Guido Traversa – La simplicitas come habitus


                                                                        Beatitudo non est virtutis praemium, sed ipsa virtus.

Spinoza, Etica, Propositio XLII

La simplicitas come Quaestio

Tommaso d’Aquino nella Summa Theologie, all’articolo 2 della Quaestio 109 dedicata alla Veracità (De veritate), pone la seguente questione: Utrum veritas sit specialis virtus.
La trattazione si avvia, secondo la necessità intima al metodo didattico ed espositivo della Quaestio disputata, con il “ad Secundum sic proceditur”: “sembra che la veridicità non sia una virtù specificamente distinta” (Tommaso d’Aquino 1985: 134). Al punto 4, l’ultimo argomento della tesi, prima di passare al “Sed contra” (peraltro costituito da un solo rigo: “Aristotele la enumera tra le virtù”, Tommaso d’Aquino 1985: 136), leggiamo:

la veracità sembra identificarsi con la semplicità: poiché l’una e l’altra si contrappongono alla finzione. Ora la semplicità non è una virtù speciale (Sed simplicitas non est specialis virtus), ‘rettificando essa l’intenzione’, il ché si richiede in tutte le virtù (Tommaso d’Aquino 1985: 136).

Nel Respondeo dicendum, nel “ad quartum dicendum”, si affronta nuovamente, come è ovvio, la simplicitas:

la semplicità si contrappone alla doppiezza (duplicitati), che consiste nel mostrarsi esternamente diversi da quello che si è internamente (habet in corde). Quindi la semplicità si riduce alla veracità. Essa rettifica l’intenzione non già direttamente, perché questo è compito di qualsiasi virtù, ma escludendo la doppiezza, che porta a manifestare un’intenzione e a perseguirne un’altra (Tommaso d’Aquino 1985: 138).

Nella Quaestio 111, art. 3 ad. 2, Tommaso riprende il tema della semplicità in relazione alla veridicità:

Inganno e frode che stanno alla semplicità come l’astuzia sta alla prudenza. Ma inganno e frode sono ordinati principalmente a ingannare e secondariamente, in certi casi, a danneggiare. Perciò direttamente alla semplicità spetta fuggire l’inganno. Ecco, perché, come abbiamo già visto, la semplicità si identifica con la veracità; ma c’è tra loro una differenza di ragione: poiché questa virtù si dice veracità in quanto fa concordare i segni, o espressioni esterne, con le cose significate; e si dice semplicità in quanto non ha di mira cose diverse: l’una, cioè, secondo l’apparenza esterna, l’altra interiormente (Tommaso d’Aquino 1985: 178).

La semplicità si oppone, dunque, alla doppiezza e tale opposizione accoglie in sé un’ulteriore forma di opposizione, quella tra ciò che si mostra esternamente e ciò che si è internamente: una opposizione, nascosta, nella quale si manifesta una intenzione e se ne persegue un’altra. Quando l’agire semplice è in grado di venire a capo di tali opposizioni, allora, è capace di fuggire l’inganno. La simplicitas non mira a far concordare i distinti, le espressioni con le cose, come la veracità, non ha di mira cose diverse, altrimenti ne andrebbe della propria stessa semplicità, ossia di se stessa. Eppure la simplicitas si oppone alla doppiezza e all’inganno, quindi vive e vuole, ha un telos, e se è in grado di agire non tanto in vista di fuggire l’inganno, quanto di esibire se stessa, il proprio habet in corde, allora, non è ‘assolutamente semplice’: la simplicitas non è univoca.

La simplicitas come ‘accordo’

Anche la simplicitas deve poter essere raggiunta, esperita ed espressa, ma come una natura, come un che di naturale: come un risultato che appena vissuto non mostra più l’eventuale fatica compiuta. Se mostra sé, mostra l’interiorità come esteriorità. Forse, non fa cadere la distinzione, ma fa sì che, ad un certo punto, come un habitus, la voce interiore (vox interioris) suoni nella voce esteriore (vox exterior): il pensiero nella parola (cfr. Tommaso d’Aquino 1985: 122; 1988: 164). Tale passaggio, inteso come un sequitur, non è affatto automatico, richiede una educazione ed un esercizio, un habitus, appunto, che, una volta appreso come familiare, sostiene il proprio pensare, il proprio dire e il proprio agire. Li sostiene come se fosse una ‘sostanza prima’.
La simplicitas accorda due suoni, due voci, due forme: l’interiore e l’esteriore; penso che la distinzione non cada, si tratta, invece, di cogliere il punto di incontro che superi l’opposizione e non la distinzione, solo così si fugge l’inganno e la doppiezza pur pensando, pur dicendo, pur agendo, ossia pur volendo e, ancor più, rapportandosi, come ‘semplici’, come “poveri di spirito” (Matteo 5,3), come anawim (i curvati) ad un altro, ad altri, a Dio nella preghiera. Infatti, anche riflettendo sulla preghiera, sia su quella comune, sia su quella individuale, si pone la Quaestio “se la preghiera debba essere vocale” (Tommaso d’Aquino 1985: 107), ossia se la voce esteriore sia necessaria per la voce interiore.
Ma cosa aggiunge l’esteriorità all’interiorità, o l’interiorità all’esteriorità? Nulla, se ‘consuonano’, nulla se il suono che ne segue è naturale e, si potrebbe dire, in modo superficiale, non un “si-fa” (il tritono, il cosiddetto “diabulus in musica”). Ma anche il tritono, come insegnava Nazario Bellandi, è un suono (cfr. Bellandi 1997).
Se l’esteriorità non aggiunge nulla, però, essa abbellisce l’accordo stesso che ha ed è con l’interiorità. Segna il valore, che stima come un orafo, lo splendore di quella ‘pietra’ (e Garcia Lorca definì la pietra: “la piedra es una espalda para llevar al tiempo”) che è il midollo ontologico della simplicitas.
La simplicitas stessa non aggiunge ‘nulla’ all’essere delle due forme poste, fra loro, in rapporto armonico, ma ne esalta la bellezza sia di ciascuna, sia del loro rapporto. La simplicitas non compie un “rammendo” (Flickarbeit) nel senso spirituale indicato da Martin Buber (cfr. Buber 1947). E se è così, allora potremmo capire e praticare la Simplicitas, come una dispositio (come capacità di ordinare i pensieri), come una propensione che si trova, in modi diversi, sia nelle virtù dianoetiche, sia in quelle etiche (cfr. Aristotele 1987) in quanto essa non è estranea, nell’esperienza, a nessuna di queste virtù: sapienza, giudizio, saggezza (virtù dianoetiche), liberalità e temperanza (virtù etiche).
L’esperienza dell’apprendere e, insieme, del rafforzare la simplicitas può non essere un Flickarbeit perché, pur fuggendo l’inganno e la doppiezza, non ‘si dispera’, non lascia la presa grazie ad un particolare stato della volontà: il volere libero, a tal punto da non essere indifferente. Cartesio, nelle Meditazioni metafisiche, nella Quarta, non a caso dedicata alla volontà quale causa dell’errore, afferma:

poiché io sia libero non occorre che io possa rivolgermi sia verso l’una, che verso l’altra parte […] quell’indifferenza che provo allorquando nessuna ragione mi sospinge di più da una parte che dall’altra, è il grado più basso della libertà, e non è segno di perfezione in essa, ma solamente di mancanza di conoscenza, o di una qualche negazione (Cartesio 1998: 227-229).

La simplicitas come il ‘permanere’

La non indifferenza è in grado, non una volta per tutte, ma di volta in volta, di fuggire l’inganno e di opporsi alla doppiezza, ma ciò non è che un risultato, di certo encomiabile, ma solo un risultato, un effetto della simplicitas. Questi effetti, questi risultati, non saranno più il centro quando la simplicitas, quale condizione di esistenza, si è resa ferma, ma non immobile, diviene simile ad un terreno, in sé disomogeneo, nel quale permanere, dimorare, per vivere a lungo e per dire le cose nella loro semplicità: “per dirle così, che a quel modo, esse stesse, nell’intimo mai intendevano d’essere” (oh zu sagen so, wie selber die Dinge niemals innig meinten zu sein, Rilke 1978: 57). Allora, solo allora, la volontà si sarà emendata dalla complessità della opposizione e non certo dalla eleganza e, certe volte, dalla bellezza della distinzione, della differenza. La volontà non si troverà a dover fare solo esercizio, pratica, di indipendenza da ciò che “non dipende da sé”, come insegnava Epitteto, non si rivolgerà più, o soprattutto, “agli animi di natura o d’abito non eroici, né molto forti, ma temperati e forniti di mediocre fortezza, ovvero eziandio deboli” (Leopardi 1966: 3), così come Leopardi tratteggiava il tipo di destinatario della pratica filosofica insegnata da Epitteto.
La simplicitas, quale condizione sì voluta, raggiunta, da una volontà che è quasi in grado di dimenticare se stessa nel movimento, non inerziale, verso una stabile e non immobile condizione di conformità al fine (intesa, kantianamente, come Zweckmässigkeith) sentito e visto dalla ragione umana, sarà espressione di una necessità universalmente comunicabile, condivisibile (così come la necessità dei giudizi di gusto nella Critica del Giudizio il cui modello è letto da Hanna Arendt come forma del giudizio politico). La simplicitas sarà, ed è in tali condizioni, una “semplicità volontaria” (Gregg 2012: 5).

Delle forme della libertà. La volontà come responsabilità “allargata”

Classicamente, si è portati a distinguere due forme dell’agire libero: la libertà in negativo, la libertà “da”, e la libertà in positivo, la libertà “di”. Mentre la prima è l’essere liberi da impedimenti, la seconda indica, invece, la possibilità di porre in essere un atto, un’azione, seguendo, eventualmente, determinati principi. Entrambe le forme hanno qualcosa di importante da mostrarci: in effetti, è stata la “cultura” che ha promosso l’esigenza di essere liberi “da”, e ciò non solo nella sfera individuale e soggettiva (in fin dei conti, anche il solo liberarsi dalle passioni, e intraprendere lo stile di vita che ne consegue, è un tentativo di essere liberi da coercizioni), ma soprattutto in quella etica e in quella politica, dove l’impegno di “liberarsi” dalle imposizioni è stato un motore della storia. Ma spesso, a ben vedere, ci si rende liberi “da” per poi agire, per fare un qualcosa che, a torto o a ragione, si riteneva, individualmente e/o collettivamente, di non poter non fare.
Quindi, ciò che è libero “da” diviene, in alcuni casi, una condizione per ciò che è libero “di”. Ma chi compie un’azione liberamente, lo fa “in vista di”, per qualcuno o per qualcosa, cioè per un fine, piccolo o grande che esso sia: ciò che è libero “di” diviene, in alcuni casi, condizione di una forma ulteriore di libertà, ad un tempo connessa e distinta dalle altre due. Nell’essere “libero per” è in gioco una forma di libertà in cui la volontà del soggetto agente non è il criterio stesso dell’agire, ma lo diventa il “chi” che è voluto. E quando il volere, la volontà, avverte la necessità e l’avverte senza “indifferenza”, allora è possibile che l’unità di misura del proprio agire sia data, piuttosto che dal “volente”, dalla relazione stessa con il “voluto”: si tratta di un agire libero non cancellato dalla necessità, non cancellato dal sentire la relazione con qualcosa o con qualcuno avvertito come necessario. E nel cui avvertimento si può far esperienza della simplicitas come di una “responsabilità allargata”, di un sentirsi responsabili verso chi può non esserlo nei propri confronti: una responsabilità sostanziata non di sola reciprocità. Non è facile liberarsi dagli impedimenti, propri, dagli idola fori, per quel “di” dell’essere “liberi di”. E, poi, forse ancor più difficile è mantenersi nel “di”: bisogna diventare capaci di dare un nome a questo “di”, capire se esso implica relazione e, se sì, con “chi”. Inoltre, bisogna sapersi mantenere, permanere, in questa relazione, senza doppiezza.
E sempre di moralità si tratta, ma incondizionata, basata sul riconoscere anche senza dover essere riconosciuti. Si tratta di una morale libera dalla rappresentazione della relazione pensata come causa-effetto: libera per essere libera “di” fare ciò che può non causare, non determinare un “ritorno”, che può abbassarsi (kenosi) anche senza rialzarsi, che può venire incontro comunque sia e che può parlare a “nome di”, anche senza essere ascoltati da colui in nome del quale si parla, che può esperire l’ire anche senza il reverti. E perché tutto ciò? Perché un simile agire “fa”, si abbassa, va incontro comunque sia, parla a nome di, permanendo in una relazione costitutiva del rapporto: l’ire è il suo stesso reverti: la simplicitas solo così è e diviene l’accordo tra l’interno e l’esterno dell’agire, senza doppiezza.

 

La simplicitas come libertà: spontaneità, concretezza e razionalità

È del rapporto fra volontà e libertà che qui si tratta, dell’habitus morale in cui la misura della propria libertà non è più il ritmo univoco di sé con sé, ma il ritmo del legame, perfettibile, con la natura dell’esteriorità: il ritmo ontologico della reale participatio tra l’esterno dell’agire con il suo habet in corde: la simplicitas.
La simplicitas può, ad un certo punto del suo rendersi sostanza degli accidenti della vita, mostrare la propria identità come costituita da almeno tre elementi che tra loro sono in un rapporto organico: la spontaneità, la concretezza e la razionalità.
Luigi Scaravelli, nel 1942, pubblicò la Critica del capire. Il libro si compone di cinque capitoli: “L’identità”; “Il giudizio”; “La libertà”; “Gli opposti”; “Il procedimento analitico”. Ritengo che il terzo capitolo, “La libertà”, costituisca il cuore della Critica del capire.
In tale contesto Scaravelli muove, come spesso fa, da Kant, e qui in particolare, dalla differenza tra le prime due Critiche, per segnalare subito la questione cruciale dell’impianto kantiano:

Kant sa bene che se esiste la assoluta analitica identità di A fra la volontà e la legge morale, la volontà perderebbe ogni significato; che se l’individuo scomparisse, assorbito nella identità con la legge, anche la moralità scomparirebbe: una volontà per ipotesi analiticamente identica alla legge, cioè una volontà santa, cessa d’esser volontà. Senza mantenere una distinzione fra l’agire e la rappresentazione della legge, l’operare immediato non può esser che irradiazione mistica o forza naturale o movimento meccanico. E Kant mantiene la distinzione, di più, la moltiplica, ma non la giustifica (Scaravelli 1968: 105).

In questo caso, l’impianto analitico dell’identità cancella la realtà ed anche l’individualità del soggetto agente morale, e con questi la libertà stessa. Ma se l’identità univoca, pur potendo essere patita, esperita, non è vera, ossia non esiste ed è solo una scorretta, impaurita, “turbata” rappresentazione della realtà, allora la salvezza, la libertà, la redenzione, saranno, almeno de iure presenti in ogni singola esperienza individuale, collettiva, storica.
L’andamento argomentativo scaravelliano, molto rigoroso, a ben leggerlo e capirlo, mostra il suo essere imparentato con la vita, con quella quotidiana, con la singolarità concreta di ogni persona, con i principi che fanno sì che la libertà non “dilegui”:

raccogliere le fila, per vedere quali necessità e quali principi si assommino e condensino in questo problema della libertà. Questi principi sono tre: I – La concretezza. Si ha concretezza solo se l’attività o il processo spirituale non è la ripetizione dell’omogeneo. […] II – La spontaneità. Si ha spontaneità se l’attività che va oltre A, non solo non ripete A, ma neppure è obbligata a formare un B determinato a priori. […] III – La razionalità o intelligibilità. Si ha razionalità e non forza vegetativa o cieco impulso, quando l’attività non è mai, neppure un attimo, scompagnata dalla trasparenza che la fa intellegibile. […] Il nodo del problema della libertà positiva è dunque quello dell’unità della spontaneità (A = non A) con la concretezza (A = B) e con la razionalità (A = A) (Scaravelli 1968: 115-117).

Ma cosa significherebbe coniugare, mantenendone le reciproche distinzioni, la spontaneità, la concretezza e la razionalità? Che tipo di rapporto fra la volontà e la libertà si verrebbe a creare? Quale esercizio della libertà sarebbe in grado di praticare tale coniugazione, o unità dei distinti che rimangono tali? Quale identità dell’agire libero può essere, in modo razionale e quindi universalmente comunicabile, la causa di un atto libero concreto, che ne derivi non meccanicamente e quindi non come semplice suo modo, e ad un tempo l’identità di un atto spontaneo? Tutto lo sforzo sta nel tentativo di dimostrare che la libertà, l’agire libero, proviene da una identità ontologica in sé distinta, partecipativa di soggetti concreti e di altri da se stessi e che proprio per questo è spontanea, in quanto strutturalmente posta in relazione. Questa coniugazione è possibile a patto che la volontà assuma a ritmo del proprio volere non il suo stesso atto, ma concretamente ciò a cui tende, “ciò che le manca”. L’“in più” dell’identità, che libera sé, è proprio la coniugazione di quei tre principi.
La semplicità apparirà, così, come un tessuto i cui fili si mostrano come un’unità, sì voluta, ma non imposta ad alcuno, neppure a se stessi.

La Bellezza è l’“in più” di qualcosa

L’“in più” dell’esperienza vissuta la si può tradurre in un’esperienza universalmente comunicabile. L’“in più” dell’identità di un alcunché di determinato diviene la forma di una bellezza piccola come le piccole esperienze, le “lucciole” di Pasolini, e grande come l’idea di una storia dal punto di vista cosmopolitico. Si tratterebbe dell’“in più” della propria identità, che consentirebbe di educare la nostra stessa percezione, così come avviene nell’ascolto della musica, nella percezione visiva delle forme pittoriche e scultoree e nella percezione del suono della voce poetica, della “poesia della voce” di Carmelo Bene. Si tratterebbe di un’educazione al percepire. L’“in più” diverrebbe una forma della delicatezza. L’“in più” tende alla forma e in tale tendere si “abbassa” verso l’esistenza; come lo si fa solo quando lo si vuole fare: “perché abbia a piovere anche sulle terre spopolate” (Giobbe 38, 25-27). Perché l’orecchio possa ascoltarne il suono.
La simplicitas ha bisogno della forma, di una forma semplice come la bellezza a colpo d’occhio, ma il colpo d’occhio non è detto che sia di sollievo, può ferire come tutto ciò che è imprevisto e da cui le vie d’uscita ci sono sconosciute:

Vi sono nell’esperienza dei grandi poeti

tali tratti di naturalezza,

che non si può, dopo averli conosciuti, non finire con una mutezza completa.

Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi

e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno,

non si può non incorrere, come in un’eresia,

in un’incredibile semplicità.

Ma noi non saremo risparmiati,

se non sapremo tenerla segreta,

Più di ogni altra cosa è necessaria agli uomini,

ma essi intendono meglio ciò che è complesso (Pasternak 1957: 197-199)

 

Idea di una simplicitas dal punto di vista cosmopolitico

La simplicitas non può non essere voluta, infatti non è un processo naturale come la fotosintesi, eppure non si risolve nella sola volontà, come una deliberazione arbitraria. Risponde ad una necessità, ad una Dike pubblica, ma non manifesta come legge positiva. Abita nell’interiorità dell’essere umano e aspetta il kairos per essere in accordo con l’esteriorità. È voce e aspetta il suono della voce per essere ascoltata. L’attesa non turba il suo tempo: perché è lo spazio, la sua concretezza di cui non può fare a meno, lo spazio è la sua finalità comunicabile, il luogo della sua concreta spontaneità. E la razionalità? Penso che questa non le possa essere conferita che da tutto il genere umano, nella Storia, nel futuro dell’umanità, se si darà il tempo e non solo lo spazio per una simile razionalità cosmopolitica.
Kant, nel saggio Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, apparso nel 1798, scriveva:

Nel genere umano deve sopravvenire una qualche esperienza che, come avvenimento, mostri una sua disposizione e una sua capacità a essere la causa del suo progresso verso il meglio e (poiché ciò dev’essere l’azione di un essere dotato di libertà) il suo autore […]. Questo avvenimento non consiste in fatti o misfatti importanti compiuti dagli uomini […]. No, nulla di tutto ciò. Trattasi solamente del modo di pensare degli spettatori. Che si rivela pubblicamente nel gioco delle grandi rivoluzioni e che manifesta una partecipazione universale e tuttavia disinteressata dei giocatori di un partito contro quello dell’altro [e] dimostra un carattere della specie umana in generale e ad un tempo (per il suo disinteresse) ne dimostra un carattere morale fondamentale, che fa non solo sperare nel progresso verso il meglio, ma costituisce già di per sé un tal progresso nella misura in cui esso può essere attualmente raggiunto (Kant 1978: 218-9).

È bello, è la forma della bellezza di cui dicevo prima, il presentarsi del “progresso verso il meglio” non come fatto o misfatto, ma come punto di vista pubblico e disinteressato, ad un tempo legato all’“entusiasmo”: il punto di vista politico sulla storia si mostra, in tal modo, come un’idea estetica, come universale comunicabilità.
È lecito, così, sperare che la simplicitas possa superare i limiti dell’accordo dell’esteriorità con il habet in corde individuale e presentarsi, a ciascuno, come il desiderio di semplicità dell’intera umanità. “non singulorum, sed universorum” (Kant 1978: 221).

E dopo?

E dopo? E se non si darà il meglio? E se l’universale comunicabilità dovesse cedere il passo alla doppiezza nella storia? E se nessuna immagine estetica ci venisse in soccorso?
La bellezza sarebbe ancora? L’accordo non più. La kenosi non più.
La Peste insegna: chiudiamoci e raccontiamo l’un l’altro: aspettiamo. L’attesa è un’arte, l’apparecchiare è per chi degusterà. Un Seder (ordine, sequenza) si compie comunque e comunque si attende, malgrado tutto.
E se non dovesse darsi memoria, si dia attesa. Si blocchi pure il tempo. Potrà, però non essere bloccato lo spazio per l’attesa: la tavola apparecchiata. L’oggettività dello spazio riprenderà la parola persa: quella sottratta dalla volontà. Dalla volontà resa stanca dalla sua stessa lunga storia.
Ci si raccolga in un punto dello spazio e si osservi pubblicamente con entusiasmo disinteressato, come se fosse ancora possibile e doveroso fare dello spazio il tempo non solo dell’attesa, ma anche della presenza, si osservi la tavola disadorna o apparecchiata: che sia e si compia, così, un atto semplice.
Un atto di attesa, di semplicità fisica, data nello spazio reale, in un luogo potrebbe essere un “mettersi in disparte”: così scriveva Lévinas:

perché l’eguaglianza possa fare il suo ingresso nel mondo, bisogna che gli esseri possano esigere da sé più di quanto non esigano dagli altri, che si sentano responsabili della sorte dell’umanità e che si pongano, in questo senso, in disparte rispetto all’umanità (Lévinas 2004: 39).

Bibliografia

Aristotele, 1987, Etica nicomachea, I, 13, 1103 a.

Bellandi, N., 1997, Il tritono: diabulus in musica, in Montag, collana periodica di Filosofia, Fahrenheit 451, 41-50.

Buber, M., 1947, Der Weg des Menschen: nach der chassidischen Lehre, cap. 3: Entschlossenheit, Gütersloher, Verlagshaus.

Cartesio, R., 1998, Meditazioni metafisiche, trad. it. di L. Urbani Ulivi, Milano, Rusconi.

Gregg, R.B., 2012, Il valore della semplicità volontaria, trad. it. di C. Laurenti, Roma, Castelvecchi.

Kant, I., 1978, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, trad. it. di G. Solari, G. Vidari, in Scritti Politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, UTET.

Leopardi, G., 1966, Preambolo del volgarizzatore, in Manuale di Epitteto, volgarizzato da Giacomo Leopardi, Torino, Paravia.

Lévinas, E., 2004, Difficile Libertà. Saggi sul giudaismo, trad. it. di S. Facioni, Milano, Jaka Book.

Pasternak, B., 1957, Le onde, in Poesie, trad. it. di A.M. Ripellino, Torino, Einuadi.

Rilke, R.M., 1978, Elegie duinesi. Nona Elegia, trad. it. di E. e I. De Portu, Torino, Einaudi.

Scaravelli, L., 1968, La critica del capire, in Opere, Firenze, La Nuova Italia.

Tommaso d’Aquino, 1985/1988, Somma teologica, trad. it. a cura dei Frati Domenicani, Bologna, Edizioni Studio Domenicano.