nell’orizzonte del pensiero artistico europeo, esse subiranno un’ulteriore trasformazione.

Il concetto di mutamento cui fa riferimento Kubler è collegato a quello di “deriva” (drift).  In inglese il termine drift può riferirsi a diversi significati: esso è sia “spinta”, “impulso” che “cumulo”, “ammasso”. Mentre il verbo to drift indica “lasciarsi trasportare”, “galleggiare”. Kubler si ricollega a molti di questi significati, dal momento che intende drift in senso linguistico (le differenze che sorgono col progressivo allontanamento di due lingue appartenenti allo stesso ceppo). È in questo senso che si può parlare di una deriva dei mutamenti dell’arte. Un oggetto artistico propaga il suo impulso nel tempo sotto forma di segnali; qui inizia il processo di replicazione dell’oggetto, sulla base del segnale ricevuto, e infine, dopo una serie di minute variazioni, si produce il mutamento. I segnali, per così dire, galleggiano nel mare sconfinato del tempo, si lasciano trasportare sulla riva di qualche spiaggia dove vengono trovati, per poi essere ricuciti nel continuum a cui appartengono. I segnali mostrano che gli oggetti non sono come delle stelle isolate nelle profondità dell’universo; piuttosto sono simili alle costellazioni, in cui fili invisibili vengono disegnati fra stelle enormemente distanti per spazio e tempo. Eppure, una volta che il “sarto dell’arte”, così lo potremmo chiamare, ha concluso la sua opera, appaiono disegni e collegamenti prima impensabili. Gli oggetti, scrive Kubler riprendendo la nozione di aevum, cara a Tommaso d’Aquino, hanno un inizio ma non una fine, proprio come le nature angeliche, a metà tra gli uomini e gli altri esseri celesti. Ciò implica il fatto che essi siano sempre suscettibili di una riscoperta e di un riutilizzo in un tempo futuro indefinibile.

A ben vedere questa può essere considerata la prima formulazione di una teoria globale dell’arte. Chi prima di Kubler, infatti, ha tentato di dare un assetto universalistico al mondo dell’arte ha sempre dato per scontato, per così dire, che i suoi strumenti di studio recassero la dicitura Made in the West. Da Hegel a Wölfflin, passando per Worringer, ci si è sempre riferiti al mondo dell’arte: Kubler ci ha aperto ai mondi dell’arte. In aggiunta, questa specifica teoria può essere definita come una teoria dell’arte perenne. Essa non attinge al solo orizzonte estetico occidentale; non è determinata in partenza dal riferimento unilaterale alla sola opera d’arte, come elemento di studio privilegiato, e soprattutto produce scansioni temporali della materia artistica alternative rispetto a quelle cui l’eurocentrismo classico ci ha abituati.

 

La durata a involucro o del presente dilatato

“Poiché nessuna opera d’arte esiste al di fuori di una delle sequenze continue che collegano tutti gli oggetti fatti dall’uomo sin dalla più remota antichità, ogni cosa ha una sua determinata posizione in questo sistema. […] L’età di un oggetto non ha soltanto l’abituale valore assoluto dato dal numero di anni trascorsi dalla sua creazione: l’età ha anche un valore sistematico espresso dalla posizione della cosa nella sequenza appropriata.” (2002: 117-118)

In questo breve passo vengono messi in luce due elementi di importanza capitale per lo sviluppo della teoria di Kubler: la posizione (position) e l’età sistematica (systematic age) di un oggetto nella sequenza formale a cui appartiene. Ogni volta che viene introdotta una nuova “forma” all’interno della sequenza ? e quindi anche ogni volta che si pone una soluzione collegata ad un problema ? viene ad essere “occupata” una nuova posizione. Dal momento che il problema stabilisce i confini delle soluzioni, il numero di posizioni massime sarà comunque limitato. In altri termini, un’invenzione, occupando una nuova posizione all’interno della sequenza, limita le invenzioni successive e riduce la durata della stessa serie a cui appartiene.

Tuttavia, nel momento in cui abbiamo a che fare sia con le nuove invenzioni che con l’ammasso di repliche, come facciamo a inserirle cronologicamente nella durata di ogni sequenza? Da che punto partire per poter riconoscere il periodo di una sequenza a cui appartiene un oggetto/soluzione? Per Kubler, quando dobbiamo specificare la durata in una sequenza, occorre distinguere tra primo e tardo periodo. Tutte le soluzioni che fanno parte del primo periodo saranno riconoscibili da caratteristiche quali la semplicità strutturale, la chiarezza della funzionalità e l’obiettivo comune, nello specifico quello di risolvere il problema in maniera integrale – dette soluzioni prendono il nome di promorfiche (promorphic). D’altra parte le soluzioni più complesse, dispendiose, finalizzate a risolvere un problema parzialmente o in dettagli minuti appartengono al tardo – queste prendono il nome di neomorfiche (neomorphic), termine che, nell’ambito della mineralogia, si riferisce a quella particolare trasformazione delle rocce in cui un minerale prende il posto di un altro minerale con la composizione chimica quasi identica. Certo, spesso ciò che a primo impatto appare come una soluzione di primo periodo, col passare del tempo si rivela essere in realtà tarda e viceversa, ma a Kubler premeva porre questa terminologia per introdurre il concetto di “età sistematica”. L’età sistematica è un’età differente dalla cronologia assoluta. Quest’ultima vede il tempo alla stregua di una linea retta in cui, stabilito un punto come presente, tutto ciò che precede tale punto va sotto il nome di passato e tutto ciò che lo segue sotto quello di futuro. L’età sistematica viene definita dal contenuto dell’oggetto a cui si riferisce, e dunque dischiude l’idea di un tempo storico costituito da involucri (envelopes). Il concetto di involucro è meglio adattabile al mutamento delle forme dell’arte, poiché mostra come i contorni della durata siano definiti dalle forme che la attraversano, e non dall’arbitrarietà della durata rettilinea, insensibile alle connessioni fra oggetti e sequenze. L’involucro è un termine che ben si presta a spiegare come la durata del tempo, per Kubler, si modelli secondo quanto avviene all’interno del tempo stesso, e non viceversa. Esistono dunque diversi tipi di durata, dipendenti dall’oggetto che è loro proprio.

Ora, come si comporta lo storico nei confronti del presente? Come può classificarlo, senza per questo fissarlo in un’immobilità che non gli è propria? Kubler è ben consapevole delle difficoltà che si incontrano nella ricerca sul momento presente, cui egli si riferisce col termine actuality. Quest’ultimo, nella versione italiana de La forma del tempo è stato tradotto con “attualità”,  traduzione che però non riesce a rendere ragione dell’idea che ha in mente Kubler. Esistono diversi impieghi di questo termine. La filosofia idealista di Gentile parla di “attualità” nel senso di “atto che pone il suo oggetto in una molteplicità di oggetti, e insieme risolve la loro molteplicità e oggettività nell’unità dello stesso Soggetto” (2003: 230), dove quindi l’attualità risiede nella dinamica delle autocoscienze; d’altro lato nella tradizione teologica il concetto di “attualità” è collegato a quello di peccato, poiché è proprio l’attualità del presente che nella sua immediatezza non ci permette di cogliere la visione profonda del disegno di Dio, e ci mette spesso in contrasto con i principi della religione. Il termine inglese actuality invece ha mantenuto il significato dell’etimologia latina actualitas, che significa “realtà”, “esistenza” ? mentre l’italiano “attualità” in inglese è per lo più tradotto con topical, nel senso di “fatto recente che risulta rilevante nel presente”. Dunque, quando Kubler scrive actuality intende nello specifico quelle che potremmo chiamare le “condizioni effettive della realtà”. La difficoltà sta nel quantificare l’ampiezza di questa “effettività”. Non a caso il presente parla di “qui” e di “ora”, quindi di due coordinate ben definite nello spazio e nel tempo, e tuttavia ciò che accade in esso è la propagazione di un impulso avvenuto “là” e “allora”, vale a dire nel passato. Il “presente dilatato”, così potremmo chiamarlo, eccede infatti i confini dell’hic et nunce paradossalmente raccoglie in sé tutta la durata del divenire; in aggiunta, in esso è possibile esplorare anche le figure che si dispiegheranno potenzialmente nel futuro. Lo storico, come l’astronomo, studia la luce di un evento passato, che tuttavia appare solo nel presente.

Questo discorso si propone di reinterpretare la struttura stessa del tempo delle cose. Gli eventi che si danno all’interno di questa cornice temporale non vanno classificati con reti a maglie larghe ? come per la nozione di stile ?, piuttosto devono essere colti nella loro sequenza, e questo lavoro può essere compiuto solo se ad indirizzare la nostra ricerca c’è tutta la terminologia che abbiamo cercato di esporre, per quanto possibile, in questo testo. La forma di queste maglie, scrive Kubler, è simile a dei “fasci fibrosi” (fibrous bundles) di diversa lunghezza. Questi “fasci fibrosi” rappresentano ognuno una sequenza formale, la cui estensione dipende dalla durata dei relativi oggetti primi e dalla massa di repliche ad essi connessi. Solo ripercorrendo, nel presente “effettivo”, nell’actuality, la storia di queste fibre, è possibile intravedere le soluzioni che si presenteranno nel futuro.

Lo scrittore polacco Stanislaw Jerzy Lec scrisse ironicamente che “gli uomini hanno i riflessi lenti; in genere capiscono solo nelle generazioni successive” (Lec 1984: 87). Questo breve aforisma, riletto secondo la prospettiva kubleriana, perde il suo connotato sarcastico, poiché mette in luce la condizione necessaria affinché si dia la comprensione storica di alcunché: “gli uomini non possono avere la piena percezione di un evento finché non si è verificato, finché non è storia, finché non è polvere e cenere di quella tempesta cosmica che chiamiamo il presente e che perpetuamente infuria attraverso il tempo” (Kubler 2002: 27).

In conclusione, la radicalità di questo pensiero è espressa dallo stesso autore:

“Invece di occupare un universo di forme in continua espansione, […] ci troveremmo ad abitare un mondo finito di possibilità limitate, in gran parte ancora da esplorare e sempre aperto all’avventura e alla scoperta. […] Invece di continuare a considerare il passato come una macroscopica dipendenza di un futuro di dimensioni astronomiche, dovremmo pensare a un futuro nel quale i pochi cambiamenti ancora possibili saranno di un tipo di cui il passato già detiene la chiave.” (ivi: 148)

Se i prodotti dell’uomo fossero esclusivamente delle novità imprevedibili, non potremmo parlare di possibilità future limitate. E tuttavia, ogni oggetto è anche un unicum, per via della durata che è tutta presente in esso. Come insegna un antico proverbio giapponese: On-ko Chi-shin, che letteralmente significa “chiedere alle cose vecchie” (On-ko) “è sapere le cose nuove” (Chi-shin), vale a dire, riscoprendo l’antico si scopre il nuovo.

di Enea Bianchi

 

 

Bibliografia

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– 1982, “The Shape of Time. Reconsidered” in Perspecta 19: 112-121.

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