Mario Perniola – La letteratura nonostante tutto, anzi a maggior ragione


Qualcosa di nuovo sta avvenendo nella letteratura. Dico nella letteratura, e non nel romanzo, nella poesia o nella critica letteraria o nella storia della letteratura. Qualcosa di nuovo che non proviene dalla comparsa di una nuova tendenza letteraria, né di una grande opera capace di imprimere una svolta decisiva alla produzione letteraria, né di una metodologia interpretativa rivoluzionaria e tantomeno di una riflessione estetica o programma di poetica. Qualcosa di più modesto e meno spettacolare, ma non per questo meno decisivo, qualcosa che è stato messo in moto dalle ricerche che le scienze umane, e specialmente la sociologia, hanno svolto sul campo letterario, sul suo funzionamento, sulle dinamiche di valorizzazione e di svalorizzazione delle opere, sui dispositivi che regolano l’accrescimento o la diminuzione del capitale simbolico dello scrittore, sui complessi meccanismi che regolano i rapporti tra i vari agenti del “mondo del libro” (autori, editori, sovvenzionatori, distributori, pubblicitari, promotori, librai, giornalisti, professori, organizzatori, operatori culturali…). Tali ricerche sono state viste per lungo tempo come una minaccia all’autonomia della letteratura, alla libertà della creazione letteraria, al disinteresse che contraddistingue l’esperienza estetica: le ricerche delle condizioni socio-economiche che permettono l’esercizio dell’attività letteraria sono state considerate dai cultori della letteratura per lo più come un misconoscimento della dignità della loro esistenza e della qualità della loro produzione. E in effetti non si può negare che molto spesso tali ricerche siano state viziate dal pregiudizio ideologico e dal riduzionismo sociologico.

Ma oggi questa ostilità non ha più ragion d’essere per almeno quattro motivi. In primo luogo l’orientamento metodologico delle ricerche sociologiche e antropologiche sulla cultura è venuto considerevolmente affinandosi e nelle sue manifestazioni più avanzate si rivolge verso lo studio delle singolarità secondo orientamenti non riduzionistici. L’opera di Nathalie Heinich è una manifestazione importante di questo nuovo approccio metodologico. È infatti nell’interesse dei cultori della letteratura conoscere nei dettagli i dispositivi che hanno condizionano la fortuna o la sfortuna di un autore o di un’opera, in quali rapporti tali dispositivi siano con il suo valore letterario e con quali parametri  questo viene misurato.

In secondo luogo, ormai la letteratura non ha più nulla da perdere. Come sostiene William Marx nel suo volume L’adieu à la littérature (Paris, Les Éditions de Minuit, 2005), essa ha toccato il punto più basso di una svalutazione che è iniziata a partire dal Settecento, secolo nel quale essa raggiunse il massimo credito sociale. Secondo Marx, due episodi sono emblematici dell’importanza assunta dalla letteratura nell’età dell’Illuminismo, entrambi connessi con la figura del massimo homme de lettres di questo periodo storico. Il primo è il trionfo popolare che accolse il ritorno di Voltaire a Parigi dall’esilio: questo avvenne il 30 marzo 1778. Secondo Marx, in nessun tempo e in nessun luogo uno scrittore godé di una simile consacrazione popolare spontanea. Questo riconoscimento sociale si ripeté sotto una forma molto più organizzata e istituzionale l’11 luglio 1791, durante la Rivoluzione, per onorare la traslazione delle ceneri di Voltaire al Pantheon. In quell’epoca sono tuttavia già all’opera i fattori disgreganti che porteranno la letteratura allo stato di miseria in cui versa attualmente.

Il più pernicioso di questi è il mito della trasparenza e dell’immediatezza comunicazionale, cioè l’illusione che il testo letterario sia l’espressione immediata e irrimpiazzabile di un momento di vita unico e irripetibile. Tale mito, che è già chiaramente espresso da Rousseau, si fonda sul pregiudizio secondo cui il valore di un’opera dipende esclusivamente dalla sua sincerità. Da Stendhal a Balzac tutta una generazione si mette a scrivere male, considerando la cura della forma letteraria come qualcosa di superfluo. Per quanto ancora nella seconda metà dell’Ottocento Sainte-Beuve in Francia, Matthew Arnold in Inghilterra e  Francesco De Sanctis in Italia esercitino il ruolo di grandi sacerdoti della letteratura in nome della sua essenziale serietà e del suo significato etico, tuttavia il dubbio sulla credibilità della letteratura si è già insinuato potentemente all’interno della pratica letteraria, costringendo, per esempio, Rimbaud al suo completo abbandono. Ugualmente significativo, anche se meno mitico, è il movimento milanese e torinese della Scapigliatura che nello spazio di un ventennio, tra il 1860 e il 1880, porta quasi tutti i suoi esponenti ad un completo disastro umano che si manifesta nell’alcolismo, nel suicidio o in altre forme di autodistruzione.

La metafora del naufragio, sui cui Isabella Vincentini ha scritto un libro memorabile (Varianti di un naufragio, Milano, Mursia, 1994) ricorre in tanti poeti e scrittori tra Ottocento e Novecento, da Mallarmé a Tennyson, da Thomas Hardy a Enzensberger. Del resto è significativo che proprio poco prima della morte di Rimbaud, nel 1891, sia  stata condotta  la prima inchiesta di tipo sociologico sul funzionamento della Repubblica delle lettere: L’Écho de Paris chiese a sessantaquattro scrittori appartenenti alle tendenze più diverse perché scrivono. Segno è che l’attività letteraria era già allora diventata per l’opinione pubblica qualcosa di anomalo che necessitava una giustificazione di carattere personale: come osserva Marx, a partire da questo momento l’opera passa in secondo piano rispetto alla vita e gli scrittori partecipano senza accorgersene al processo di svalutazione della letteratura. Il surrealismo, che condusse inchieste di questo tipo qualche decennio più tardi, sembra a Marx legato alla scoperta della “vasta inutilità dell’impresa letteraria” (p. 23).

Il terzo argomento dell’analisi di Marx è il più originale e interessante. A questa svalutazione della letteratura hanno contribuito i letterati stessi, sicché lo studio di tale fenomeno non può prescindere dall’analisi testuale delle opere e dalla considerazione delle idee che gli autori hanno elaborato sulla loro produzione e su se stessi. L’idea che un essere ha di se stesso influenza la sua evoluzione non meno del mondo esterno con cui si confronta. Su questo punto Marx si contrappone a Bourdieu, cui rimprovera un certo riduzionismo sociologico: Bourdieu riconosce che l’opera d’arte è sovradeterminata, cioè dipende da un numero incalcolabile di fattori, ma non ne trae tutte le conseguenze. La situazione miserabile in cui è caduta la letteratura non è dovuta soltanto alle circostanze esterne, ma anche alle strategie fallimentari con cui essa ha cercato di opporsi al mondo. Tra queste William Marx pone il processo di autonomizzazione della letteratura che è iniziato con Mallarmé e che, proseguito attraverso Valéry, Eliot e Borges, ha trovato in Maurice Blanchot la più compiuta e coerente manifestazione. Con lui la “bolla speculativa” della letteratura ha raggiunto la sua massima performance per scoppiare nell’ultimo ventennio degli anni Novanta e condurci nell’attuale miseria. Marx individua alcune figure e momenti decisivi di questo processo di volontario e programmatico divorzio della letteratura dal mondo.

Per esempio, il personaggio inventato da Valéry, Monsieur Teste, sarebbe già l’anti-eroe di un’anti-letteratura che rinuncia ad avere un qualsiasi rapporto con la storia; non diversamente Lord Chandos, l’autore fittizio di un bellissimo testo di Hofmannsthal, descrive paradossalmente le ragioni dell’abbandono dell’attività letteraria. Infine Borges ne La  biblioteca di Babele (1941) riduce il mondo ad una biblioteca infinita, popolata da una umanità di bibliotecari alla ricerca del libro che giustifichi la loro esistenza. Altri scrittori come Vaché, Rigault, Bazlen sono diventati miti letterari attraverso un cammino più coerente: invece di solennizzare la letteratura attraverso strategie metaletterarie, hanno di fatto rinunciato a scrivere. Tuttavia tanto gli uni quanto gli altri hanno condotto la letteratura in un vicolo cieco: la ricerca della purezza e dell’assolutezza della parola letteraria non restituisce ai letterati il prestigio sociale, ma li conduce al nulla e finisce col confermare la società nell’opinione che la letteratura è inutile. Giustamente Marx osserva che oggi l’addio alla letteratura non suscita che indifferenza.
Ma c’è un quarto aspetto della crisi letteraria ancora più importante ed attuale dei primi tre.

A portare la letteratura alla disfatta non sono stati soltanto il riduzionismo sociologico, il vitalismo personalistico, la bolla speculativa dell’ontologia letteraria che si regge sulla rincorsa tra l’essere e il nulla. Il colpo di grazia è stato recato dal moralismo autodenigrativo che può essere sintetizzato nella troppo famosa frase di Adorno: “scrivere un poema dopo Auschwitz è barbaro”. Qui è l’hic Rodhus, hic salta della condizione attuale della letteratura: questo è il punto in cui il brio polemico di Marx trova il suo punto culminante. Infatti non è affatto vero che la poesia (e più in generale la cultura) sia responsabile delle catastrofi politico-sociali: non fu la poesia (o la filosofia, o la scienza, o la cultura) a rendere possibile Auschwitz, ma la sua ritirata. Attribuire alla poesia questa responsabilità significa farle troppo onore e caricarla di troppa indegnità, perché la poesia (come la filosofia, la scienza e la cultura) avevano già da tempo perduto il controllo della realtà. I nazisti sono gli eredi di quella svalorizzazione della letteratura e della cultura le cui origini rimontano alla seconda metà dell’Ottocento; tale processo appare già evidente a Jabob Burckhardt che fu tra i primi a rilevarlo. Secondo Marx tra i fascisti e i loro avversari esiste un punto d’incontro inatteso: la svalorizzazione della poesia (della cultura): “su questo punto, con tutte le proporzioni del caso,  la critica di Adorno faceva, suo malgrado, obiettivamente il gioco del programma estetico del terzo Reich” (p. 131).

Con William Marx irrompe nelle lettere una nuova generazione di studiosi che non sono più condizionati né dall’alternativa tra impegno sociale e formalismo, né dal moralismo autodenigrante che ha prevalso alla fine degli anni Novanta. La loro divisa potrebbe essere: “Nonostante tutto, anzi a maggior ragione”. La letteratura non può farsi carico di tutti gli orrori del mondo, perché non è stata certo lei a provocarli; anzi essa è vittima dell’oscurantismo populistico e dell’idiozia mediatica che hanno prodotto l’attuale ritorno del bellicismo e del manicheismo panico. La letteratura deve sottrarsi all’alternativa tra l’assoluto e il nulla: essa è qualcosa che merita di essere praticata ed apprezzata secondo criteri che appartengono non già alla stretta consorteria dei letterati, ma alla civiltà nella sua estensione più ampia. La sua pratica non è affatto in opposizione ai bisogni delle moltitudini sfruttate e diseredate, ma costituisce un elemento essenziale della loro emancipazione.

È nel suo interesse approfondire l’indagine sociologica sulle condizioni effettive della sua possibilità e del suo sviluppo, perché tale ricerca scopre i suoi veri nemici attuali in coloro che nelle istituzioni, nell’editoria, nei media traggono vantaggio dalla diffusione dell’ignoranza, del confusionismo e dell’inciviltà. Perciò non devono essere trascurati gli aspetti paratestuali della produzione letteraria: lascia sgomenti, per esempio, il fatto che il libro di William Marx, che è poco più di duecento pagine, abbia avuto bisogno dell’aiuto finanziario dell’ “Institut universitaire de France” per essere accolto da un editore prestigioso come “Les Éditions de Minuit” che opera nel mercato letterario per eccellenza, quello della lingua francese! Questo sgomento costituisce la tonalità di fondo del libro di Marx, il quale rimpiange il tempo non troppo lontano in cui un libro di critica letteraria poteva vendere decine di migliaia di copie.

 

di Mario Perniola