Jean Baudrillard – Design e Dasein


Non viviamo più nel mondo dell’alienazione e per questo non è più possibile trarre argomenti dalla miseria, dall’inautenticità, dall’infelicità e dalla cattiva coscienza. Né è più possibile sperare di attingere all’esistenza nel e attraverso lo sguardo dell’altro, poiché non vi è più dialettica dell’identità. Tutto è ormai una somma di apparire e di apparire soltanto, senza troppa preoccupazione per l’essere. Design, dunque, e non Dasein.

Design, senza ombra di desiderio. Poiché la seduzione non è più in gioco. Per sedurre, infatti, occorre che le apparenze siano rese funzionali a una strategia di sviamento dall’altro, che è destinato a cogliere il proprio desiderio o il proprio sguardo per condurlo alla rovina. E allora il look è tutto: io esisto, io sono qui, io sono un’immagine, guardatemi, look, look! Come i graffiti a New York: “mi chiamo John, vivo a New York, I’m alive!” Forse narcisismo, forse gioco di simulacri, in ogni caso esibizione senza inibizione, una sorta di ingenuità pubblicitaria in cui ciascuno diventa l’impresario della propria apparenza, del proprio artificio. Passione nuova, ironica e nuova, quella di ritrovarsi senza illusioni sulla propria soggettività, sui propri desideri, e di scoprirsi affascinati dalla loro metamorfosi.
Il look è un po’ ciò che è la televisione in fatto d’immagine. Un insieme di minore definizione, di definizione minimale. Al contrario del cerimoniale, è un’apparenza versatile, effimera, un’apparenza tattile, che come dice McLuhan a proposito dell’universo elettronico, non provoca né lo sguardo (“look”, vale a dire “avere l’aria di”, una sorta di sguardo che sollecita lo schermo, che a sua volta vi guarda), né l’ammirazione, che è ancora specchio della moda, ma un puro effetto speciale, senza significato particolare. Il look non si richiama più a una logica sociale della distinzione, non mette più in questione una differenza codificata. Gioca alla differenza senza credervi, gioca alla singolarità senza essere né dandismo, né snobismo. Non è né chic, né distinto: è un manierismo disincantato in un mondo senza maniera.

Anche l’erotico non è che un effetto speciale. La minigonna a suo tempo è stata ancora una sorta di avvenimento nella storia del costume, esprimeva un superamento del tradizionalmente proibito, l’irruzione dell’erotico nel reale… Ma con il look avviene soltanto l’irruzione dell’erotico nelle apparenze, un gioco di effetti speciali, pura estroversione di giochi simulati, senza desiderio e senza immaginario (in questo senso equivale forse a una censura, a una cancellazione più radicale delle proibizioni tradizionali). Prima vi era una sorta di gioco tra la moda e il costume: ciò che scompariva nella moda passava nei costumi. Con il look non si può più neanche parlare di questo scambio “retorico”. Siamo di fronte alla fine della retorica della moda, e dei costumi (legate in buona parte all’avvento della liberazione sessuale).
Trionfo del design – grado zero del Dasein.
L’esserci è contraddittorio con la movenza del tempo reale e il metabolismo delle apparenze. L’esserci – essere-qui e da nessun’altra parte, nella singolarità esistenziale dell’essere – è inconciliabile con lo scambio generalizzato dei segni e del valore-segno. Il design ne è il concetto più generale, il concetto generico. Bisogna distinguere radicalmente ciò che è impossibile scambiare (l’essere, la singolarità) e ciò di cui lo scambio è universalmente possibile, sotto il segno del design, e per riduzione al grado zero (o al grado Xerox) dell’essere e della cultura.

 

I jeans

Nella mondializzazione degli scambi, alcuni prodotti-feticcio come i jeans, la Coca-Cola o il MacDonald, sono divenute determinazioni totemiche e sono penetrate nell’immaginario insieme al mercato reale. Fanno parte di una lingua universale, pubblicitaria, intraducibile in qualsiasi altro idioma. Non vi è altra definizione di questi prodotti se non quella della loro marca.
Tale singolarità, che impedisce di collocare certi prodotti nel sistema della lingua, corrisponde a una eguale impossibilità di iscrivere i jeans nel sistema di abiti e della moda – se non sotto il segno del grado zero. I jeans sono il grado zero dell’abito, o il non-abito universale, senza bisogno di abbinamenti né accessori. Semplici mezzi, (almeno nella loro ispirazione primaria, originaria). Analogamente si può dire che la Coca-Cola è il grado zero della bibita e il MacDonald il grado zero del cibo. “Grado zero” non è affatto una definizione peggiorativa, al contrario è una caratteristica originale della modernità estrema. Si può anche a ragione dire che i Diritti dell’Uomo sono il grado zero della democrazia, o che il post-moderno è il grado zero del concetto. I jeans fanno parte di tutta una serie di “universali” concreti, di prodotti, di merci, di segni, che hanno realizzato una sorta di unanimità immaginaria, che hanno invaso lo spazio mondiale divenuto pubblicitario, come le star del cinema o dei talk-show, e che si sono sostituiti ai buoni vecchi universali del pensiero e della filosofia – di cui si sentono forse nondimeno l’incarnazione ironica. I jeans sono forse finalmente l’incarnazione dei Diritti dell’Uomo, o in ogni caso di una certa democrazia.

I jeans non sono un’uniforme. L’uniforme, quale che sia, militare, scolastica o civile (come gli abiti della Cina di Mao), è sempre istituzionale, riflesso di una società strutturata e gerarchica. I jeans sono il riflesso di una società indifferenziata, o in via di indifferenziazione (sia sociale, che professionale o sessuale). L’uniforme sigilla la coesione ideologica di una massa, di una nazione, di un’istituzione. È un emblema, e come le bandiere o i discorsi, è il messaggio di una volontà collettiva. Niente del genere con i jeans, che non sono portatori di nessun messaggio ideologico. Anche se sono milioni di esemplari, non traducono alcun contratto di massa, alcuna appartenenza collettiva. Forse rimandano a una vaga complicità disinvolta e comunque non esprimono nessun tratto rappresentativo, né di competizione, né di prestigio, come è di regola nella moda. Si oppongono dunque sia al sistema di differenziazione della moda, sia all’uniforme, che ne è il rovescio. Sotto un’apparente semplicità, sono un fenomeno originale.
Per arrivare a una tale semplicità e disinvoltura, c’è voluta tutta una storia. C’è stato bisogno che si stabilisse una progressiva indifferenza del corpo all’abito e una progressiva indifferenza dell’abito al sesso e allo stato professionale e sociale. C’è stato bisogno di un processo, specificamente moderno, di liberazione. Non liberazione politica, sessuale, psicologica così come noi la intendiamo, ma nel senso che tutte queste cose si sono liberate le une dalle altre, per divenire infine indifferenti tra loro. Il corpo è liberato dall’abito, l’abito è liberato dal corpo. E allo stesso tempo è liberato dalla moda, dal sesso e dai loro vincoli di differenziazione.

Se l’abito è libero, diventa dunque perfettamente insignificante. Non vi è più nulla da significare, neanche la funzione del lavoro, poiché anche quella è sempre più indifferenziata. Se i jeans sono stati, agli inizi, un abito da lavoro della classe operaia e dell’America del West, si sono velocemente imposti come elemento trasversale, che nasconde la frontiera tra il lavoro e il piacere, e omogeneizza ogni forma di attività. Se il senso comune opponeva ancora risolutamente il lavoro al piacere, l’onnipresenza dei jeans mostrava già, nella pratica, che ci si trovava di fronte alla stessa cosa. Sociologia profonda, non ancora entrata nella testa dei sociologi.
Certamente i jeans hanno cambiato la vita. Ma se hanno potuto registrare un tale folgorante successo, è perché la vita era già cambiata. Se i contadini portano i jeans è perché già non sono più veramente contadini. Se le donne portano i jeans è perché il loro corpo non è più lo stesso, è meno aderente alle costrizioni dell’essere donna, alla messa in scena della femminilità. Preferisce l’indistinzione unisex. E se i jeans, come oggetto erotico e sessuale furono intimamente legati alla liberazione sessuale degli anni Cinquanta-Ottanta, ciò accadde sulla base di una relativa indistinzione dei sessi e degli abiti (da un sesso all’altro, ci si scambiano i jeans e le t-shirts).

Come sempre, il gioco non ha fine. I jeans, dopo aver livellato le caratteristiche sessuali, possono ridiventare un oggetto sensuale, sottolineando fino all’oscenità le forme del corpo. Dopo aver livellato le caratteristiche della moda, possono ridiventare un oggetto di moda, diversificandosi all’infinito secondo le fantasie industriali dei creatori o le fantasie personali di chi li indossa. Delle esuberanze del look, della sua singolarità e del suo continuo rinnegare la forma originale, non resta altro che il jeans, vale a dire, essenzialmente, la prerogativa di nessuno.
Se non esistessero bisognerebbe inventarli. Nel senso che, non appartenendo a nessuna cultura in particolare, sembrano un attributo della specie, una sorta di abito-protesi – un po’ come gli occhiali potrebbero diventare un giorno, in particolare nella sfera della realtà virtuale, una protesi definitiva della specie, là dove lo sguardo, la seduzione e la fragilità degli occhi saranno sparite. Cos’è che scompare dietro i jeans? La seduzione, la fragilità del corpo? Ci si può calare nei propri jeans come in una buccia o in un’armatura – quella del Cavaliere inesistente di Calvino – forma dietro la quale si difende un’identità leggera, fluttuante, al margine di ogni stato sociale, dietro cui occorre sparire, o non offrire altro che il proprio look.

Se facciamo fatica a immaginarci l’aspetto fisico degli extra terrestri, ne facciamo ancora di più a immaginare i loro abiti, come sono vestiti. Ciò è propriamente inimmaginabile. La nostra specie, al contrario, potrà caratterizzarsi per il portare jeans. Tanto bene che questi avrebbero potuto figurare, a fianco del computer e della musica di Bach, nell’armamentario della specie che abbiamo inviato a casaccio nello spazio verso la destinazione di altri mondi. In breve, i jeans fanno parte della nostra cultura antropologica, vale a dire di quella spontaneamente condivisa dai nostri contemporanei, di quella che fa parte dei costumi radicati, della morfologia e dei modi d’essere, della moralità o dell’immoralità profonde di un’epoca. Non della cultura nobile e discorsiva, quella dell’arte e della moda, ma della cultura quotidiana, musicale e popolare, che attraversa le classi, le frontiere, le generazioni e gli stili successivi secondo una logica misteriosa.
Si dice che tutto ciò che scompare nei costumi riappare nella moda. Si dice anche che molte delle cose che passano di moda sono passate nei costumi. I jeans appartengono a quest’ultima categoria. Appesantiti dai miti del western, del rock, del pop, della country music e della generazione dei figli dei fiori, caricati della nostalgia e del “blues” delle generazioni perdute, custodiscono nonostante tutto il fascino discreto di un oggetto insignificante.

Il blu ha senza dubbio contato molto nel successo mondiale dei jeans. Non come colore forte e simbolico, ma come colore utopico. Certamente, i jeans sono passati per tutta la gamma dell’arcobaleno, ma si sa bene che tutte le altre tinte sono delle variazioni intempestive, e il blu, quel blu molto speciale, è in definitiva il solo che fa sognare. Quello del cielo, quello dell’eternità, ma leggero e privo di insistenza. Avventura effimera, identità furtiva. Espressionista o metropolitano, adattabile a tutte le fantasmagorie: la sua tela di Nîmes, di una resistenza tale che si presta a tutti gli usi, ludici o professionali, la sua trama simbolica può sopportare giochi e sviamenti. È invulnerabile nella sua semplicità. Nella mitologia contemporanea solo forse la divisa di Mao potrà resistere al confronto (essa stessa un concetto, sopravvissuto alla Rivoluzione come i jeans sono sopravvissuti all’età eroica del lavoro e della liberazione). Sono abiti forti, e analogamente erotici. In netta antitesi alla tuta sportiva, perfettamente antiestetica e antierotica, che corrisponde alla negazione totale dell’abito e del corpo.
Felice è l’universalità dei jeans per la loro forma, tessitura, materia (il cotone è una sostanza naturale), il loro colore, il tocco, la consistenza della trama (il contatto col jeans è sempre rassicurante), la sua resistenza e la sua durata (è senza dubbio il solo abito che si compra oggi perché duri sempre, o almeno senza il presentimento dell’obsolescenza). Triste al contrario è l’universalità della tuta, infelice e negativa: niente tessitura (di plastica), niente forma (la decadenza dell’informe che raggiunge la monotonia dell’uniforme), niente colore (o piuttosto qualsiasi, ma nella gamma dei fluorescenti, vale a dire una parodia esibizionistica del colore, ben diverso dal blu opaco, quasi pastello, del jeans, che sa così bene invecchiare). In fondo, questa è la grande differenza: di giorno in giorno, di lavaggio in lavaggio, i jeans invecchiano così bene che restano simbolo della giovinezza e della vitalità. Il poliestere non sa né invecchiare né morire, può soltanto finire come un rifiuto. I jeans approfittano del tempo e della sua patina. Queste pellicole di plastica, invece, conoscono solo la degradazione e il conto alla rovescia. I jeans fanno corpo con il corpo, così come in queste tenute fluttuanti, votate a una mobilità artificiale, è il corpo stesso che fluttua negli abiti, sono gli uomini che fluttuano nel loro stesso corpo.
Tra la moda e il costume, è difficile dire quale sia più determinante nell’evoluzione della modernità: la liberazione della moda trascina quella dei costumi o viceversa? (questione insolubile, calvario di ogni analisi sociologica). I jeans sono stati più che una performance tecnica in fatto di vestiti, e più che un effetto di moda: una sorta di avvenimento nella storia dei costumi. Testimoniano certamente, a differenza della moda – che segue una logica di distinzione – la logica generale dell’indistinzione: indistinzione dei segni, dei costumi e dei sessi propria della nostra cultura, indistinzione in qualche modo consensuale. È il segno di una cultura in cui, in materia di corpi, di desiderio, di espressione, di movimento, la consensualità vince sulla sensualità, e anche sulla seduzione. Non è tanto più questione di sedurre, né di mettere in atto strategie di sviamento dell’altro. Non è più questione di sguardo, il quale, nella sua dimensione seduttrice, è stato quasi abolito dalla molteplicità delle immagini e del visuale.
La nostra epoca, come ha detto McLuhan, è tattile (come la televisione, secondo lui), votata a una percezione “cool”, dunque senza esibizione né inibizione eccessiva, senza passione e senza illusione sul proprio desiderio, molto meno frequentata dall’“altra Scena”, o dalla “scena dell’altro”. Una sorta di individualità di minore definizione, come l’immagine tattile dello schermo. Di tutto ciò i jeans sono stati l’emblema, come un nuovo modo di muoversi, di danzare, di viaggiare, di vivere senza maniera. Per ciò che riguarda la moda, ci hanno liberato da ogni affettazione culturale, di moda e stilistica, dal senso dello stato sociale, dalla stessa differenza sessuale imposta, affissa, che comporta, anche nelle forme del desiderio, una grande affettazione. Vanno a profitto di una forma più affettuosa, quasi più incestuosa della convivialità sociale.

I jeans ci hanno liberato dalla tirannia dell’apparenza, dalla tirannia dell’autenticità, da quella del giudizio morale e estetico onnipresente nella società tradizionale. Da ogni pretesa, che riposa sempre sull’idea di ciò che si deve essere. È così che sono divenuti essi stessi un’idea, e che c’è un’arte di portarli come un’idea, l’idea realizzata di una certa libertà, di una certa società polimorfa, disinvolta, consensuale, di riavvicinamento dei sessi, delle generazioni, delle funzioni, della libera circolazione delle passioni e dei segni – tale che Fourier l’avrebbe certamente integrata con entusiasmo nella sua utopia sociale. L’Utopia realizzata.
Un’idea. Si può lacerarla, squarciarla, esagerarla, stemperarla, caricarla di segni e di emblemi polimorfi come un idolo. Dietro una definizione totemica restano i JEANS: un concetto minimale, dunque immortale, l’equivalente di un prêt-à-porter concettuale. Restano i jeans perché non si oppongono a niente. O come dice Andy Warhol: “Il niente è perfetto perché non si oppone a niente”. Ma in ciò risiede un poco il fascino discreto di ogni merce, di essere un’idea e un’utopia realizzata e di aver portato a uno stato di liberazione paradossale.
Vorrei venire ora a considerazioni più analitiche – a partire dalla nozione di design – sul destino del segno e del significato nella nostra cultura. Comincerò con un altro gioco di parole. Dopo il collage, un po’ surrealista, del Dasein e del design, osserverò che vi è questa volta un anagramma quasi perfetto del termine design: Disney. C’è una consonanza meravigliosa. Perché si può riesumare facilmente in Disney e nel concetto di “disneità” il design totale della nostra cultura – la sua sussunzione allo stato virtuale di “merce assoluta”. Per citare Baudelaire e Agamben, merce assoluta che diventa l’oggetto di un feticismo radicale.

Disney, Disneyland, Disneyworld, come ridisegno totale non solo di tutto il nostro immaginario (questa è la fase infantile e folcloristica), ma del mondo reale nel suo insieme – resuscitato in immagini di sintesi e in realtà virtuale dalla Disney World Company. Il nostro mondo reale si trasforma in schermo totale e viene rivisitato come parco d’attrazione. Effetto speciale, effetto mondiale. Prima grande mondializzazione (con i jeans, la Coca-Cola, la pornografia e il postmoderno).

 

Disney World Company

All’inizio degli anni Ottanta, quando la metallurgia della Lorena entrò in una crisi definitiva, i poteri pubblici ebbero l’idea di ovviare a questo crollo creando un parco europeo di divertimenti, parco a tema “intelligente” destinato a ridare respiro alla regione. Fu chiamato “Schtrumpfland”. Il direttore della defunta siderurgia divenne in modo del tutto naturale direttore del parco di divertimenti e i metallurgici disoccupati furono riconvertiti in “Schtrumpfmen” nella cornice di questo nuovo Luna-park. Così, quando anche il parco, per ragioni diverse, dovette chiudere i battenti, gli ex-metallurgici, già divenuti “Schtrumpfmen” si ritrovarono disoccupati. Oscuro destino quello che dopo aver mietuto le vittime reali del lavoro, creò lavoratori fantasma del divertimento, per farne infine i disoccupati dell’uno e dell’altro.
Ma “Schtrumpfland” non era che una miniatura. L’impresa Disney è di tutt’altra portata. Per averne un’idea bisogna sapere che Disney “Illimited”, dopo essersi annessa una delle più grandi catene della televisione americana, era in trattative per ricomprare la 42ma strada di New York, la parte “calda” della 42ma strada, per farne una zona d’attrazione erotica, senza cambiarvi niente o quasi: semplicemente trasformando sul posto un noto luogo della pornografia in succursale di Disneyworld. Come per i metallurgici della Lorena, l’operazione mirava a trasformare i pornografi e le prostitute in figuranti del loro proprio mondo, metarmofosi dell’identico, museificati, disneificati.

E sapete come il generale Schwarzkopf, stratega della guerra del Golfo, ha festeggiato la sua “vittoria”? Con un gigantesco party a Disneyworld. I festeggiamenti nel più alto luogo dell’immaginario furono la degna conclusione di una guerra virtuale.
Ma l’impresa Disney va più lontano dell’immaginazione. Il grande precursore, l’iniziatore della realtà virtuale e dell’immaginario si sta impadronendo oggi di tutto l’universo reale, per integrarlo nel suo universo di sintesi, sotto forma di un immenso “reality-show”, in cui è la realtà stessa che si dà come spettacolo e in cui il reale medesimo diventa un parco d’attrazione. Trasfusione del reale come una trasfusione di sangue – se non fosse che qui c’è una trasfusione di sangue reale nell’universo esangue del virtuale. Dopo la prostituzione dell’immaginario, ecco l’allucinazione del reale in versione ideale e semplificata.

Sotto il segno della ricostruzione dell’identico, a Disneyworld (Orlando), si è aggiunto il Disneyland di Los Angeles. Come una sorta di attrazione storica di secondo livello, di simulacro alla seconda potenza. Lo stesso lavoro ha fatto la cnn con la guerra del Golfo, prototipo dell’avvenimento che non ha luogo, perché ha avuto luogo in tempo reale, nell’istantaneità della cnn. Oggi, Disney potrebbe ben riprendere la guerra del Golfo come attrazione mondiale. A Eurodisney il Natale è stato celebrato dai cori dell’Armata Rossa: tutto è possibile, tutto è riciclabile nell’universo polimorfo del virtuale, tutto ha un prezzo. Non si vede perché Disney non possa riscattare, un domani, il genoma umano, di cui si sta rintracciando la sequenza, per farne un’attrazione genetica. O ibernare tutto il pianeta, esattamente come lui stesso, Walt Disney, si è fatto ibernare nell’azoto liquido, attendendo non so quale resurrezione nel mondo reale.

Sì, ma non c’è più mondo reale, e non vi sarà neanche per Disney (se un giorno si sveglierà, avrà la più grande sorpresa della sua vita). Nell’attesa, dal fondo del suo azoto liquido, continua ad accaparrarsi il mondo – realtà e immaginazione confuse – nell’universo spettrale della realtà virtuale, di cui siamo tutti divenuti i figuranti. La differenza è che noi, inserendo la nostra combinazione digitale o i nostri sensori o semplicemente tamburellando le dita sul nostro tavolo, entriamo nella spettralità vivente, mentre lui, geniale anticipatore, è entrato nella realtà virtuale della morte.
Il Nuovo Ordine Mondiale è disneico. Ma Disney non consiste solo in questa sorta di cannibalismo attrattivo. Anche Benetton, ad esempio, intende recuperare, nelle sue campagne pubblicitarie, tutta l’attualità del dramma umano (aids, Bosnia, miseria, apartheid) attraverso trasfusioni di realtà nella Nuova Figurazione Mediatica, là dove la miseria e la commiserazione entrano in risonanza interattiva. Il virtuale raccoglie il reale da terra e lo risputa senza soluzioni di continuità in forma di prêt-à-porter.
Se questa operazione può riuscire con una tale ampiezza, senza sollevare altro che reprobe morali, suscitando una fascinazione universale, è perché la realtà stessa, il mondo stesso, con tutta la sua frenetica attività di cloni, si è già trasformato in una performance interattiva, in una specie di Luna-park delle ideologie, delle tecniche, delle opere, del sapere, della morte e della stessa distruzione. Tutto si presta a essere clonato e resuscitato in un Museo Infantile dell’Immaginazione, in un Museo Virtuale dell’Informazione. È dunque inutile cercare dei virus informatici; siamo tutti presi nell’incantesimo virale delle reti, l’informazione stessa è divenuta il virus, non trasmissibile ancora per via sessuale ma, ben più efficacemente, per via digitale.

Così, Disney non ha che da abbassarsi per raccogliere la realtà così com’è. “Spettacolare integrato”, direbbe Guy Debord. Ma non siamo più nella società dello spettacolo, divenuta essa stessa un concetto spettacolare. Non è più il contagio dello spettacolo che altera la realtà, è il contagio del virtuale che oscura lo spettacolo. Disneyland era ancora spettacolo, folclore, produceva un effetto di distrazione e di distanza, mentre Disneyworld e la sua estensione tentacolare hanno a che fare con una metastasi generalizzata, con una clonazione del mondo e del nostro universo mentale non nell’immaginario, ma nel virale e nel virtuale.
Diveniamo sempre meno spettatori alienati e passivi, e sempre più i figuranti interattivi, gentili manichini liofilizzati di questo immenso “reality-show”. Non si tratta più della logica spettacolare dell’alienazione, ma di una logica spettrale di disincarnazione, non più di una logica fantastica di diversione, ma di una logica corpuscolare di trasfusione, di transustanziazione di ciascuna delle nostre cellule. Dunque un’impresa di dissuasione radicale del mondo intero, e non più dell’esterno, come nell’universo oggi quasi nostalgico della realtà capitalista. Il figurante della realtà virtuale non è più né attore né spettatore. È fuori scena, è osceno.

Disney è vincente anche su un altro piano. Non contento di nascondere il reale facendone un’immagine virtuale a tre dimensioni, ma senza profondità, egli nasconde il tempo, sincronizzando tutte le epoche, tutte le culture nello stesso viaggio, giustapponendole nello stesso scenario. Egli inaugura così il tempo reale, puntuale, unidimensionale, esso stesso senza profondità: né presente né passato né futuro, ma sincronia immediata di tutti i luoghi, di tutti i tempi, nella stessa virtualità intemporale. Lasso o collasso di tempo: è questa propriamente la quarta dimensione. Quella del virtuale, quella del tempo reale, quella che, lontana dall’aggiungersi alle tre dimensioni dello spazio reale, le nasconde tutte.
Diventa allora verosimile che in un secolo o in un millennio, i peplum antichi saranno visti come dei veri film di epoca romana, come degli autentici documentari dell’antichità; che il museo Paul Getty a Malibù, pastiche di una villa pompeiana, sarà confuso acronisticamente con una villa del III secolo a.C (ivi comprese le opere che sono all’interno: Rembrandt, Fra’ Angelico, tutto ridotto nello stesso schiacciamento del tempo); che la commemorazione della Rivoluzione Francese a Los Angeles nel 1989 sarà confusa retrospettivamente con l’evento reale della rivoluzione. Disney realizza di fatto questa utopia intemporale producendo tutti gli eventi, passati o futuri, su degli schermi simultanei, mischiando inesorabilmente tutte le sequenze – così come esse apparirebbero o appariranno a un’altra civiltà dalla nostra. Ed è sempre più difficile immaginare il reale, immaginare la storia, la profondità del tempo, lo spazio a tre dimensioni – tanto difficile quanto già lo era, a partire dal mondo reale, immaginare l’universo virtuale o la quarta dimensione.

È a partire dalla “disneificazione” virtuale del mondo che può ravvisarsi il problema della designificazione radicale. Dopo l’immenso processo di significazione, di passaggio dalla cosa al segno, è in corso l’immenso processo inverso, quello attuale del passaggio dal segno alla cosa, della disintegrazione del segno in quanto tale, vale a dire dell’associazione (arbitraria) di un significato e di un significante, e lo scambio sempre possibile, sotto il segno dell’equivalenza, del segno e del suo riferimento. Questa bella architettura, la stessa del senso e della rappresentazione, che prima fondava il valore d’uso e il valore di scambio del segno, è oggi in disfacimento poiché converte il segno in qualcosa che non è più riconducibile a un valore e si sbarazza del suo referente (del suo senso, in qualche modo). Per questa stessa ragione diviene scambiabile all’infinito e dà luogo a un’astrazione totale, ben più grande di quella, classica, della merce o del valore di scambio.
Tali sono gli oggetti di cui abbiamo parlato: i jeans, la Coca-Cola, l’universo Disney, le marche pubblicitarie, tutti emblemi di un mondo de-signato, designificato, in cui non sono più in gioco segni, ma immagini numeriche, di sintesi (e sempre di più le immagini video). E dunque non vere immagini. Una tale brutale designificazione riguarda anche l’universo del numero, del digitale, del virtuale. La binarietà dello 0/1 nasconde il differenziale del segno e non lascia spazio che all’universo operazionale. La distanza interna propria al segno, così come la distanza esterna con il reale, sparisce.

La stessa cosa avviene nel caso dell’astrazione pura del denaro nella circolazione istantanea dei capitali e nella speculazione mondiale. Ma non si tratta più di denaro, il cui carattere astratto, legato a quello della merce e del valore di scambio, non era totale poiché si scambiava ancora in valore. Qui i capitali speculativi non si scambiano più con nulla, non più di quanto il virtuale si scambi con una qualsiasi realtà. È il denaro stesso che si clona e si riproduce viralmente, in un’autonomia totale, al di là e al di qua del valore e del suo concetto. Trasmutazione del valore, ma verso il grado zero del valore. Come se si fosse passati da un universo che non conosce ancora il valore, né la funzione/segno, a un universo del valore, del segno, della merce, del senso, poi di nuovo (ma non è più lo stesso) a un universo che non conosce più il valore e che è dunque il luogo di un’equivalenza totale e indifferenziata, di un universo senza mediazione, senza rappresentazione, senza significato e che funziona secondo una reazione a catena sempre più disincarnata.

Questa situazione è strana e originale nel suo rapporto al feticismo. Il feticismo, come indica il nome – feticcio – è legato all’astrazione e all’artificialità. È dunque tanto più radicale quanto l’astrazione è totale. Vi è dunque, al di là del feticismo della merce, del segno, del simulacro e dello spettacolo, che era ancora un feticismo relativo al valore (autonomizzazione del valore di scambio in dipendenza del valore d’uso), un feticismo radicale legato alla designificazione, all’astrazione radicale, che risulta dopo il divenir-segno della cosa, nel divenir-oggetto del segno.
Di tutto ciò vi è chiara traccia nelle forme tradizionali del feticismo sessuale, in cui il feticcio non è più un segno, ma un oggetto puro, insignificante in sé, ma di valore assoluto, e il cui scambio è impossibile: è quest’oggetto e nessun altro. Pertanto non importa quale oggetto, nella sua qualsiasi singolarità, divenga un feticcio. La sua virtualità è totale, perché esso si piazza al di là di ogni metafora o referenza sessuale.
È in qualche sorta l’oggetto-design perfetto del sesso, nella misura in cui si sostituisce ad ogni sesso reale, così come la realtà virtuale si sostituisce al mondo reale, a divenire una forma del nostro feticismo radicale moderno. In tutte le tecnologie del virtuale e nell’immensa apparecchiatura computerizzata, l’uomo moderno, quello dell’informazione, ha trovato il suo autentico oggetto di desiderio (perverso).
Un aspetto essenziale della feticizzazione, contemporanea alla fine del segno, è la perdita o l’abolizione della metafora, la cosa prendendo il posto del segno, e il segno il posto della cosa. Ecco qualche esempio della riduzione (o implosione) semiotica che manda in corto circuito e annulla la funzione-segno e la funzione metaforica. Harpo Marx e lo spadone: la parola d’ordine diviene un oggetto per farsi strada; William Wegman e l’ombra del cane reale (lo stesso) accucciato ai suoi piedi: così uguali che non si sa più quale sia l’ombra dell’altro; la donna di cui un uomo ama lo sguardo al di sopra di tutto e che perciò gli fa dono del suo occhio; l’uomo che si considera un rifiuto e si getta nel secchio dell’immondizia. “Sono un rifiuto”: aveva perduto il senso della metafora.

Tutti questi acting-out feticisti, che prendono la cosa per la parola (e dunque molto vicini a ciò che Freud analizza nel lavoro del sogno in termini di figurabilità) sono in generale di un umorismo feroce e terrorista, di un umorismo vicino al Witz, al motto di spirito.
Bisogna ricollegarvi l’acting-out di Duchamp che inaugura la rivoluzione dell’arte contemporanea: lo scolabottiglie, cosa fra le cose, eretto improvvisamente a ciò che allo stesso tempo mette in discussione lo statuto e il ruolo del segno e dell’universo estetico. Una sorta di atto poetico, che è insieme un atto anti-poetico radicale, di disincantamento dell’arte e di disequilibrio dell’ordine classico del segno e del reale. Del resto il linguaggio poetico prende forma nella concatenazione delle parole intese come cose, parole che non si scambiano con il loro senso e la cui inversione referenziale è impossibile. Si scambiano solo al loro interno, e possiedono singolarità assoluta.

Farò la seguente ipotesi: in tutta l’impresa moderna di trasformazione del reale in informazione pura, di clonazione della realtà da parte della realtà virtuale, vi è un delirio e un feticismo uguale a quello di cui abbiamo dato qualche esempio. Un tentativo di design totale, che intende fare un’ellisse di tutti i processi di significazione. Ma, si dirà, non si tratta del divenire-oggetto, di una riduzione dei segni alle cose, poiché ci si impegna sempre di più nell’immateriale, nel virtuale, nel software e ci si allontana sempre di più dalle cose verso le non-cose.
Nella sostituzione di una realtà virtuale al mondo reale è in atto lo stesso stratagemma che nella sostituzione della cosa al segno: stesso nascondimento del Pathos della Distanza, stesso crollo della logica del segno, stessa implosione. E dietro l’immaterialità apparente delle tecnologie del virtuale (tutte quelle che girano intorno ai numeri e allo schermo) si nasconde un’ingiunzione, un imperativo che McLuhan aveva già molto bene rintracciato nell’immagine televisiva e nei media “cool”: quello di una partecipazione rafforzata, di un investimento interattivo che può arrivare alla vertigine, alla fascinazione operazionale, ovunque constatabile nel cybermondo. Immersione, immanenza, immediatezza, tali sono le caratteristiche del virtuale. Non più sguardi, né scena, né immaginario, né illusione. La distanza abolita è l’utopia realizzata. Niente più esteriorità né spettacolo: è il nostro feticcio che ha assorbito il tempo stesso nell’operazione del tempo reale.

Ciò che chiamo il “delitto perfetto”: l’uccisione del reale e l’olocausto del segno. Del resto è la perfezione stessa a essere criminale. Nella chirurgia estetica delle apparenze, nella futura chirurgia del genoma, nella clonazione degli esseri e delle cose, nella ridefinizione del corpo e dell’essere in termini di informazione pura, è la perfezione o la dimensione immortale, o la funzionalità totale di questi esseri di sintesi ad essere criminale. È la riproducibilità spietata, la perfezione di una scrittura automatica del mondo ad essere criminale (grado Xerox, grado Zero). Nel ridisegno (redesign) integrale, nella promozione artificiale del mondo nelle immagini, in questa profusione e perfusione di immagini consiste oggi il nostro vero oggetto sessuale, il nostro vero oggetto di desiderio perverso. Lo stato mondiale come estrapolazione del grado zero, esso stesso divenuto oggetto di desiderio perverso.
È forse possibile, ai confini di tutte quelle tecnologie che mettono fine alla metafisica del senso, del segno e del soggetto (anziché esserne il compimento definitivo) presentire quella che Heidegger aveva chiamato “la costellazione enigmatica del segreto”? Presentire, dietro l’identificazione totale del mondo con la tecnica, l’illusione tecnologica stessa come ultima metamorfosi di una peripezia dionisiaca, di una trasformazione favolosa? “Disney” è anche l’anagramma di Denis, e dunque di Dyonisos. E questo lascia aperte le porte del sogno.

 

Di Jean Baudrillard

(traduzione dal francese di Francesca Sforza)