Louis Gernet – La nozione mitica del valore in Grecia


Esistono funzioni mentali, come quelle del diritto e dell’economia, di cui quasi dimentichiamo l’esistenza, e ciò perché operano nelle nostre società secondo un meccanismo da cui l’uomo potrebbe sembrare assente. Per riconoscerle come prodotti dello spirito, non dobbiamo inizialmente guardare al loro stato moderno: il diritto e l’economia hanno un passato di cui un’inconscia filosofia illuminista può far misconoscere la ricchezza; e proprio questo passato ha portato alla loro elaborazione. Una fra le ragioni d’essere più sicure della storia consiste nel restituire, dove può – e per quanto può -, le antiche condizioni nelle quali si possono cogliere meglio delle creazioni umane: lavoro in primo luogo di indagine psicologica.

Tra tutte, merita senz’altro un’analisi la nozione di valore. Così come la conosciamo, la quantificazione, nella sua universalità e necessità, ne fa una nozione astratta per eccellenza. In condizioni che definiamo, non importa quanto giustamente, arcaiche o primitive, la situazione è completamente diversa: la stima che si attribuisce a certi oggetti di possesso o di consumo vi è dominata da idee e sentimenti molteplici, il pensiero ha mille sfaccettature e ogni sorta di risonanza. È questo un campo di osservazione che può all’inizio disorientare: ragione di più per affrontarlo. La nozione di valore che qui incontriamo mantiene un carattere globale: essa comprende ciò che è oggetto di rispetto, addirittura di timore reverenziale, fonte di interessi, di attaccamento o di orgoglio, motivo di quella ammirazione che per Cartesio era la prima “passione primitiva”. Questa nozione implica inoltre, o rimanda, a un tono psicologico ad un tempo più elevato e più diffuso di quello che essa ha nel nostro mondo; e abbiamo a che fare con veri e propri complessi, vale a dire con forme nelle quali sono ugualmente chiamate in causa e si intersecano, le “facoltà” classiche: atteggiamenti mentali e fisici sono associati all’idea stessa di valore, o a volte equilibrano una tendenza al possesso e una tendenza a fuggire di fronte alla cosa pericolosa; qualificano ed esaltano il valore alcune precise regole di condotta come quella del dono reciproco; agli elementi affettivi di cui la nozione è pervasa, si accompagnano immagini di cui bisogna considerare la funzione e la natura; e infine vediamo intervenire, certo avviluppate ancora, ma tuttavia con l’efficacia di principi guida, le rappresentazioni generali che appartengono a una società, contribuiscono a definirla e ne costituiscono la cornice indispensabile di qualunque pensiero. Eccoci di fronte, se c’è bisogno di dirlo, a condizioni particolarmente favorevoli allo studio della funzione simbolica.

L’esperienza è senza dubbio ancora più interessante se si prende in esame la fase che è cronologicamente già nell’età “positiva” del valore e che vede tuttavia sopravvivere forme psicologiche che risalgono a una tradizione molto antica. Una civiltà antica nella quale questi problemi si presentano un po’ dappertutto ci pone davanti a un’esperienza di questo genere: è questa la ragione delle note che seguono.

Il problema dell’origine della moneta si pone in modo particolare per la Grecia antica, nella quale per la prima volta nella storia dell’umanità si è fatto ampiamente ricorso all’uso della moneta stricto sensu, della moneta coniata. Un aspetto del problema è questo: ammesso di poter distinguere tra loro il simbolo e il segno nel senso che il simbolo è carico di significati immediati e affettivi mentre la realtà del segno si esaurisce – o pare esaurirsi – nella sua stessa funzione, è chiaro che ciò che chiamiamo origine della moneta è proprio il passaggio dal simbolo al segno; è noto, infatti, che in molte società che non conoscono l’uso della moneta propriamente detta esistono manifestazioni tipiche del valore che assolvono funzioni più o meno analoghe, ma che, al confronto, appaiono essenzialmente concrete. […] In effetti, le cose date in premio – soprattutto coppe, tripodi, bacili, armi ecc. – fanno parte dei “segni premonetari” sui quali ha attirato l’attenzione il lavoro di Laum. Questi oggetti sono spesso numerati: il prezzo del riscatto, i doni di ospitalità comportano cifre che attestano tradizioni, norme. Si può ipotizzare una gerarchia di valori tra i premi, ad esempio, in un’usanza come quella dei giochi omerici nella quale tutti i concorrenti ottengono una ricompensa. E molti di questi oggetti sono in relazione immediata con la comparsa della moneta. Ancora nel quinto secolo a.C., a Creta, le ammende si valutano in tripodi e in caldai: anche se con ciò, si volesse intendere, dato che la cosa è oggetto di discussione, un conio di moneta, il marchio e la designazione sarebbero comunque indicativi. Le falci di ferro date in premio nei giochi di Sparta sono state talora identificate dai moderni come moneta spartana. D’altronde la tipologia agonistica è frequente nelle monete antiche che furono a volte emesse in occasione dei giochi.

Gli oggetti dati in premio appartengono a una categoria piuttosto vasta, ma abbastanza ben definita. Essi, o altri oggetti simili, sono reperibili in molte serie parallele – doni tradizionali, doni di ospitalità, riscatti, offerte agli dèi, parti spettanti al morto e oggetti deposti nelle tombe dei capi. Nel complesso, si tratta di tutte quelle cose che sono oggetto di un commercio nobile. […]

Questo complesso di privilegi, di esclusive e di norme definisce un campo particolare del valore. In una prospettiva storica, nella quale è conveniente fissare l’attenzione sugli oggetti che sono per eccellenza segni premonetari, sceglieremo quelli che presentano una duplice caratteristica: essere dei valori circolanti – mentre la “moneta” in bestiame ha dovuto funzionare soprattutto come moneta di conto; e essere prodotti dell’industria umana – particolarmente dell’industria metallurgica (in qualche caso, dell’industria tessile). Questa delimitazione del valore è intenzionale. Le nozioni relative al bestiame, al suo valore propriamente religioso, alla sua utilizzazione rituale, hanno fornito a Laum il tema del suo saggio sulla “moneta sacra” e le basi di una teoria sulle origini religiose della moneta laica. Non è il caso di discutere qui tale teoria, ma pare che al di fuori della zona cultuale – anzi, in linea di massima, della zona sacrificale – alla quale legittimamente si limita, esista tutta quella serie di oggetti che Laum ha potuto comprendere in quella categoria solo con qualche artificio e che sono proprio quelli di cui si sono ricordate natura e funzioni: in una ricerca sulle origini della moneta, questa serie di oggetti ha un suo posto; in uno studio sui giudizi di valore, deve essere considerata a parte. Si tratta, beninteso, del valore economico o almeno dei suoi antecedenti; ma vogliamo dire valore tout court.

Quando si parla di valore economico, infatti, si tende a eliminare il valore in se stesso, sostituendo l’idea della misura, d’altronde essenziale, all’idea di ciò che viene misurato. Ma qui si tratta non del valore “banale” e astratto, ma di un valore preferenziale incorporato in certi oggetti, che presiste all’altro e nel contempo lo condiziona.

Non è più necessario giustificarsi se si trattano come una realtà omogenea i diversi campi del valore: vi si può riconoscere una “intenzione” comune, in quanto tutti presuppongono un processo di idealizzazione. In particolare, questo processo è testimoniato su diversi piani di psicologia sociale.

Innanzitutto, nell’uso linguistico. C’è una parola che, nel suo impiego più antico, implica la nozione di valore, la parola agalma, che può riferirsi a ogni tipo di oggetti – anche, in taluni casi, a esseri umani in quanto “preziosi”. Ma il termine esprime più spesso un’idea di ricchezza, specialmente di ricchezza nobile (dei cavalli sono agalmata). Ed è inseparabile da un’altra idea suggerita da un’etimologia di cui restano tracce nella parola: il verbo agallein – da cui il termine deriva – significa sia “ornare” sia “onorare” e si applica particolarmente alla categoria di oggetti mobili che ci interessano. Non è privo di interesse, inoltre, il fatto che in età classica il termine abbia acquistato il significato costante di offerta agli dèi, specialmente di quella forma di offerta rappresentata dalla statua di una divinità.

In ambito tecnico ed economico, va sottolineato che, se gli oggetti a cui pensiamo sono prodotti dall’industria, si tratta di un’industria che potremmo definire di lusso. Una testimonianza indiretta del valore eminente e singolare che questi oggetti racchiudono ce la dà l’imitazione in serie che ne viene fatta, surrogato di materiale volgare il cui impiego a titolo di “anatema” è quasi un simbolo di simbolo: l’archeologia ci ha dato modo di conoscerne in quantità. Come contropartita, questa disciplina ci ha fatto conoscere anche la ripresa significativa della produzione e del commercio dell’oreficeria in epoca protostorica. […]

Sul piano religioso, si è ricordato che gli agalmata sono destinati in particolar modo ad essere oggetto di offerta: in Omero, nelle cui opere la parola non ha ancora acquisito il senso proprio di offerta, si applica (cosa illuminante) agli “oggetti preziosi” che sono spontaneamente utilizzati in questa funzione. Abbiamo qui una forma di commercio religioso che riveste per noi un interesse particolare: mentre l’idea di valore vi si trova esaltata – e specializzata – vediamo associata ad essa quella di una generosità sontuosa, anzi aristocratica, visto che Aristotele l’attribuisce ancora a una classe per la quale noblesse oblige.Non dimenticheremo d’altronde che questo genere di ricchezza – in quanto proprietà di dèi – rimane una categoria ben definita in età classica: nel diritto criminale, il sacrilegio (ierosulìa) è diverso dal furto o dallo stornare denaro appartenente alla divinità, è un delitto speciale e irremissibile, quello che consiste nel mettere le mani su una specie più venerabile di “beni sacri” nei quali non sarà difficile riconoscere la serie stessa degli agalmata – tripodi, vasi, gioielli ecc. […]

Il vello d’oro**

Ci siamo attenuti fin qui, volutamente, a storie più o meno recenti o a brani di leggenda che avevano per noi interesse perché mostravano l’immaginazione mitica all’opera proprio nel momento che precede l’avvento di un pensiero che chiamiamo positivo. È chiaro però che bisognerebbe poter risalire a forme più antiche, altrimenti ricche e nelle quali le concezioni sparse che si sono rilevate via via nell’analisi si troverebbero accordate alla nozione generale (ma più profondamente mitica) di ricchezza: l’immagine del vello d’oro potrebbe illustrarla in modo abbastanza tipico. Essa ci è nota con espressioni equivalenti, con contorni abbastanza diversi, attraverso due fondi leggendari senza rapporto tra loro: la storia degli Argonauti e quella dei Pelopidi.

La seconda comporta un dramma, delimitato come tale: e, forse per questo, più trasparente. Lo troviamo evocato in Euripide, uno dei rari poeti antichi che si siano interessati alla leggenda, precisamente in una evocazione lirica dell’Elettra. Diciamo che può essere una bella fortuna trovare una materia mitica trattata nel modo lirico. Il lirismo greco procede per richiami, suggestioni, o “istantanee” di scene o frammenti di scene che possono avere così un loro proprio valore e che, se necessario, sono disposti dal poeta (soprattutto Pindaro) in una successione che non tiene conto della cronologia. L’andatura è diversa, ed è quella della narrazione continua: ce ne offre un esempio di tipo classico Ferecide, uno dei più antichi mitografi, attraverso Apollodoro che da lui deriva. Le due maniere presentano entrambe un loro interesse. Va da sé che la seconda comporta sempre, a qualche livello, una ricostruzione. Ma le aggiunte non sono a totale discrezione del narratore o delle sue fonti letterarie: vi si può riconoscere una tradizione persino nelle connessioni che sembrerebbero inventate. Conviene partire – quando si può – dalla visione drammatica: torniamo dunque all’Elettra.

Un agnello meraviglioso, un agnello d’oro, nasce in casa di Atreo, candidato alla sovranità di Micene. Calato dai monti di Argo, il dio degli armenti lo scorta al suono della zampogna. L’araldo, sulla pietra dell’agorà, convoca il popolo in assemblea perché contempli l’“apparizione”, presagio di un regno felice. In tutta la città si diffonde il fulgore dell’oro e lo splendore del fuoco sugli altari; si ode il suono del flauto, si odono gli inni. All’improvviso, risulta che l’agnello d’oro è stato rapito dal fratello di Atreo, Tieste, che si vanta del suo possesso davanti all’assemblea. Allora Zeus muta il corso luminoso del sole e degli astri.

È chiaro che un poeta ha diritto di procedere per allusioni: ma è significativo che Euripide – così ellittico da obbligarci a ipotizzare certi dati e tanto poco attento alla motivazione narrativa o psicologica – descriva anzittutto degli elementi spettacolari e essenzialmente delle immagini di pompa. Consciamente o no, ci restituisce una trama. La funzione dell’agnello d’oro in questa trama è d’altronde abbastanza chiara; è un talismano che costituisce per chi lo possiede un titolo per la regalità in quanto è una garanzia di prosperità per il popolo; e, come tale, viene mostrato durante una festa – e la stessa incoerenza di quello che si può a fatica chiamare un racconto non fa che sottolineare l’importanza di questo dato. È il primo atto. Il secondo, e più ancora il terzo, sono indicati sommariamente e possiamo porci il problema di sapere se non siano anch’essi il ricordo di una trama narrativa. Si pone in ogni caso il problema di sapere qual è il legame tra i due miracoli successivi.

La narrazione completa che leggiamo in Apollodoro rende esplicito il dato che il coro dell’Elettra presenta in modo sintetico. Atreo ha fatto voto di sacrificare il più bell’animale che fosse nato nei suoi armenti; e qui “appare” l’agnello d’oro. Motivo di cui si ritrova l’analogo nella leggenda di Minosse al quale i fratelli contestano il diritto alla successione reale e che sollecita espressamente, come segno perentorio a suo favore, l’apparizione miracolosa di un animale che egli promette di sacrificare. L’uno e l’altro se sono infedeli al giuramento (e d’altronde il loro diritto non è intaccato): l’agnello d’oro viene nascosto da Atreo e chiuso in un’arca (larnax). Ma è rapito da Tieste ed egli, presentandosi di fronte all’assemblea, induce i partecipanti a decidere che la regalità verrà attribuita a colui che possiede lo splendido animale; ed egli in effetti mostra l’agnello d’oro. Sotto istanza di Atreo, Tieste viene costretto a consentire una revisione del processo: la regalità tornerà a lui se il sole cambierà il suo corso. E il miracolo si compie.

Per quanto il raccordo tra i due episodi sia artificiale – e proprio perché lo è – è palese che il secondo è l’omologo e il corrispondente del primo. Forse non sarebbe troppo avventato vedervi i due momenti di un cerimoniale di investitura: in ogni caso, è indubbio che essi rappresentano due manifestazioni successive di un potere regale. Il potere sugli elementi ben conosciuto in particolare nella mitologia greca, è uno degli attributi essenziali delle “regalità magiche”: nel nostro caso, in una forma e con associazioni che non analizziamo, esso si esercita sul corso del sole e degli altri. Da dove viene quella specie di sintesi che la leggenda attesta tra questo potere e il potere significato, e fondato dal possesso del talismano? Euripide ce lo suggerisce quando con una parola ricorda, a proposito dell’agnello d’oro, il tema tradizionale delle sovranità che danno benefici e ricchezza. Sono due manifestazioni dello stesso ordine.

Ma il significato del talismano si arricchisce – o si sviluppa – nel mito che è alla base della leggenda degli Argonauti.

È più complesso, in effetti, di quello della storia dei Pelopidi; o piuttosto ha svariati momenti e, quindi, molti aspetti diversi. Il vello d’oro è il vello dell’ariete che aveva salvato Frisso dalla minaccia di essere immolato a causa degli intrighi della sua matrigna: questa aveva provocato una carestia che non poteva cessare se non con il sacrificio di un re o di un figlio di re; Frisso, figlio di re, era stato designato come vittima: ma l’ariete d’oro, miracolosamente apparso, lo portò via, nel cielo. La motivazione che del fatto miracoloso dà la leggenda è troppo bizzarramente complicata per non rivelare una connessione necessaria tra il prodigioso animale e le realtà cultuali che la stessa leggenda lascia trasparire: per provocare la sterilità, la matrigna ha persuaso le donne del paese a far cuocere al fuoco il grano delle sementi: secondo una variante suggestiva, lei stessa consegna loro delle sementi abbrustolite. È indubbio che vi è qui il ricordo di riti agresti molto antichi; e il ricordo anche di cerimonie che la tradizione ha perpetuato in talune feste nelle quali il re, come nel nostro caso la regina, figura da distributore di semi. La contropartita della beneficenza reale è la responsabilità del re che può essere sacrificato, o costretto a sacrificare il proprio figlio, se è in pericolo la prosperità generale. In quest’ambiente, istituzionale e mitico, la leggenda stessa situa l’immagine dell’ariete d’oro. In fin dei conti l’ariete che, nella storia, non tarderà molto ad essere sacrificato, rappresenta una vittima di sostituzione:vittima magnificata sotto la specie dell’animale meraviglioso, in rapporto nello stesso tempo con la divinità che lo fa “apparire” e con la persona del re del quale è il vicario.

Quanto al vello d’oro esso appare in un’altra funzione mitica e d’altronde in correlazione con il simbolismo dell’animale meraviglioso. Il fatto che sia concepito come talismano reale, è una specie di postulato della leggenda degli Argonauti, poiché Giasone che rivendica la sovranità si è visto imporre come condizione per ottenerla la ricerca del vello d’oro. Ma questo dato appare anche in forma più concreta. Giunto nella regione estremo-orientale della Colchide – il paese del Sole – Frisso consegna al re Eeta la pelle dell’animale che l’ha salvato e che egli ha sacrificato. E Giasone appunto da Eeta la pretende. Tra le immagini drammatiche che questa rivendicazione ha ispirato, la più netta è quella che ha dato Pindaro. Il vello d’oro è la posta di una prova alla quale viene sottoposto il pretendente: aggiogare a un aratro due tori temibili e lavorare con loro un pezzo di terra. Eeta compie per primo l’impresa. Giasone, che vi riesce a sua volta, si qualifica, in base alle condizioni previste dalla gara, per il possesso dell’oggetto prezioso. È tutto; ma perché questa composizione drammatica basti a sé in Pindaro, bisogna che Pindaro si adatti a un’immaginazione tradizionale associando in una sintesi necessaria i due elementi di intreccio: la prova eroica dell’aratura e lo splendido vello. La tradizione degli Ateniesi ha perpetuato la pratica dell’aratura sacra che era monopolio delle gentes religiose: si aravano e seminavano i campi (come nel caso di Giasone); e durante le cerimonie che accompagnavano la semina figurava la pelle di un caprone sacrificato che veniva chiamata pelle di Zeus; la trasposizione mitica mostra associati la speciale qualificazione per i lavori agricoli e il possesso di un talismano che in genere è la pelle di una vittima.

Le due leggende che abbiamo prese in esame – e messe a confronto – testimoniano un rapporto tra il simbolo di ricchezza e i temi di iniziazione o di investitura regale. Esse ci permettono anche di intravedere nell’immaginazione mitica il funzionamento di questo simbolo. Il simbolo è associato, nella storia dei Pelopidi, alla virtù magica di una regalità che si qualifica per il suo potere sul sole. Esso è associato, nella storia di Giasone, alla prosperità della terra che è garantita dall’esercizio di un monopolio religioso. E, tramite queste storie, è associato a tutto un fondo mitico e rituale nel quale appare l’idea di una efficace concentrazione della ricchezza agraria e pastorale nelle mani del re che ne è responsabile: la persistenza dei riti del Boukoleion ad Atene, della Stalla dei Buoi presso la quale si celebra tutti gli anni il matrimonio di Dioniso e della Regina, le virtù attribuite agli armenti sacri, il grandissimo valore – e le implicazioni di ogni genere – che si possono riconoscere nell’immagine del campo sacro o reale (che è lo stesso in cui si compie la fatica di Eeta) tutto questo testimonia un pensiero che ci limiteremo qui a segnalare perché il problema che ci si pone è questo: se la rappresentazione dell’agnello d’oro o del vello d’oro risponde strettamente a un tema di ricchezza agraria che è anche un tema di responsabilità reale, dobbiamo concludere che in questa rappresentazione non vi sia che l’abbellimento spontaneo e gratuito di un oggetto rituale, parte integrante delle trame?

Il carattere composito dell’immagine stessa è molto indicativo. Che cos’è infatti questo vello e, a maggior ragione, questo animale d’oro? Le incertezze o le contraddizioni della leggenda non c’è neanche bisogno di rilevarle; bisogna sottolineare invece la sintesi di due elementi che significano ricchezza: la ricchezza in greggi e la ricchezza in metalli preziosi – gli stessi elementi che compongono il tema mitico già studiato a suo tempo da Usener e di cui Usener segnalava l’accostamento e la fusione, nella leggenda di Atreo e in quella di Frisso. L’immagine è abbastanza sensibile ai suggerimenti di un pensiero guida per esentarsi dalla delimitazione e dalla coerenza che la sua autonomia richiederebbe: il suo valore resta all’interno di un sistema di rappresentazioni e di intenzioni da cui non è isolabile. Si muoverà in un senso o in un altro secondo l’andamento del pensiero mitico. Atreo chiude l’agnello d’oro in una cassa come farebbe con un oggetto di metallo; anche nella rappresentazione del vello d’oro sembra che l’accento sia posto prevalentemente sul metallo prezioso. Al contrario, viene in primo piano la natura animale quando il talismano di regalità è concepito specialmente come uno degli animali delle greggi reali. Ma in verità i due elementi, nel vello d’oro, sono inseparabili. È curioso osservare in un avatar del mito antico – un moderno racconto dell’Epiro – come, più o meno inconsciamente, la suggestione dell’oro e della sua virtù si insinui in un insieme alla cui organizzazione potrebbe apparire estranea. La figlia di un re è rinchiusa nel sotterraneo di un palazzo: bisogna trovarla per poterla sposare; un giovane, che si è fatto avvolgere in una pelle di montone, venduto al re come montone, risce ad avere accesso alla ragazza. La pelle nella quale è avvolto è un vello d’oro: il richiamo, o la reminiscenza, potrebbe sembrare qualcosa di sovrapposto: ma la figlia del re è rinchiusa al modo di Danae, e Zeus penetra nel nascondiglio di Danae trasformato in pioggia d’oro; e poiché nel racconto si parla di un vello, non può che essere un vello d’oro; e un vello d’oro va naturalmente in un sotterraneo perché lì stanno i tesori. Anche in una immaginazione che non lavora più che per piacere, le associazioni tradizionali continuano a funzionare.

In verità, l’espressione di immagine composita non è che una etichetta. Non sono immagini diverse che confluiscono, sono significati molteplici di una rappresentazione che è, in senso proprio, “Plastica” quanto è necessario. Non si tratta qui d’analizzare tutti questi significati; ma bisogna almeno indicarli sommariamente perché in questo modo possiamo sapere di che cosa “partecipa” l’idea dell’agalma che si trova alla punta estrema del complesso immaginativo del vello d’oro.

Il punto di partenza è molto lontano: uno dei culti più caratterizzati per il loro arcaismo è quello di uno Zeus del Pelio – vicinissimo al paese di Frisso – i cui officianti salivano tutti gli anni in processione sulla cima del monte, avvolti in pelli di arieti da poco immolati; il rito si compiva al sorgere di Sirio, data critica che, non solo in questo caso, è occasione di una magia meteorologica. Sul piano del culto, la pelle dell’animale sacrificato ha molte e varie virtù; ma il vello prodigioso è in relazione soprattutto con una categoria di oggetti mitici il cui senso si lascia riconoscere abbastanza chiaramente. L’arma difensiva costituita dalla pelle dell’animale è un’arma magica quando si tratta della famosa egida: nelle mani di Zeus, scatena il panico come una forza soprannaturale. E sempre nella mani di Zeus, che la agita come un rain-maker d’Arcadia, produce effetti sul cielo e sull’atmosfera. L’egida ha anche, persino in mano ad Atena, virtù fecondatrici. L’egida è una pelle di capra: la capra Amaltea, nutrice di Zeus, è quasi sempre animale benefattore: il suo corno diventa il corno dell’abbondanza (e fornisce una designazione mitica ad altri simboli di ricchezza agraria); ma l’animale è a volte orrido e si è dovuto “nasconderlo”, la sua pelle servì come arma a Zeus quando intraprese la celebre guerra contro i Titani alla fine della quale istituì un nuovo ordine monarchico. Ma la Chimera, il mostruoso essere che Bellerofonte riuscì a sconfiggere, è anch’essa, stando al suo nome, la Capra: pare che, in Licia, il suo paese d’origine, la Chimera sia stata un blasone. Anche l’agnello dei Pelopidi potrebbe essere stato un blasone: un ariete di pietra era su una tomba dell’Argolide nota come “tomba di Tieste”.

Queste brevi note possono almeno dare una collocazione in una certa zona di rappresentazioni: l’idea di efficacia “regale” che abbiamo visto connessa con l’immagine mitica del vello vi appare multipla e ricca di ramificazioni quasi indefinite. Ciononostante tale immagine possiede, in un sottofondo preistorico, una sorta di unità che si intravede talora nella plasticità stessa del simbolo. Tra loro e il Sole – che d’altronde dona al potere dei re una singolare consacrazione – il rapporto è particolarmente stretto nella leggenda di Eeta, re di un Oriente mitico: e appare in un’altra veste, in un modo che è ad un tempo più indiretto e più suggestivo, nella storia di Atreo. Va ancora precisato che il vello non è sempre “d’oro”; a volte è di porpora: nella tradizione divinatoria degli Etruschi, l’apparizione di un animale di questo colore in un armento annuncia un nuovo regno, che coinciderà con un’era di prosperità. Attraverso la variante nel complesso immaginativo, questo dato – che ci riporta a un’eredità di credenze “egee” – concorda alla lettera con l’elemento che si intuiva di primo acchito nella cronaca leggendaria di Micene.

Ma ecco un notevole mutamento. La testimonianza di Pindaro – una delle più sensibili al senso del mitico – evoca “il vello rutilante dalle frange d’oro”. Le “frange d’oro” sono il particolare che Omero riferisce in una sua descrizione dell’egida di Atena : Omero ne conosce il numero e il valore. Abbiamo la descrizione di un ornamento rituale; indossato dalla dea stessa, questo paramento assomma in sé ogni genere di virtù e tra questela bellezza e il valore. La rappresentazione mitica evolve verso un’immagine di agalma pur conservando intatta, se così si può dire, la sostanza.

Questo slittamento dell’immaginazione, condizionato da una certa permanenza del simbolo, è un fatto quasi generale: ne constatiamo l’analogo riguardo ad oggetti reali o nel caso di pratiche effettive. Nella leggenda o nell’epopea, i re brandiscono uno scettro che non è soltanto il segno, ma lo strumento, della loro autorità: nel linguaggio di Omero, lo scettro ha in sé qualcosa della potenza di Zeus, fonte del potere regale. In effetti, v’è un legame necessario tra il brandire lo scettro e il potere di emettere themistes, ordini e giudizi, che appartengono al genere degli oracoli. L’antecedente sicuro è il bastone del profeta, che è tagliato da un albero particolare da cui è infusa la facoltà divinatoria. Ma lo scettro regale è diventato un prodotto di un lavoro artigiano: quello che Zeus trasmette ai Pelopidi, l’ha fabbricato Efesto, il dio fabbro. E, sia chiaro, si tratta di uno scettro d’oro. Ma nell’oggetto di metallo – quindi di pregio – permane una virtù affine a quella che era inizialmente contenuta in un altro materiale. La pratica dell’offerta, d’altronde, indica a volte una continuità funzionale nella quale si può osservare lo stesso passaggio: all’offerta consumabile si sostituisce l’“anatema” che ne è la rappresentazione in metallo prezioso. L’esempio tipico è quello dei covoni d’oro che furono consacrati a Delfi da molte città (una di queste, Metaponto, avrebbe conservato questo simbolo sulle sue monete). Insomma, è l’animale sacrificale quello ricordato nella raffigurazione, specialmente nella raffigurazione in oro: ed è caratteristico il fatto che la leggenda conservi incidentalmente tale sostituzione a proposito dell’agnello d’oro dei Pelopidi.

Tutto quanto abbiamo detto testimonia ciò che, in mancanza di un termine migliore – poiché in effetti vi è continuità – si designerà con la parola transfert: le stesse rappresentazioni – in alcuni casi le stesse disposizioni affettive e gli stessi atteggiamenti – sono imposti o suggeriti da un oggetto che si presume identico e che comporta, ciononostante, elementi fondamentalmente nuovi. Vediamo ora se è possibile operare il passaggio alla nozione vera e propria di valore: la leggenda ne dà testimonianza per un oggetto che ricorre nel commercio religioso e che si vede apparire in un commercio umano a titolo di agalma, con il genere di analogie che abbiamo ritrovato nel tema del vello d’oro; e non è certo il più atteso. Negli inventari di alcuni templi, si trova a volte citata una “vite d’oro”: la trasposizione è la stessa che, per esempio, troviamo per le spighe di metallo prezioso. Il ceppo di vite, come tale, appare in una serie di riti e di miti ed è connesso a un insieme molto ricco che ha come motivo centrale quello dell’albero fruttifero che un dio o un eroe ha piantato o fatto nascere; e tutto questo insieme è in relazione con miti di regalità, con ricordi di trame che si perpetuano attraverso rituali tenaci nel tempo. Questo complesso di rappresentazioni continua a presentarsi nel corrispondente oggetto in oro. Un ceppo d’oro permette il riconoscimento di due eroi, figli dell’argonauta Giasone e nipoti di Toante che ha ricevuto tale oggetto da Dioniso, il dio della vite. L’oggetto, che a un dato momento bisogna “mostrare”, “far comparire”, funziona come talismano ereditario. Ma ecco d’altra parte lo stesso oggetto allo stato di agalma caratterizzato. Uno degli esempi più chiari della forza coartante del dono è quello fornito da un episodio della fine della guerra di Troia: Priamo, per ottenere l’assistenza militare di suo nipote, figlio di sua sorella, invia a costei una vite dalle foglie d’oro e dai grappoli argentei, opera di Efesto che era servita precedentemente come riscatto per la liberazione di Ganimede. Esempio tipico del tema dei “doni femminili”: e la storia si presenta nella stessa forma di quella della collana di Erifile.

L’oggetto lavorato che rappresenta la cosa pregna di virtù magiche e che si vede svolgere una funzione di talismano è lo stesso, in questo caso, dell’oggetto nel quale risiede il valore economico.

C’è quasi una proiezione sul piano umano del concetto ideale dell’altro mondo: il tesoro è una realtà sociale, si potrebbe anzi dire una istituzione sociale; ma è anche una realtà mitica.

Al tema del tesoro giustamente Usener ha riferito la leggenda del vello d’oro. Quando, infatti, vi si riscontra il duplice significato di talismano e di valore, l’oggetto viene custodito da Eeta nel suo palazzo, ed è racchiuso da Atreo in un forziere. Il simbolo della ricchezza è per definizione cosa più o meno nascosta: la sua virtù è inseparabile dal suo essere più o meno segreto. Senza dubbio, la virtù dell’oggetto esige che esso sia “mostrato” in certi momenti a differenza dei palladia, ultra segreti: i palladia non hanno alcuna analogia neppure con gli oggetti protettori che svolgono la loro stessa funzione e la cui rappresentazione leggendaria evoca talora, inversamente, l’immagine di un arredo da tesoro. L’idria di bronzo che conteneva un boccolo dei capelli della Medusa, pegno di sicurezza per una città regale, evoca tutta una serie di associazioni nelle quali l’idea di ricchezza si alterna, o confluisce, con quella di potenza magica.

Gli oggetti preziosi stanno spesso sottoterra: un tesoro di Delfi, miracolosamente scoperto, era stato sepolto. Nella terra si nascondono le cose che hanno una efficacia volta a volta “politica” e religiosa: il coltello che è servito al sacrificio per un trattato, la freccia di Apollo nascosta presso gli Iperborei, che è d’oro, ma è anche segno di riconoscimento per il profeta Abari, il tripode degli Argonauti, la capra Amaltea, il fulmine dato a Zeus al suo avvento al potere come simbolo di garanzia di questo.

La varietà di significati della parola tesoro (thesauros) è di per sé indicativa. Il più antico thesauros è il silo. È rimasto un deposito in cui si raccolgono insieme con le provviste, i gioielli e le vesti preziose. Il termine prende d’altro canto il suo significato particolare nella sfera religiosa ma, fatto notevole, in qualche modo “secolarizzandosi”, perché l’idea del deposito segreto alla fine svanisce; tuttavia, bisogna ricordare un tipo di thesauros di santuario: quello in cui, diventato cassetta per le offerte si presenta come un buco scavato nella pietra, sormontato da un coperchio; la stessa forma, la stessa disposizione, ci è nota per altri usi: serve ad esempio, per custodire arnesi di culto, oggetti sacri legati a una religione arcaica; serve, nella leggenda a conservare e tener celati oggetti destinati all’investitura.

La camera nella quale si conservano gli antichi tesori dei capi si chiama thalamos (ed è interessante che la stessa parola si usi anche per definire l’appartamento sia della moglie che della figlia). Il thalamos viene rappresentato spesso come sotterraneo e la storia di Danae ce ne ha mostrato le relazioni con il mito, le stesse che si ritrovano in modo esplicito a proposito del talamo di Eeta, possessore del vello d’oro: secondo Mimnermo, è un talamo d’oro “ove riposano i raggi del sole”. Ed Euripide parla del talamo nel quale il re, padre putativo di Fetonte, tiene rinchiuso il suo oro e dove il corpo di Fetonte stesso, in realtà figlio del Sole, viene deposto dalla fine della tragedia. La regina, dice Euripide, ne possiede le chiavi; ma, in modo simile, Atena, figlia di Zeus, ha le chiavi del tesoro nel quale si conserva il fulmine di Zeus.

L’idea del tesoro reale, deposito di ricchezza, deposito di agalmata, si articola attorno a quella dei sacra protettori ed efficaci custoditi in un rifugio sicuro, da un Re leggendario, da un Dio sovrano.

Ci scusiamo di avere percorso un cammino che, nel campo delle leggende, può sembrare sempre un po’ vagabondo. Ma non è stato inutile se ci ha permesso di cogliere alcuni parallelismi e persino alcune costanti più o meno significative. Ed era inevitabile, muoversi così, poiché anche le rappresentazioni di valore e d’oggetto prezioso si producono quando si ha a che fare con comportamenti sociali – verità che potrebbe essere scontata ma niente è più significativo del verificarla in una data civiltà, anzi, nel nostro caso, in un sottofondo preistorico di civiltà: pratica del dono in taluni precisi momenti della vita sociale, spesa e, se necessario, distruzione di ricchezza a fini di prestigio, d’investitura o di espiazione, funzionamento di un’autorità la cui virtù obbligatoria è quella di promuovere “magicamente” la prosperità di tutti: senza i principi che regolano le condotte, senza le forme stesse di tali condotte, non sarebbe possibile comprendere l’esaltazione mitica degli oggetti che sono ad un tempo materia e strumento di un rapporto umano e religioso, in un ambiente di idee che dobbiamo cercare di restituire. Ora, è vero che la leggenda fornisce un aiuto in questo senso ma è anche vero che la testimonianza è per definizione molteplice, e per giunta capricciosa: ci siamo dovuti soffermare sulle varietà concrete, sulle diverse implicazioni di ogni storia: anche se avremmo preferito essere più attenti ai meccanismi psicologici, che ai contenuti istituzionali.

Se è la tradizione leggendaria che illustra una nozione antica del valore, ciò ha le sue buone ragioni: la stessa nozione è mitica per quanto riguarda il modo di pensiero. Questo significa innanzitutto che funzioni diverse – o più esattamente quelle che ci si presentano in seguito come funzioni differenziate – vi sono più o meno confuse: la nozione di valore tende ad essere totale, in quanto interessa l’economia, la religione, la politica, il diritto, l’estetica. Non è perciò illegittimo riconoscervi un tipo di pensiero, dato che è stato possibile riconoscere, via via, delle linee di tendenza. Si può tentare di precisare con quali nozioni l’idea dell’agalma si trovi in rapporto, e in quale rapporto.

C’è una parola greca che può essere suggestiva, perché è talvolta impiegata a proposito degli oggetti che abbiamo esaminato e perché il pensiero al quale riconduce è riconoscibile nel fondo di immaginazione che ci interessa: la parola teras. In prima approssimazione diremo che questo vocabolo risponde all’idea di qualcosa di eccezionale, di misterioso – e spesso, in quanto tale, spaventoso: il suo doppione pelor designa in Omero un mostro, come la Gorgone, e dopo Omero, che usa invece terasnel significato più vago di apparizione prodigiosa, troveremo spesso usatoteras in quel senso. D’altronde, la parola è associata – si può dire normalmente nell’uso più antico – all’idea di “segno” e bisogna aggiungere che questo “segno” fa talora pensare a quello che compare su un’arma, scudo e corazza (in realtà, in questi casi si accenna spesso alla rappresentazione di animali mostruosi: notiamo incidentalmente la connessione particolare che esiste tra nozioni come quella di mostro o quella di presagio, da una parte, e immagini di blasone dall’altra). Infine, l’etimologia è, in questo caso, un dato essenziale: proprio attraverso l’etimologia, Osthoff è riuscito a scoprire, dietro il concetto di meraviglioso, il concetto di zauberisch: la radice (qwer), in indoeuropeo, esprime l’idea del “fare”, ma soprattutto in senso magico. Esiste insomma in questo insieme un pensiero, latente o esplicito ma centrale, di efficacia soprannaturale riferita a un segno, l’idea di una forza religiosa che può concentrarsi nella cosa che la parola teras, in modo particolare, designa. Ed è caratteristico ma non sorprendente, che l’agnello d’oro sia designato anche esso come teras e che lo sia anche il morso che Bellerofonte riceve dalla dea e che è qualificato dalla dea stessa come “incantesimo” (philtron).

In conclusione, fondamentale nella trasposizione mitica dell’agalma è proprio l’idea di forza religiosa. Meglio ancora, potremmo dire che l’agalmasi trova normalmente in rapporto con il campo del sacro ed è rappresentato appunto secondo schemi di pensiero religioso. E, dato che l’immagine del tesoro è in qualche modo equivoca, l’idea della cosa nascosta si modella, per gli oggetti preziosi, su quella che viene suggerita dalla pratica del culto. L’andare e venire fra il mondo degli uomini e l’altro mondo che nella leggenda è impresso agli oggetti preziosi, è quella di cui la vita religiosa impone costantemente la nozione e il parallelismo è talvolta sottolineato a meraviglia: così in un culto beota si riteneva che le vittime prima precipitate in fosse ricomparissero a Dodona – interpretazione concreta e ingenuamente spaziale di una pratica ben nota nella religione “ctonia”. D’altronde, l’immagine dell’agalma è spesso collegata alle cose propriamente religiose; essa può essere associata a quella degli strumenti di culto e trae proprio da questa associazione una parte del suo prestigio. La coppa che tanto spesso riappare nella leggenda è normalmente designata col termine phiale – la coppa da libagione. Le stoffe tessute, che figurano tra gli agalmata, hanno un destino cultuale che risale a tempi molto antichi: è possibile che i giochi per i quali esse servono talvolta, ancora in età storica, da ricompense siano i lontani eredi di giostre tribali e in ogni caso  gli scambi di abiti tra i due sessi, che sono rimasti una particolarità di certe feste, sono un arcaismo istruttivo; l’offerta del peplo a dee, che sembra una pratica di organizzazione molto antica, è anche quella in cui la specializzazione cultuale dell’oggetto è tra le più vistose.

Vi è dunque, direi, una specie di qualificazione di ordine religioso che si applica all’oggetto prezioso in generale. Ma l’immaginazione degli agalmata è orientata in un senso preciso: in essa c’è un principio di selezione, e se vogliamo, di libertà. Essa ha un terreno che le è proprio, nel senso che gli oggetti che si evocano nella rappresentazione mitica sono nel contempo oggetti che si usano normalmente e che, in qualche modo, circolano. Vi si coglie un’idea singolare del valore, nella quale predomina, bisogna dirlo, un elemento estetico: in una storia come quella di Enalo, tale elemento balza in primo piano. E questo con l’aiuto di transfert. Il mito ci ha permesso di riconoscerli volta a volta; la pratica sociale consente talora di constatarne il meccanismo e la virtù: al dono del cibo, principio di comunione tra pari o tra il capo e i suoi “compagni”, il dono di agalmata sovrappone un elemento in più (una coppa d’oro corona con magnificenza un “brindisi”) e può anche esserne il sostituto. D’altronde, il rapporto con le cose religiose si inverte: non soltanto un oggetto ha valore perché è di uso religioso ma appunto perché è prezioso può essere oggetto di consacrazione. Di qui l’impiego, nel mito, di certe immagini che sono, all’inizio, simboli di ricchezza e nulla più. La larnax, l’arca nella quale Atreo rinchiude l’agnello d’oro, è il mobile che serve a conservare gli abiti e gli oggetti preziosi; ed è l’oggetto tipico che si usa per “esporre” gli eroi bambini o persino dèi. Non sembra che il tripode abbia avuto, inizialmente, di per sé, significati cultuali. Il tripode è essenzialmente agalma nel senso più antico: dunque, oggetto di dono; in seguito, oggetto di offerta: è probabile che soltanto in un secondo tempo sia stato associato al potere profetico di Apollo e che, simbolo ufficiale del dio, abbia potuto proseguire la sua carriera mitica nell’iconografia divina.

In questa sfera di pensiero, un piccolo ma suggestivo indizio è l’uso dell’aggettivo timeeis che è, per esempio, l’epiteto omerico della collana di Erifile: a proposito di un oggetto che è caratteristico della leggenda, il concetto multiforme che esprime il termine time (onore, prerogativa sociale, virtù religiosa) si fissa sull’idea specializzata e quasi banalizzata del “prezioso”. E qui si intravede una svolta: gli stessi oggetti che, persino in una pseudo-storia, sono carichi di potenziale mitico stanno a rappresentare ciò che chiameremmo i segni esteriori della ricchezza. È una nozione d’altronde molto meno positiva di quel che si crederebbe: per le sue origini e per le sue persistenti affinità, denuncia una condizione di pensiero in cui dagli oggetti citati non è soltanto significata la ricchezza, ma un misterioso potere ad essi inerente; e non è senza interesse che le abitudini di tesaurizzazione indichino, ancora in epoca classica, delle soddisfazioni di tipo tradizionale.

Stiamo cercando di esaminare una nozione mitica. Ma il carattere essenziale del pensiero mitico è che non soltanto è un pensiero che usa immagini, ma che, anzi, le immagini ne sono lo strumento necessario: nella fattispecie è possibile riconoscere all’immaginazione stessa una sua propria e specifica funzione.

La leggenda degli oggetti preziosi ha, se così si può dire, una materia prima: più o meno direttamente, deriva da temi di regalità magica. La virtù inerente all’agalma è innanzitutto un “potere” sociale: le più antiche rappresentazioni dell’autorità appaiono come il fondo da cui l’immaginazione trae alimento. Questa sopravvivenza è un puro e semplice fatto di tradizione e non dobbiamo vederci che una ripresa? Eppure deve avere la sua ragion d’essere poiché possiamo constatare che si prolunga nell’inconscio ben oltre l’età mitica.

L’idea di valore – legata in modo particolare agli oggetti di metallo prezioso – è in rapporto con la nozione più antica di “ricchezza” e, come lei, tende verso un centro ideale. Nella rappresentazione mitica della regalità, nei canovacci che la ispirano e la sostengono, il re, responsabile della vita del gruppo e fonte di prosperità agreste e pastorale, è anche il detentore privilegiato di questa specie di ricchezza che è significata dal vello d’oro. Il possesso del tesoro è testimonianza e condizione di un potere benefico come lo sono il possesso del campo sacro, dell’albero sacro, del gregge sacro con i quali rimane in contatto. Questa rappresentazione di un centro nel quale l’oggetto talismanico – in un certo senso già fatto moneta, in quanto oggetto prezioso – appare ad un tempo come espressione e garanzia del valore, e persiste con le sue peculiarità nella Grecia storica. Un tesoro che appartiene a un dio ed è anche tesoro di una polis, riserva di denaro per la polis, come quello di Atena ad Atene, non comprende soltanto le monete coniate, che sono a disposizione dello Stato che può prenderle a prestito in caso di bisogno: il nucleo della difesa sono beni altrimenti sacri, il kosmos – ornamento – della dea e tutto il materiale prezioso da cui la politica finanziaria di Pericle e, cento anni dopo, di Licurgo, ha tratto ad esempio, l’estrema risorsa. Ora, l’espressione mitica di questo pensiero riesce ad affiorare ancora più tardi. L’inno a Demetra di Callimaco si conclude con una litania nella quale il poeta formula, secondo una simmetria edificante, i simbolismi che attribuisce alla processione liturgica che gli serve da tema: i quattro cavalli che portano il canestro della dea promettono le benedizioni dell’annata e delle sue quattro stagioni; il costume degli officianti sta a significare l’augurio della salute; e infine: “come le canefore portano i cesti pieni d’oro, così l’oro ci sia dato in gran misura”. Nella monarchia tolemaica nella quale un pensiero politico-religioso abbastanza artificiale non è per questo meno radicato in un fondo preistorico, il dilettantismo di un poeta di corte ritrova il senso delle sontuosità regali associate a un culto abbagliante: l’esposizione degli oggetti d’oro è il segno di un’efficacia della quale beneficia la comunità e che si esercita appunto nello stesso senso della virtù delle regalità mitiche.

La memoria sociale che funziona nella leggenda degli agalmata non funziona gratuitamente: in una nozione del valore che sta per diventare autonoma, un’immaginazione tradizionale assicura la continuità con l’idea magico-religiosa di mana.

Nella storia sociale, nel periodo più antico al quale possiamo arrivare direttamente, il simbolismo cessa già quasi del tutto di essere polivalente. È senza dubbio istruttivo osservare che, quando Omero descrive o evoca un certo gioiello, come fa tanto volentieri, il valore sia attaccato ad oggetti la cui appartenenza religiosa o leggendaria è sottolineata dal poeta stesso o facile da immaginarsi da parte del pubblico; ma si potrebbe rilevare anche che quella bardatura che può far pensare all’impresa di Bellerofonte – e che, in effetti, deve a un sottofondo di leggenda la sua virtù di suggestione poetica – è essenzialmente in Omero un esempio di produzione industriale, presentato come tale per il suo valore commerciale.

Quest’orientamento del pensiero presuppone condizioni sociali sulle quali, a dire il vero, siamo ben poco informati ma che, come si intravede, favoriscono una certa diffusione dei “segni esteriori della ricchezza”: in quanto non sono più possesso privilegiato di una classe nella quale si perpetuano l’eredità delle regalità mitiche e la virtù dei loro simboli, il valore economico tende ad imporsi, per se stesso, alla rappresentazione; all’età premonetaria si è potuto già applicare il detto famoso “il denaro fa l’uomo” che ritorna non a caso quasi in sordina nella storia del tripode dei Sette Savi

Così si prepara la rivoluzione che l’avvento della moneta determina sia nella vita sociale sia nel modo di pensare. Alla fine di questa analisi non è inutile ricordare ciò che testimonia, in questa specie di mutazione brusca, una continuità che gli interessati hanno potuto, per primi, misconoscere.

Senza dubbio, è una nozione astratta del valore quella alla quale l’invenzione della moneta permette di funzionare. Alla nuova condizione corrisponde l’uso di uno strumento la cui materia – nel senso filosofico del termine – potrebbe sembrare indifferente: spettava a Platone e ad Aristotele, d’altronde maldisposti nei confronti dell’economia mercantile, di far la teoria della “moneta-segno” e della “moneta-convenzione”. Teoria logica, dal momento che solo la funzione di scambio e di circolazione è ricordata dai filosofi (che dimenticano o misconoscono il fatto che la moneta metallica aveva trovato una delle sue utilizzazioni più antiche in un commercio religioso nel quale serve a pagare le obbligazioni dovute per grazie ricevute, per offerta consuetudinaria o per espiazione). Ed è sicuro che lo strumento – una volta creato – si presta meravigliosamente alla funzione di circolazione che si generalizzò tanto presto, nella stessa Grecia. Ma nell’ambiente storico nel quale il segno ha fatto per la prima volta la sua comparsa, i suoi primi esempi mantengono un certificato di origine che sta nei simbolismi religiosi, nobiliari o agonistici. Fino al momento in cui ne è stata possibile la creazione, un pensiero mitico ha continuato a perpetuarsi. Ciò può far pensare che, nel valore e quindi nel segno stesso che lo rappresenta, esista un nucleo irriducibile a quello che volgarmente si chiama pensiero razionale.

di Louis Gernet

 

* Riprodotto da Antropologia della Grecia antica. Per gentile concessione dell’editore Mondadori di Milano.

** Gernet, per esemplificare la nozione di agalma nella mitologia greca ha, fra le altre cose, riproposto le vicende accadute nei seguenti miti (che non abbiamo potuto riprodurre interamente per motivi di spazio): Il tripode dei Sette Savi (Diogene Laerzio); Agamennone (Eschilo); l’anello di Policrate (Erodoto); l’anello di Gige (Platone); Alessandro e la coppa d’oro (Arriano); Enalo (Plutarco); il vello d’oro (Euripide e Pindaro).