Mario Perniola – Pensare il Between. Sul pensiero di Hugh J. Silverman


Between e metaxú

Una delle idee centrali del pensiero di Hugh J. Silverman è quella di between. Essa  costituisce non solo una delle principali poste in gioco del volume Inscriptions (1987) ma s’impone come una nozione chiave nell’opera Textualities (1994), la quale rappresenta il frutto più maturo della sua riflessione filosofica. Silverman non solo mette a fuoco questo concetto, ma lo applica a tutta una serie di argomenti che vanno dalla teoria della letteratura all’autobiografia filosofica, dalla rappresentazione del corpo alla legittimazione del sapere universitario. Egli conduce così una strategia molto ambiziosa che si articola in tre momenti fondamentali: sottrarre in primo luogo l’idea di between  all’interpretazione riduttiva datane dalla metafisica classica, mostrare la sua appartenenza al pensiero della differenza d’ascendenza heideggeriana e infine provare  la fecondità di tale nozione nell’affrontare filosoficamente le più diverse questioni.

Il termine between è la traduzione della parola greca metaxú, avverbio con valore preposizionale, composto da metá (in mezzo, tra) e sún  (con, assieme, unitamente a): esso denota lo spazio che sta in mezzo e mette in relazione. Si tratta di una parola che contiene in sé due aspetti logicamente antitetici: infatti, come osserva Patrizia Pinotti (1997), da un lato indica uno stato di separazione, dall’altro un movimento d’approssimazione e si presta perciò a sottolineare tanto la distanza esistente tra due termini quanto la loro prossimità. Può indicare una linea di demarcazione, un luogo di transito, o anche un punto d’incontro. Queste accezioni si possono ritrovare nell’opera di Platone, la quale costituisce la prima grande riflessione filosofica su questa nozione (Souihlé 1919).

In Platone il metaxú caratterizza la condizione del demonico, che è qualcosa d’intermedio tra l’immortale e il mortale ed è perciò connesso con l’idea dell’eros, la cui natura nel pensiero classico resta enigmatica: ora è sottolineata la tensione tra gli opposti, ora  la loro conciliazione, ora infine qualcosa di intermedio tra il conflitto e la sua risoluzione (Perniola 2001, pp. 59-77). Ma il metaxú indica anche in altri contesti filosofici il paradosso dell’istante incapsulato fra il non più e il non ancora, e il genere grammaticale neutro (Pinotti 1997, p. 1118).

Certo è che proprio a causa di questa ambiguità, il posto di metaxú viene presto preso da mésos (medio, in mezzo, centrale). Con tale sostituzione, che è essenzialmente connessa con la filosofia di Aristotele, la problematica dell’intermedio viene pensata in funzione della ricerca di una via di mezzo, considerata come la soluzione migliore del conflitto tra due contrari. Dietro una questione linguistica si cela dunque una svolta logica di enorme portata che implica il trionfo di un punto di vista metafisico orientato verso la ricerca, anche nell’etica e nella politica, di soluzioni moderate lontane in pari misura dagli estremi. Nel passaggio dal greco al latino, le parole mediusmedietas e mediator  appartengono interamente all’orizzonte semantico-concettuale del greco mésos e ricadono quindi all’interno della metafisica.

Si può sostenere pertanto che il pensiero occidentale ha completamente rimosso per secoli il carattere enigmatico implicito nel metaxú, sostituendolo con la medietas, vale a dire con la ricerca della via di mezzo? La risposta è negativa, perché con Agostino è introdotta una nuova parola, la mediatio, la quale pur innestandosi sul tronco semantico del medius, lo sovverte completamente. Infatti la riflessione di Agostino sulla funzione mediatrice di Gesù Cristo non può essere contenuta nel quadro della metafisica classica, ma si innesta su un’altra tradizione, quella giudaico-cristiana, la quale ignora l’idea di una mediazione intesa come giusto mezzo tra due estremi. Non esiste in Israele un diritto privato che attribuisce un ruolo al mesítes, al mediatore inteso come negoziatore tra due contendenti posti in rapporto simmetrico tra loro. L’arbitro (in greco, elénchon) è chi ristabilisce la giustizia attraverso la correzione del colpevole. Ciò è del resto perfettamente conforme con la concezione veterotestamentaria di Dio come  completamente altro, radicale differenzarispetto al genere umano. I cosiddetti mediatori tra Dio e il popolo, cioè i sacerdoti e i profeti,  non sono mai figure neutrali. Resta perciò da capire in che senso Cristo possa essere definito il mediatore tra Dio e l’umanità: infatti occorre tenere presente che nel Nuovo Testamento esiste un solo passo (1 Tm 2,5) in cui Cristo viene così definito, e che l’interpretazione di tale passo è a sua volta controversa (Becker 1970).

Invece in Agostino l’idea di Cristo come mediatore è oggetto di un’ampia trattazione nel De Civitate Dei (IX, 15-17; XI, 2): qui Agostino rifiuta l’idea platonica del demone come mediatore tra gli uomini e gli dei, perché pur essendo in mezzo tra le due parti, non può comunicare né con gli uni, né con gli altri. La mediazione del demone avrebbe perciò un carattere statico, meramente topologico. Perché ci sia effettiva mediazione tra due termini che sono incommensurabili l’uno con l’altro, come la condizione divina e quella umana, occorre un movimento immotivato e gratuito che possa venire in aiuto del genere umano condividendo la mortalità del corpo umano. Tale fu appunto la mediazione di Cristo che si è fatto mortale, assumendo le debolezze della carne, ma che non è rimasto tale perché è risuscitato. In tal modo Agostino introduce il tempo come elemento essenziale di una mediazione tra termini asimmetrici. Qui ovviamente non c’è nessuna negoziazione, ma soltanto dono gratuito.

Agostino rappresenta così una svolta d’importanza epocale, perchè è il primo a pensare la possibilità di una mediazione all’interno di un pensiero della differenza, ereditato dal giudaismo. Ma egli non si limita a trovare una soluzione originale al problema della natura di Cristo. Nelle Confessiones egli pone la differenza addirittura all’interno dell’essere umano stesso:  l’idea centrale che sta alla base di questa autobiografia è che l’uomo non è in possesso di se stesso, chiuso in una identità determinata una volta per tutte, ma deve cercare e trovare se stesso (Rombach 1987, p. 96). Noi non conosciamo nemmeno noi stessi: c’è qualcosa all’interno dell’essere umano che rimane sconosciuto e che solo grazie ad una confessione può emergere (Confessiones, X, 1-5).

Con Agostino ha così inizio l’autobiografia filosofica, la quale non è semplicemente il racconto della propria vita, ma la mediazione tra due termini incommensurabili ed entrambi impersonali: da un lato c’è non uno scrivente, ma uno scrittore, dall’altro non un personaggio, ma qualcosa di estraneo e sconosciuto. Lo scrittore entrando nello spazio letterario mette tra parentesi e sospende la sua soggettività; ma anche il se stesso su cui scrive perde la propria identità. Per adoperare i termini usati da Silverman (1994, pp. 101-2), tra autobiographer e l’autobiografed non c’è un rapporto d’intimità, né di trasparenza, ma uno slash, un metaxú, unbetween, che li tiene insieme  attraverso l’emergere della loro distanza dalla vita vissuta. Sotto questo aspetto mi sembra che Silverman radicalizzi la presa di distanza nei confronti della vita naturale ed empirica che caratterizza l’ermeneutica. Per Dilthey il senso della vita non può essere colto mentre si vive; tuttavia l’esperienza può essere rivissuta attraverso il racconto partecipante dello storico e del poeta che le conferisce un senso. Gadamer è fortemente critico nei confronti dell’esaltazione del vivente e dell’immediato, tipico delle filosofie della vita; ma l’interpretazione, perfino quando si presenta sotto l’aspetto di una semplice percezione artistica, coglie sempre qualche significato. In Silverman invece  siamo di due gradi lontani dalla vita empirica. La nozione di textuality svolge appunto la funzione di allontanare il testo dal suo significato; “the text is what is read, but its textuality or textualities is how it is read” (p. 81). Essa è una specie d’interfaccia tra entità che non stanno più in rapporto simmetrico tra di loro.

Il rapporto tra visibile e invisibile, tra inside e outside, tra presenza e assenza, tra testo e contesto, tra unità e molteplicità non può più essere pensato in termini oppositivi e quindi soggetto ad una risoluzione dialettica. Queste nozioni hanno perduto la loro identità con se stesse; sono saltati i loro boundaries, margins, borderlines, frontiers, circumscriptions. Nello stesso tempo tuttavia non possono essere abbandonate ad una completa anarchia epistemologica. La textuality si configura perciò come una extrema ratio che le tiene ancora insieme attraverso una theoretical practice inesauribile e mai definitiva. Si potrebbe dire che la textuality ricupera il senso originario del metaxú, prima del suo irrigidimento metafisico e del suo assorbimento nella medietas, ma nello stesso tempo si deve aggiungere che questo senso originario del metaxú non è mai di fatto esistito. Silverman è estraneo all’esaltazione enfatica dell’origine che caratterizza il pensiero di Heidegger, così come è estraneo alla tensione verso la salvezza finale di Agostino. Il between non ci tira indietro prima della metafisica verso una filosofia che era anche poesia, come nei pensatori presocratici, né ci spinge avanti verso una visione escatologica dell’avvenire del mondo; il betweeen pensa un presente in transito, per il quale la metafora del ponte sembra la più pertinente: “The philosopher’s responsability is to be a bridge, to link ideas, concepts, points of view, practices, and so on, and to show how and that they are different. The philosopher as a bridge is a passage, or link between differences” (p. 238).

 

Between e entre-deux

Se dal greco antico passiamo alle lingue romanze, ciò che merita di essere interrogato è il termine francese entre-deux. Il prefisso entre, che viene dal latino inter, è usato davanti ai nomi per designare l’intervallo che intercorre tra due cose e davanti ai verbi per sottolineare la reciprocità oppure l’inizio di un’azione. Quest’ultimo significato è evidente nella parola francese entreprendre da cui l’inglese entrepreneur. Esso introduce nel campo semantico-concettuale che stiamo esplorando la dimensione dell’azione, la quale mi sembra un aspetto importante del pensiero di Silverman.
Ciò risulta particolarmente evidente nella sua interpretazione di Husserl, la cui filosofia è caratterizzata da un orientamento fortemente contemplativo. La lettura di Silverman (1987) relativizza il carattere contemplativo dell’epoché, della riduzione fenomenologica husserliana: la bracketing procedure non eliminerebbe l’attitudine naturale, ma “rather it leaves the natural world in order to study it more clearly” (p. 16). Sebbene il trascendental self cui si accede attraverso l’epoché, sia differente dal natural ego, perché fenomenologicamente critico, tuttavia – nell’interpretazione di Silverman – essi non sono  separabili in modo assoluto. La fenomenologia non è un idealismo.

Ciò risulterebbe evidente proprio nel rapporto tra il Leib (living body) e il Körper (physical body); per quanto essi siano essenzialmente differenti, tuttavia essi “occupy the same location, here in the literal sense of locus, place and space” (p. 23).  Essi stanno nello stesso mondo, che è insieme life-world world of objective science (p. 25).
Questa interpretazione di Husserl solleva tuttavia un interrogativo, perché il trascendental self, il risultato dell’epoché, non appartiene né al life-word,né alla objective science. L’essenza dell’epoché consiste proprio nel bracketing sia dell’uno che dall’altro: la riduzione fenomenologica avviene proprio nella sua separazione sia dall’empirismo vitalistico, sia dal metodo delle scienze moderne. Si potrebbe dire che essa è un entre-deux tra i due? che il compito della filosofia sia un entre-deux tra il mondo storico e la scienza? tra l’esperienza empirica e il sapere scientifico?
Anche se  avessimo dato una risposta positiva a questa domande, non avremmo ancora risolto nulla, perché la questione si ripropone all’interno di quello spazio intermedio, di quel between che abbiamo individuato come il campo della filosofia. L’epoché è soltanto un’attitudine  teoretica e contemplativa oppure  è anche la premessa – se non l’inizio – di un’azione? L’entre-deux è anche un entreprendre, sia pure di tipo differente dall’azione empirica del mondo naturale oppure resta chiusa in un orizzonte esclusivamente speculativo? Certo è che nella filosofia di Silverman è implicito un energetismo che non appartiene alla fenomenologia tedesca, ma forse all’influenza esercitata su di lui dalla corrente fenomenologica della filosofia francese, specialmente da Merleau-Ponty e Sartre.

Questi due pensatori sono stati oggetto di uno studio molto accurato ed esteso da parte di Silverman (1987), che ha sottolineato l’aspetto pratico della loro filosofia: “For Merleau-Ponty philosophising moves into the embodied arena of practical life” (p. 116). Quanto a Sartre, “the self is action and words are actions” (p. 181). Tuttavia è dubbio che l’entreprendre vada nella stessa direzione di Merleau-Ponty e di Sartre. Per il primo si tratta di rivalutare il mondo sensibile nel quadro dell’indagine fenomenologica: la filosofia è accompagnata da un’ombra, che è l’essere naturale, la corporeità intesa come sentire, esperienza dell’irriflesso, del primordiale, di ciò che precede il concetto. Giustamente Silverman osserva: “The Merleau-Ponty leap into the texture of the world, with its corporeality, and its visibility is hardly a fall. It is an achievement: the success of Western philosophy which negates itself in order to live, to understand and to act” (p. 122). Per Sartre, la letteratura è già azione, perché non è prigioniera della situazione in cui ci troviamo, ma la eccede; è un avvenimento nuovo che non è possibile spiegare in conformità di ciò che è dato. Essa nasce da un atto di libertà e si rivolge alla libertà del lettore, sottraendolo al rigido determinismo del mondo reale. Come dice Silverman a proposito di Sartre: “The poetic act is a gesture” (p. 186).

C’è in Silverman qualcosa di più di una filosofia della sensibilità, qualcosa di più della consapevolezza dell’importanza dell’azione letteraria.  Egli non è soltanto l’autore di  un instancabile lavoro ermeneutico, l’acuto interprete delle tendenze filosofiche più rilevanti della filosofia continentale della seconda metà del Novecento. La sua attività non è soltanto un pensare, ma anche un operare pratico, un organizzare, un promuovere, un collegare, in una parola un entreprendre. Questa attività – che si è espressa nella direzione dell’International Association for Philosophy and Literature (IAPL), nell’invenzione di decine di convegni e seminari, nella costruzione di una rete internazionale che coinvolge centinaia di studiosi e filosofi nel mondo intero, nella direzione di importanti collane di libri, nell’attenzione a ciò che di nuovo emerge nel panorama degli studi filosofici – è una specie di filosofare in atto, un trasformare il  pensiero del between in un’azione del between, la quale a sua volta sollecita una ulteriore approfondimento della nozione di between. C’è insomma un via-vai tra il pensare e l’agire, un dinamismo che richiede a sua volta di essere pensato. Non c’è soltanto un pensiero del between e un’azione del between e il loro reciproco rimando, ma un between tra l’uno e l’altra, entre il pensiero e l’azione, un luogo da cui l’uno e l’altro traggono origine. Ora la parola “origine” non è quella giusta, perché fa pensare a qualcosa di unitario da cui nascerebbero insieme pensiero e azione, facendoci ricadere nella metafisica e nel logocentrismo. La cura con cui Silverman ha studiato Derrida gli  impedisce di cadere in questa trappola: il between non è una distinzione (Unterscheidung) conseguente alla divisione di qualcosa che è unitario, ma una differenza (Differenz), anzi una différance, termine coniato da Derrida per indicare qualcosa che “can have no center, no focus, no point” (p. 298). Il between è per così dire tale fin dall’inizio, anche se di inizio in senso proprio non si può parlare: “Différance is the indecidable which does not choose one road or the other” (Silverman 1994, p. 21).

Come uscire da questa duplicazione vertiginosa del between? da questa specie di mise en abîme del between? Forse è implicita nella stessa parola, la quale sembra contenere in se stessa un raddoppiamento della duplicità: be infatti viene dal latino bis (che vuol dire due volte), quanto al tween viene dalla stessa radice da cui proviene two. In effetti sarebbe più logico dire soltanto tween, come avveniva nel Medioevo. Between risulta così ancor più ambiguo del greco metaxú: come questo infatti implica il connettere (come nella frase: “There is regular train service between Rome and Paris”), ma anche separare (come nella frase: “The wall between Israel and Palestine”); ma ha in se stesso una duplicazione della duplicità che manca al greco metaxú, come al francese entre-deux.
Cosa può tenere insieme l’aspetto teoretico e quello pratico del between? La risposta è già implicita nel punto di partenza, nella epochéfenomenologica, la quale – oltre all’aspetto speculativo – contiene anche una dimensione estetica. Per quanto Husserl si sia occupato solo in modo marginale di estetica, è difficile negare che esista una affinità tra l’epochéfenomenologica e il disinteresse estetico (come quest’ultimo è descritto da Kant nella Kritik der Urteilskraft). In entrambi i casi c’è un bracketing, una neutralizzazione delle esperienze la cui radice sta nel sentire.

Esiste dunque un sentire sospeso, autonomo rispetto alla volontà di sapere e all’interesse pratico, distaccato rispetto alla vita empirica,  che è stato riconosciuto come tipico dell’attitudine estetica. In tal modo l’intera problematica del between potrebbe essere riconsiderata in una nuova luce, che attribuisce al sentire un ruolo primario rispetto al pensare e all’agire: in altre parole, tanto la riduzione fenomenologica quanto l’azione entrepreneurial nascerebbero da una epoché, da un bracketing, da un detachment che appartiene all’orizzonte estetico.
Qual è la posizione di Silverman rispetto a questa svolta estetica, che attribuisce al sentire un ruolo primario rispetto al pensare e all’agire? In Inscriptions (1987), questa risposta è ancora in incubazione: “the philosopher must return to experience in order to develop the language of experience” (p. 134). Tuttavia la frase successiva riafferma ancora i diritti dell’azione, escludendo la possibilità che l’esperienza estetica sia essenzialmente differente rispetto alla vita quotidiana: “But the language is an elaboration of whatever achieves meaning in our daily lives” (ibid.).

Il volume successivo Textualities (1994) sembra invece muoversi maggiormente verso una direzione estetica. Tra gli autori studiati da Silverman compare Maurice Blanchot, il cui oggetto di riflessione par excellence è un’esperienza-limite, irriducibile tanto all’unità quanto alla dualità, tanto alla presenza quanto all’assenza: il suo spazio è appunto  l’entre-deux. L’ingresso in questo spazio intermedio, che per Blanchot è quello della letteratura, implica un processo di desoggettivizzazione e l’ingresso in un sentire impersonale, che presenta non poche affinità con ciò che Silverman considera sotto il nome di textuality.
Nel volume Textualities è contenuto un saggio molto originale sulla fotografia dei filosofi, nel caso specifico Sartre e Heidegger, che mostra l’ampiezza e la flessibilità della nozione di textuality (pp. 151-161). Silverman commenta due libri fotografici che riproducono appunto una serie di fotografie dei due filosofi, e s’interroga sul rapporto esistente tra il loro pensiero e le loro immagini: “Photobiographical textuality ‘interprets’ the philosopher’s body somewhere between thought and action” (p. 155).

La testualità del corpo dei filosofi sarebbe quindi diversa dalla testualità di un corpo qualsiasi: essa darebbe forma alla filosofia stessa. I due libri di fotografie sono in effetti molto diversi l’uno dall’altro, non meno delle rispettive filosofie. Le foto di Sartre, per lo più occasionali, ripercorrono la sua intera vita da quattro anni fino quasi alla morte e lo rappresentano non solo nella sua attività di scrittore, ma anche in quella di viaggiatore instancabile attraverso il mondo intero. Le immagini di Heidegger sono invece opera di un solo fotografo e rappresentano il filosofo molto anziano nelle sue dimore. L’analisi di Silverman, estremamente analitica e acuta, è costantemente focalizzata sul between tra il pensare e l’agire. Tuttavia proprio il fotografare, che immobilizza un singolo istante della vita in un’unica immagine, implica una specie di epoché, di sospensione, di bracketing che non appartiene al fluire vitale dei pensieri e delle azioni. Ora io mi chiedo se la photobiographical textuality non consista proprio in questa epoché, in questo sentire sospeso la cui natura non è conoscitiva e nemmeno pratica, ma estetica. In questo senso essa non riguarda solo il corpo dei filosofi; la differenza sarebbe nel fatto che i filosofi pensano ed operano “at the edge of an abyss” (p. 237) e quindi le loro fotografie ci colpiscono perché l’esperienza fotografica rimanda al loro pensiero e alla loro azione.

La fotografia è dunque autonoma rispetto a ciò che rappresenta: il suo interesse risiederebbe nella possibilità di questo rimando. Perciò il corpo dei filosofi parla, mentre quello di una pornodiva resta muto: purtroppo non sapremo mai se essa ha trovato un between, o per dirla con le parole di Clarice Lispector “un momento grande, fermo, senza nulla dentro” (1980), vale a dire il paradosso di un istante incapsulato tra il non più e il non ancora.

 

Between e Zwischen

Le indagini intorno al metaxú e all’entre-deux sono propedeutiche rispetto al termine tedesco Zwischen, che costituisce una parola chiave del pensiero di Heidegger. Esso ricorre molto frequentemente in testi che appartengono a diversi periodi della sua attività (Feick 1980): l’uso del termine è strettamente connesso con l’idea centrale dell’ontologia heideggeriana: la differenza (Differenz) tra (zwischen) l’essere (Sein) e l’ente (Seiendes) (Silverman 1987, pp. 44-51).

Nell’opera di Silverman trovo due luoghi in cui il confronto con lo Zwischenheideggeriano conduce a esiti particolarmente significativi. Il primo riguarda la questione dell’interpretazione (1994, pp. 31-37). Riferendosi al saggio heideggeriano Die Sprache (Heidegger 1959), Silverman desoggettivizza il processo ermeneutico: questo non intercorre tra il soggetto e il testo. Ciò che è between, ciò che inter-est, vale a dire ciò che interessa, non è il passaggio del testo attraverso la mediazione del soggetto. Questo piano è quello del discorso (discourse), ossia dell’opinione, non quello del linguaggio. Fintanto che si esprimono opinioni e  interpretazioni soggettive, non si accede all’essenza del linguaggio, il quale non è affatto la relazione tra un soggetto (autore o lettore) e un oggetto (il testo). Il discorso ci tiene chiusi nell’alternativa tra verità e bugie: “Ask me no questions, I’ll tell you no lies”, secondo l’arguta frase di Goldsmith citata da Silverman. Invece nel linguaggio non ci sono né verità, né bugie: il linguaggio nella sua essenza non è né espressione, né attività dell’uomo. “Die Sprache spricht” dice lapidariamente Heidegger.

Tuttavia ciò non vuol dire che il linguaggio sia il luogo di un’inerte tautologia. Anzi, proprio al contrario, esso è avvenimento (Ereignen), è avvento di una differenza (Unter-Schied), la quale cade tra (Zwischen) due entità asimmetriche tra loro che Heidegger chiama cosa (Ding) e mondo (Welt). Ciò che importa qui sottolineare è l’attenzione che Heidegger porta alla parola Zwischen, che, a differenza del Between, ha subito un accorciamento, facendo cadere il prefisso in: nel Medioevo si diceva inzwischen. Non a caso Heidegger sottolinea il legame tra lo Zwischentedesco e l’inter latino. Da quest’ultimo infatti proviene l’Unter tedesco, che dà tanta enfasi all’Unter-schied, alla differenza. Il carattere non-soggettivo che Heidegger e Silverman attribuiscono allo Zwischen è già implicito nell’uso impersonale che la lingua latina fa di interest,  il quale è passato dal significato etimologico di “c’è differenza tra” a quello di “importa”, aprendo successivamente tutto il vasto e complesso orizzonte semantico-concettuale dell’interesse (Ornaghi 1984). Ciò che mi preme sottolineare è che la nozione di interesse in questa accezione perde il rapporto col vantaggio personale, col guadagno individuale: il soggetto non sa ciò che inter est, in altre parole non conosce qual è il suo verointeresse, ciò che veramente importa per lui. Le implicazioni filosofiche e morali di questa idea di interesse sono enormi: fintanto che seguiamo le nostre affezioni soggettive, siamo ciechi rispetto a ciò sta in mezzo tra le cose e il mondo.

Il secondo luogo in cui Silverman si confronta con lo Zwischen heideggeriano riguarda l’opera d’arte (1994, pp. 49-57). Il punto di riferimento di tale confronto è il saggio di Heidegger (1961) Der Ursprung des Kunstwerkes. Come è noto, questo saggio risale agli anni Trenta e fu raccolto insieme ad altri testi nel volume Holzwege (1950). Tuttavia nell’edizione separata del saggio, uscita nel 1961, Heidegger aggiunse un Addendum molto importante. È su questo che si concentra in ultima analisi l’attenzione di Silverman. L’interrogativo può essere così formulato: se esiste nell’arte l’esperienza di un between, quali sono i termini tra cui esso si pone? La risposta più ovvia sarebbe: tra l’autore e l’opera, tra l’artista e l’artefatto. Ma questa è una risposta che ci fa ricadere nell’opposizione tra soggetto e oggetto, vale a dire in quella metafisica moderna centrata sul soggetto che Heidegger rifiuta. Perciò Heidegger introduce nell’Addendumdue altri termini, quelli di thesis e di Ge-stell. Con la parola greca thesisHeidegger intende qualcosa di assolutamente diverso dalla posizione immediata dell’oggetto, così come è pensata dalla dialettica di Hegel (a cui segue un’antitesi e una sintesi): thesis vuol dire un lasciare che la cosa ci stia innanzi nell’apparire della sua presenza, senza però irrigidirsi nell’immobilità di una sicurezza.

Quanto alla parola tedesca Ge-stell, non vuol dire apparecchio o apparecchiatura; siamo in un orizzonte che non ha niente che fare con una visione strumentale e funzionalistica dell’operare. Questa parola è stata usata da Heidegger per definire l’essenza della tecnica, la quale consiste in una specie di imposizione o costrizione, più simile ad un ascoltare che ad un obbedire. Qui Heidegger descrive in altri termini lo stesso rapporto che nel saggio Die Sprache aveva definito con i termini di Ding e Welt. Tra thesis e Ge-stell  c’è uno Zwischen: è in questo Zwischen che l’opera d’arte avviene, non nel senso che entra nella storia (Historie), ma in quanto è storia (Geschichte). Perciò Heidegger ritiene di non fornire affatto una visione contemplativa e statica dell’arte, simile a quella dell’estetica accademica, che egli rifiuta. L’essenza dell’arte è enérgheia in un senso più profondo e radicale dell’energia del mondo moderno.

Sotto questo aspetto Silverman resta fedele al pensiero heideggeriano, trasferendolo nella cultura anglofona. In questo passaggio tuttavia c’è uno slittamento verso un diverso modo d’intendere il fare arte e filosofia. In Heidegger l’accento è posto sulla storia (Geschichte) e sul destino (Geschick); in Silverman sulla textuality as practice. Questo slittamento non appartiene alla soggettività di Silverman, ma è inscritto nella lingua. Thesis viene tradotto con focus, e Ge-stell con frame: il between dell’arte sarebbe dunque tra focus e frame. Ma focus frame hanno un orizzonte semantico-concettuale  diverso dalle parole heideggeriane. “‘One might say – scrive Silverman (1994, p. 56) – that the thesis is what gives focus to the truth which arises in the work’s disclosure”. Nel latino focus è implicito un energetismo maggiore che nel greco thesis (che rimanda all’idea di collocare), anche se nell’uso più antico significa il focolare domestico. Quanto a frame, esso è etimologicamente connesso con l’idea di progresso, avanzamento: in Old Englishfremman vuol dire advanceperform.
Resta aperto un interrogativo finale: la  textuality  è un altro modo per dire la Unter-Schied omeglio la Differenz heideggeriana? Si può dire che essa apre lo spazio, il between tra testo e contesto? Ma testo e contestothesis e Ge-stellfocus frame  sono davvero tanto asimmetrici e incommensurabili tra loro, da giustificare l’uso del termine Differenz?

Oppure c’è qualcosa di ancor più radicalmente differente? Per Heidegger la domanda non ha senso, perché questa alterità non sarebbe affatto tale, ma ricadrebbe all’interno della metafisica, di cui sarebbe un’ennesima manifestazione; per esempio, il Wille zur Macht di Nietzsche è ancora una manifestazione della metafisica e non una sua Überwindung.  Per Silverman invece la domanda è legittima, perché il suo pensiero sembra allargare la nozione di textuality fino a comprendervi tutto. Qui compaiono due strategie filosofiche diverse. L’una, quella heideggeriana, esclude quasi tutto dall’Ereignis poetico-filosofico: per adoperare un termine di Vico, è in fondo una filosofia monastica. L’altra, quella di Silverman, è invece una filosofia mondana, che si è confrontata non solo con la filosofia tedesca, ma anche ripetutamente con la filosofia francese, con la quale condivide la grande apertura agli aspetti relazionali e organizzativi della pratica filosofica. La domanda sull’onnicomprensività della textuality è perciò pertinente. Essa potrebbe essere formulata così: rientra nella textuality anche il paratesto (vale a dire l’insieme degli elementi estrinseci sia al testo che al contesto, come il titolo del libro, l’editore, la collana, il blurb, il capitale culturale dell’autore e dell’editore, il rumore intorno al libro…)? Oppure si tratta di fattori non accessibili alla riflessione filosofica che devono essere lasciati all’indagine empirica della sociologia e dell’antropologia?

 

Between e aidagara

Un nuovo cammino alla problematica dello Zwischen è aperto dalla svolta culturalistica in cui questa nozione viene coinvolta ad opera dei filosofi giapponesi, e in particolare da  Watsuji Tetsurō, che studiò in Germania e in Italia tra il 1927 e il 1928. Egli è autore di una grande opera di etica, Ringigaku (1937-49), recentemente tradotta in inglese (Watsuji 1996), nella quale la nozione giapponese di aidagara, equivalente allo Zwischentedesco e al Between inglese, svolge un ruolo di primissimo piano (Jung 2002, p. 9).

Mentre la filosofia occidentale trova una grande difficoltà a desoggettivizzare l’esperienza individuale, perché le nozioni di soggetto e di individuo sono storicamente connesse, la parola giapponese ningen, che viene comunemente tradotta con “essere umano, persona, uomo”, implica già da sola l’esistenza di un betweeness: “The locus of ethical problem lies not in the consciousness of the isolated individual, but precisely in the in-betweenness of person and person” (Watsuji 1996, p. 10). Il termine ningen contiene due aspetti strettamente connessi tra loro: la dimensione individuale non è separabile da quella sociale. Il significato originario dei caratteri cinesi di ningen significano proprio la betweenness tra esseri umani, vale a dire il “pubblico”; solo con la trasposizione in lingua giapponese di questo ideogramma, esso ha acquistato anche il significato di essere umano individuale. Per questa ragione ningen non può essere considerato come sostanza: esso implica una “costantly moving interconnection of acts” (p. 19). Tra i due aspetti del ningen non esisterebbe tuttavia una relazione d’accordo e di armonia, ma di tensione, e forse addirittura di reciproca negazione.

Perciò mi sembra che l’etica di Watsuji non sia né individualistica, né comunitaria: “the term ningenalready implies the space between people that simultaneously separates and relates one person and another” (Sakai 1993, p. 248). La betwenness non deve essere considerata né come una negoziazione tra individui separati ed autonomi, né come una totalità organica in cui l’individualità scompare. L’individuo non è mai una tabula rasa, ma presuppone una collocazione spazio-temporale, un condizionamento sociale, “the mediation of the Other” (p. 249). All’interno dell’individuo ci sarebbe già un punto di vista impersonale ed esterno, che è relazionale; con un termine lacaniano, si direbbe “la mediazione del Simbolico”. D’altra parte la struttura negativa dell’essere umano impedisce l’esistenza di una società che annulla completamente l’individuo; una simile società collasserebbe: “society is not a substance indipendent of indidivual consciousness, but consists of those psychologicalrelationships between one individual consciousness and another” (Watsuji 1996, p. 103).

Non è qui il luogo per entrare in un esame dettagliato del pensiero di Watsuji. Basta sottolineare la centralità che in esso svolge la nozione di aidagara.  Come osserva Roberty Carter “betwenness (aidagara) implies spatial distance separating thing and thing (aida) indicating both we can come to meet in the between and  that we are at the distance from one another” (Carter 1996, p. 338). È stato rimproverato a Watsuji di elaborare un’idea troppo angusta di socialità: l’individualità finirebbe con l’essere pensata solo come contestazione, ribellione, trasgressione, cui si deve rimediare mediante una confessione o una conversione (tenko). La socialità del betweenness non può essere dissolta in relazioni soggettive preordinate, in ruoli prestabiliti, del tipo padre-figlio, maestro-allievo, datore di lavoro-impiegato… (Sakai 1993, p. 264). La socialità deve contenere un elemento di contingenza e di casualità: “Uncertainty is inherent in every aidagara; uncertainty is inherent in every social encounter” (p. 265). Perfino la relazione con me stesso contiene un surplus che è irriducibile alla struttura duale dell’individuo e della società. Quanto all’essenza del politico, questa va cercata proprio nell’incertezza (Ferroni 2003); altrimenti la fiducia non avrebbe senso. Il mondo non è la comunità nazionale, ma una permanent impermanence (Silverman 1994, p. 237).

Se da un lato la svolta culturalistica che i giapponesi imprimono allo Zwischen heideggeriano presenta qualche affinità col modo in cui Silverman estende la nozione di Between anche alla considerazione filosofica di fenomeni che, come l’istituzione universitaria, sono innanzitutto oggetto di studio da parte della sociologia della conoscenza, dall’altro egli è molto lontano dal cripto-nazionalismo di Watsuji non meno che da quello di Heidegger. Nel saggio On University (pp. 195-203) Silverman si interroga sul complesso rapporto esistente tra la filosofia e l’università. Da un lato il filosofo non può considerare se stesso come un pensatore subordinato allo stato, dall’altro in quanto universitario non può porsi completamente al di fuori dell’istituzione universitaria. La filosofia è appunto between the inside and the outside l’istituzione: “the task then for philosophy will be to place itself at the margins of both the inside and the outside, at the place where the inside and the outside inscribe a border, a shash, an edge” (p. 203).

Perché questa situazione della filosofia è definita da Silverman come awkward (p. 201)? A prima vista l’imbarazzo proviene dal fatto che essa attribuisce  alla filosofia un ruolo di tribunale del sapere e della cultura, che la società contemporanea non sembra disposta a riconoscerle. Ma non si tratta soltanto di ciò: la metafora del tribunale può essere sostituita da quella molto più accettabile del ponte (p. 238). Tuttavia il ponte implica che esistano due parti opposte tra loro, un inside e un outside. E se invece l’outside avesse coperto ogni spazio disponibile, rendendo inutile il ponte, assediandolo da ogni lato e distruggendo così la sua funzione d’intermediario? Se l’aidagara, la betweenness, consentisse al massimo la socialità dei filosofi tra loro, ma nulla più? Non di una filosofia monastica bisognerebbe allora parlare, ma di una filosofia conventuale. Certo un simile esito è molto lontano dall’ispirazione universalistica della filosofia di Silverman. Questa sarebbe piuttosto una conseguenza paradossale della globalizzazione: essa mette in relazione i filosofi di tutto il mondo tra loro, ma li sradica dal rapporto con la nazione. La textuality connette le culture filosofiche più diverse, ma abbandona all’insignificanza e all’insensatezza tutto il resto. Oppure tutto può essere testualizzato e reso significativo?

di Mario Perniola

 

Bibliografia

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