Ágalma 9 – Professione: artista Torna al sommario del numero

Massimo Donà – Arte e Accademia. Insegnare l’arte, ovvero l’arte di insegnare


Si può insegnare l’arte?

Da sempre l’arte si presenta come ‘pratica’; essa è téchne che esige una adeguata conoscenza di modelli operativi che, in quanto tali, possono-devono essere tramandati di generazione in generazione.
Un tempo l’artista aveva una propria bottega, frequentata da giovani apprendisti che dal maestro imparavano appunto le tecniche e a loro volta le tramandavano. Una vera e propria tradizione di pratiche e di conoscenze specifiche, di ‘trucchi del mestiere’, di accortezze… che costituivano nel loro insieme il ‘sapere’ dell’artista – che solo in certi casi era anche uomo di cultura. Il Rinascimento italiano (e non solo) è in questo senso davvero esemplare. Si pensi ad artisti come Botticelli, Leonardo, Michelangelo: poeti, scienziati, letterati… in stretto e diretto contatto con le arti liberali, e quindi con la filosofia.

Ma non sempre l’artista s’è spinto tanto in là; artigianato e arte sono stati a lungo confusi. Quella di “bellezza” è stata a lungo un’idea portante del fare poietico; fondato, com’era, su una prospettiva sostanzialmente ‘mimetica’. Anche se realizzare tale imitazione era tutt’altro che alla portata di tutti. Non a caso, sia pur nei molti sensi che tale concetto ha evidentemente di volta in volta implicato, ci si è dovuti spesso impegnare ‘in gruppo’ per ottenere i risultati agognati.
Si pensi alle grandi officine di fine Settecento, come quelle coordinate da Antonio Canova. L’artista è stato fabbro, poietes, ma anche “ideatore”, che si limitava a coordinare il ‘lavoro’ altrui, ossia a supervisionare il flusso dell’esecuzione. D’altro canto, anche nel Novecento nuove forme di botteghe sarebbero state istituite; come la Factory di Andy Warhol. Bottega in senso molto particolare e nuovo, evidentemente.

Non deve stupire comunque che, soprattutto nella modernità, si finisse per fare, di quelle che erano delle semplici botteghe ‘private’, delle vere e proprie Accademie. D’altro canto, il ‘nuovo’ mondo aveva già sviluppato quella che sarebbe diventata appunto l’istituzione universitaria. Come ignorare dunque la possibilità e insieme l’opportunità di una analoga istituzionalizzazione anche dell’educazione artistica?
Se a Firenze il nucleo di quella che sarebbe poi diventata Accademia delle Belle Arti nasceva già nel 1339 come “Compagnia di San Luca o dei pittori” – sviluppatasi nel 1562 nella forma della cosiddetta “Vasariana Accademia delle Arti del Disegno” (una delle prime istituzioni europee che poneva fra i propri compiti quello dell’insegnamento delle arti e delle scienze, segnando così l’inizio del moderno concetto di Accademia) –, è solo nel diciottesimo secolo che tanto a Firenze, quanto a Venezia (nel 1750) e poco dopo a Milano, sarebbero sorte alcune delle prime vere e proprie Accademie di Belle Arti.
A Venezia, ad esempio, l’Accademia divenne culla di alcuni dei più significativi artisti della modernità (all’interno delle sue mura operarono e insegnarono figure come Tiepolo, Piazzetta, Canova, Hayez… sino ai più recenti Martini, Santomaso, Guidi, Vedova…).

La modernità avrebbe dunque istituzionalizzato l’insegnamento dell’arte. Avrebbe cioè fatto dell’arte una disciplina pubblica – le cui tecniche sarebbero dovute diventare acquisibili da parte di chiunque…; eppure, la modernità è quella stessa che avrebbe di lì a poco elaborato e diffuso il mito del ‘genio’. Inteso appunto come quella disposizione individuale e assolutamente inspiegabile, e per ciò stesso non ‘partecipabile’, che allude appunto ad una sorta di dono divino presupposto da qualsivoglia conoscenza specifica. Da cui l’idea dell’artista come depositario di una visassolutamente incodificabile che sfida qualsivoglia possibile traducibilità in forme e modelli universali.
Un’idea che il Romanticismo aveva peraltro ereditato dall’antica visione platonica dell’artista concepito appunto come persona colta da manìa divina – che, in quanto tale, è destinato a mettere in crisi ogni determinazione dell’ordine pubblico e sarà per ciò stesso inevitabilmente refrattaria a qualsivoglia tentativo di normalizzazione.

La modernità, insomma, nasce doppia; minata cioè da una contraddizioneintrinseca – che avrebbe reso quanto mai complessa e forse inscioglibile la questione dell’arte e del suo statuto originario.
L’arte è tecnica; sì, ma non una tecnica qualsiasi. L’arte può essere insegnata, ma l’insegnamento non garantisce in alcun modo del risultato: ossia dell’artisticità in quanto tale.
Insomma, la questione che l’arte, nell’accezione che essa viene ad assumere nella modernità (in relazione a ciò che tutti noi ormai intendiamo per ‘arte’), diventa: cosa si insegna quando si insegna arte? Qual è cioè il compito e la funzione dell’Accademia?
E poi: sono le Accademie del nostro tempo consapevoli dell’aporia che pesa sempre e comunque sulla loro esistenza, e costituisce la radice ineliminabile di ogni loro scelta operativa, strutturale nonché progettuale?

 

Cosa si insegna quando si insegna arte?

In definitiva: cosa vuol dire oggi ‘insegnare arte’? O anche: come porsi oggi rispetto ad un compito minato da quella che appare come una vera e propria, e insieme originaria ed intrinseca, problematicità?
Come si insegna oggi nelle Accademie di Belle Arti? A dire il vero, ci interessa poco in questa sede sviluppare una sorta di fenomenologia dell’insegnamento artistico – magari, considerato in relazione alle specifiche modalità pedagogiche adottate dalle singole Accademie italiane e straniere – che vivono peraltro un momento di interessante anche se tormentata trasformazione (la riforma delle Accademie è cosa di questi anni – di questi anni è cioè la volontà, anche se non sempre unanimemente accettata, di adeguare lo statuto dell’insegnamento dell’arte a quello delle altre discipline universitarie).
In questa sede interessa maggiormente riflettere sulle aporie che la questione in quanto tale mette in gioco; a prescindere dalle quali, d’altronde, ogni considerazione specifica intorno alla situazione attuale, sarebbe assolutamente vana e soprattutto impropria.

Dunque, l’arte è una tecnica, si diceva; eppure, nessun artista (il che significa anche: nessuno studente dell’Accademia di Belle Arti) accetterebbe di veder ricondotta la propria attività all’insieme delle pratiche artigianali che comprendono ad esempio la produzione seriale di oggetti tradizionali, da sempre necessari ad alimentare il fatturato di una certa industria turistica, oppure la produzione di oggetti d’uso quotidiano (in qualche modo funzionali all’esistenza di ognuno di noi), o anche la produzione di strumenti in senso più generale ‘utili’ a rendere agevole la nostra incessante progettualità (e inscriverei all’interno di questo concetto di ‘utilitas’ anche la gradevolezza estetica procurata da tanta decorazione, spesso utile se non altro a rendere più gradevoli e quindi ‘efficaci’ le nostre azioni).

Chi si iscrive all’Accademia di Belle Arti vuole sì acquisire determinate competenze fabbrili, ma, in quanto vocato all’attività artistica, sa (consciamente o inconsciamente, non ha importanza alcuna) di non potersi accontentare di una corretta competenza applicativa; non è questo il suo scopo. Certo, sapere come vadano usati i materiali, come si debba operare per raggiungere determinati effetti, come vadano utilizzati determinati strumenti per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo… tutto questo gli appare necessario; o meglio, può anche apparirgli necessario. Ma mai gli apparirà sufficiente. Egli si è iscritto all’Accademia perché intenzionato ad operare all’interno di un contesto fabbrile essenzialmente ‘libero’ – libero anche da quelle medesime competenze che magari ha accettato con entusiasmo di acquisire.

Ciò che lo ha spinto a quella scelta è ‘altro’… altro da qualsiasi finalità chiaramente e distintamente determinata; si tratta di una scelta non sempre facile, non sempre adeguatamente rispettata dalla societas deimortali; quasi sempre relazionantisi ad essa con uno stato d’animo fondamentalmente ambiguo, e quindi doppio. L’atteggiamento nei confronti di chi si propone alla comunità come artista è infatti ancora essenzialmente schizofrenico: da un lato grande ammirazione e curiosità per un’attività che tutti percepiscono come assolutamente irriconducibile a qualsiasi altra, e quindi avvolta da un alone di magia e di mistero che la rendono in qualche modo irresistibilmente affascinante; e dall’altro l’idea che si tratti di una via d’uscita per persone fragili, perché incapaci di rispettare ed acquisire competenze, e quindi regole spesso complesse, nonché rigorose, e per ciò stesso fortemente vincolanti.
L’artista si propone come vivente sfida alle regole del vivere comune – indipendentemente dal fatto che si atteggi da bohémien o da provocatore, indipendentemente dal fatto che egli sfidi davvero il senso comune e la morale universale –; sono infatti la sua presenza, il suo fare specifico a costituire in quanto tali una vera e propria “sfida”. Non il suo atteggiamento. Ma il suo semplice ‘fare’ libero costituisce dunque una  tale sfida.

Come proporsi quindi di educare un tale individuo? E prima ancora: a cosa lo si vuole educare? All’acquisizione di determinate tecniche operative? Ma allora perché chiamare tale istituzione Accademia di Belle Arti? Quale la differenza tra un corso professionalizzante di buon artigianato e un’Accademia che istruisce alla pratica più specificamente artistica?
Ovvero: si può educare all’eccezionalità costitutiva dell’arte in quanto forma del fare che eccede per definizione qualsivoglia proposito di correttezza o competenza esecutivo-formale? Correttezza e competenzache sono peraltro necessarie! Come potremmo infatti, a prescindere da un solido dominio di queste ultime, valutare davvero la non riconducibilità, da parte dell’eventuale ‘eccedenza’ resasi in qualche modo visibile, alla molteplicità delle determinazioni tecnico-operative di fatto a disposizione, e quindi assimilabili per un semplice esercizio acquisitivo?
Eppure la questione rimane sempre la stessa: come si può educare a qualcosa che è per definizione ‘negazione’ di ogni statuto, o meglio della sua supposta valenza normativa… della sua potenza vincolante?

Si può formare alla conoscenza della storia dell’arte; alla conoscenza delle tecniche artistiche… si può rendere noto uno stato di fatto; ma non si può educare all’eccedenza!
E soprattutto, non si può educare ad una forma di eccedenza che non è per definizione riconducibile ad alcuna misura, ad alcun contenuto specifico, a nessuna assiologia; a nessuna disposizione calcolante – non trattandosi di un ‘plus’ positivamente determinato… o meglio ‘determinabile’ in relazione a quella che varrebbe come semplice  ‘correttezza’ (essa sì invece universalmente acquisibile).
L’eccedenza messa in gioco dal fare artistico ci costringe infatti a fare i conti con un ‘più’, ovvero con uno scarto assolutamente indeterminato. Con un altro che destituisce la logica stessa dell’alterità (quella costituente appunto lo specifico del nostro comune orizzonte esperienziale, fatto sempre di relazioni d’alterità in qualche modo definibili, misurabili… dove l’uno è sempre positivamente determinato in forza del suo rapporto con un altro esso stesso positivamente determinato); con l’altro rispetto ad ogni alterità – con un vero e proprio non-altro, dunque. Dove, la ‘negazione’(1) non indica più l’istituirsi di un’altra positività. Ma si limita a mettere in evidenza l’indeterminatezza del positivo (del determinato) qui specificamente in questione.

Lo sapeva bene Duchamp, che proprio in questa direzione avrebbe teorizzato un concetto come quello di ‘coefficiente artistico’. Ma lo sapeva bene anche Magritte – che sempre a questa altra accezione del ‘negativo’ avrebbe guardato nel corso di tutta la sua instancabile produzione teorico-artistica.
E l’Accademia? È forse l’Accademia del nostro tempo consapevole di tale ‘aporia’? Io credo che saper riconoscere tale aporia sia il primo passo, assolutamente imprescindibile, per la costruzione di qualsivoglia struttura educativa degna di tale nome.

Perché, da un altro punto di vista, ovvero quello della trasmissione delle competenze poietiche, o delle informazioni di tipo storico-fenomenologico, credo che l’Accademia del nostro tempo si stia già proficuamente riformando e visibilmente irrobustendo. Le Accademie italiane – anche se non tutte allo stesso modo (ovvero, non tutte mettendo in gioco un analogo livello qualitativo) – sono infatti ben attrezzate in questo senso; ma… ripeto: la vera questione è un’altra. E si dovrebbe iniziare a riconoscerlo.
La questione in gioco riguarda dunque la specificità di ciò che in esse dovrebbe essere ‘insegnato’, prima di ogni altra cosa. Ovvero: l’essenza dell’artisticità. L’esperienza dell’arte in senso proprio.
Ciò che, come abbiamo già detto, eccede qualsivoglia competenza teorico-pratica… e che dunque riguarda più propriamente l’assoluta irripetibilità di una esperienza la cui natura eccezionale può solo farsi in qualche modo ‘evidente’; e quindi imporsi da sé, sì da essere immediatamente riconosciuta come tale. Quella che dunque, non potendo essere trasmessa in conformità ad un qualche criterio formalizzato o formalizzabile, dovrà essere semplicemente “esibita” – proprio come l’opera che da essa talvolta scaturisce. Esibita e contemplata. Osservata e ad-mirata. Esperita per contatto diretto.
Ma, ciò che vale per l’arte e la sua insegnabilità è lo stesso che potremmo riferire all’insegnamento della filosofia, della matematica, della fisica e della letteratura ?

 

Esibire l’artisticità

Innanzitutto: cosa vuol dire esibire l’artisticità? Come pensare e proporre un insegnamento che sia in grado di mettere in scena l’eccedenzadall’artisticità sempre chiamata in causa?
Categoria essenziale ad una, sia pur approssimativa, chiarificazione di tale compito, riteniamo sia quella di ‘esemplarità’.
Come insegnare dunque l’artisticità? – si diceva. ‘Esibendola’…, potremmo dire. Ovvero, esemplificandola – meglio ancora, facendosi exemplus del suo ‘possest’.

Ché, certo essa mai potrà essere assicurata; mai si potrà esser certi che l’esemplificazione di volta in volta messa in scena partorirà un essere-artistico. Eppure, il riconoscimento dell’auctoritas del “maestro” non può che costringere a tale fides. Alla fiducia che nel suo mettersi in gioco possa prodursi un ‘esempio’ oltremodo illuminante. Una vera e propria esemplificazione dell’eccedenza costitutivamente connessa all’esperienza dell’artisticità.
E in che senso una tale esemplificazione può essere educativa? Può cioè insegnare davvero qualcosa? Stante che – come già rilevato – nulla del suo mistero può essere realisticamente tradotto in formule, criteri applicativi, metodi operativi… e quindi farsi davvero ripetibile. Stante che ad essere esemplificato, dall’auctoritas del maestro, può essere solo quella irripetibile combinazione di regole determinate, ovvero quella eccedenza rispetto all’ambito da esse sensatamente dominato, che, a sua volta, non potrà mai essere in alcun modo tradotta in regole.

Il fatto è che la verità dell’insegnamento ha forse sempre a che fare più con una semplice possibilità che con una progettabile trasmissione di contenuti e modelli operativi. E in particolare, appunto, per quanto riguarda la sfera della creazione artistica. Ciò invero vale per ogni disciplina – che, certo, prevede sempre una serie di contenuti tranquillamente trasmissibili in termini di acquisizione e comprensione determinata, ma sempre lascia aperta una ‘possibilità’ non riconducibile a quella spesso complessa nomotetica. In ogni ambito disciplinare, infatti, può accadere ciò senza di cui la pratica artistica non potrebbe essere ciò che è. Può accadere cioè quella disposizione creativa che costituisce appunto il presupposto dell’eccezionalità. In ogni pratica si può giungere all’eccellenza; ovvero si può frequentare quel ‘plus’ incommensurabile che fa di quella che altrimenti si risolverebbe in mera correttezza, una vera e propria espressione di eccezionalità. Di qualcosa che le semplici regole acquisite non potrebbero in alcun modo giustificare e tanto meno garantire.
Ma ciò che nelle altre discipline e pratiche operative rimane qualcosa che può sì accadere, ma non è immediatamente richiesto affinché la pratica in questione sia quel che essa è, nel contesto della pratica che qui stiamo prendendo in considerazione, costituisce appunto ciò senza di cui nessun fare potrebbe essere  sensatamente riconoscibile come “artistico”.

Perciò il rischio connesso all’esposizione esemplificante è in rapporto alla pratica artistica davvero ineludibile. E la potenza pedagogica di quest’ultima dipende sempre e solamente dalla possibilità di sciogliere un tale nodo. O meglio, dalla capacità di non nascondersi la vera natura della posta in gioco. O, che è lo stesso, dalla possibilità di fare dell’educazione estetica qualcosa di costitutivamente esposto alla capacità di produrre veri e propri exempla di ‘artisticità’ in atto.
Perciò il semplice ‘fare’ dell’artista, o meglio la sua nuda esposizione, costituiscono il cuore di ogni autentica pratica educativa nell’orizzonte dell’artistico.
E quindi ciò cui ogni Accademia dovrebbe guardare come al più proprio di ogni sua sempre possibile e autentica ‘ri-forma’.

Perciò il maestro deve imporsi di “fare”… davanti ai propri allievi. Di creare, di produrre oggettualità artistiche, di operare artisticamente insieme ai propri studenti. Dovrebbe fare ‘insieme’ a loro… dovrebbe insegnare mettendosi all’opera… operando con i giovani, costruendo e disfando insieme a coloro che, solo attraverso tale exemplum, potranno ‘sperare’ di sentirsi a loro volta attraversati dalla potenza dell’eccedenzaestetica… o per lo meno di fare in qualche modo esperienza del mistero dell’arte. Sentendosi per ciò stesso motivati a proseguire da soli in tale esperienza, ovvero a cercare di farla rivivere in ogni specifica declinazione del proprio fare creativo.
Questo, il cuore di ogni autentica esperienza educativa nel contesto degli studi artistici; ovvero, ciò che diventa centrale all’interno di un percorso che mai potrà dirsi contento delle proprie acquisizioni metodologico-operative. E che in queste ultime ritrova sì un necessario presupposto del proprio effettuale dispiegarsi, ma mai il proprio fine costitutivo. Dovendo quelle acquisizioni essere propriamente dimenticate a memoria da ogni reale gesto creativo. Come se esse fossero state acquisite solo per essere ‘negate’ dall’eccedenza cui la loro corretta applicazione può aver, sia pur inspiegabilmente, condotto. Anche se in forza d’altro, per l’appunto; di qualcosa che è altro rispetto ad ogni alterità. E che dunque non è neppure un qualcosa. Qualcosa di cui il maestro possa ‘pubblicamente’ e oggettivamente decifrare l’enigma; e quindi tradurlo in regole oggettivamente trasmissibili.

Ma ciò che va ancora una volta tenuto ben presente è il fatto che tale specificità dell’insegnamento artistico non consente davvero alcuna approssimazione, cioè nessuna genericità pedagogica. Nessun abbandono ai capricci del genio sregolato; ma fermo e rigoroso esercizio intorno ad un ‘impossibile’ – costituito appunto dalla trasmissibilità di una eccedenza di per se stessa assolutamente intrasmissibile – che sempre e solamente dalla fatica sul trasmissibile e dalla sua autorevole esemplificazione può miracolosamente scaturire.

Forse, più di ogni altro, era stato proprio Gentile, dunque, ad aver compreso questo paradosso: e a individuare per ciò stesso nel rapporto simpatetico tra maestro e allievo il cuore di una esperienza che, solo attraverso il rapporto di ‘esemplarità’, avrebbe potuto farsi condizione di vera e propria rideterminazione dei due (tanto dell’allievo quanto del maestro) – sì da farli diventare entrambi voci di una medesima verità… di un medesimo ‘atto’. Quello che solo per essi, ovvero solo per il loro rapportarsi fiducioso (nessun vero insegnamento potendo prescindere dalla fiducia reciproca tra i due protagonisti del rapporto educativo), potrà  manifestare l’Unità superiore che nessuna determinazione oggettiva e particolare (né metodologica, né contenutistica, né tecnica) potrebbe mai esaurire in se stessa. Facendo così dell’allievo un possibile nuovo creatore e del maestro il misterioso tramite di tale intraducibile ‘eccedenza’… – la stessa che né l’uno né l’altro dei due attori chiamati in causa possono comunque pretendere di oggettivare e tradurre in un codice universalmente intersoggettivizzabile.
Certo, Gentile parlava dell’educazione in senso lato; ma la sua prospettiva corrisponde forse più alla specificità dell’unicum artistico che alla molteplicità delle altre discipline – che di tale ‘indeterminabile unità’ possono, di sicuro, ma mai ‘devono’… risolutamente ‘devono’ (come nel caso dell’arte), farsi perfette messaggere.

di Massimo Donà

 

Note

1 A questo proposito rinviamo alla nostra più recente pubblicazione intitolata appunto Sulla negazione (Milano, Bompiani, 2004), tutta dedicata ad un riflessione teoretico-estetica sugli equivoci epocalmente connessi all’idea di “negazione”.