Michel Bernard – Della corporeità come “anticorpo” o del sovvertimento estetico della categoria tradizionale di “corpo”


Quando nel 1971 le Éditions universitaires mi proposero di scrivere un libro sul “corpo”, questa parola risuonò bruscamente in tutta la sua estraneità e investì totalmente la mia attenzione al punto da occultare la lunga fila di sensazioni, immagini e idee che abitualmente la accompagnano e costituiscono il suo significato comune. In altri termini, invece di dirigersi direttamente e spontaneamente su ciò che denotava e connotava, la mia coscienza si fermò sul fatto stesso della sua designazione, sul suo statuto di enunciato o di prodotto di un atto di enunciazione.

Mi chiedevo: perché una tale designazione? A quale desiderio e, ancora più radicalmente, a quale intenzionalità risponde? Quali sono le sue implicazioni? Scegliere di utilizzare, pronunciare e scrivere questa parola non è già postulare l’esistenza di una configurazione empirica, una e permanente, convalidarla a priori come oggetto possibile di scienza, e in questo modo operare una petizione di principio, chiudendosi in un perfetto circolo vizioso?

Non solo la parola non è innocente da un punto di vista assiologico o ideologico, ma veicola e mette in opera, attraverso la disgiunzione [débrayage] enunciativa2 che implica, il simulacro dell’esperienza vissuta che pretende designare e accreditare come realtà oggettiva, come essere in sé e per sé. In altri termini, la parola “corpo” si presenta come autofondativa del suo referente: essa legittima a priori la credenza che anima segretamente il cammino o l’approccio attraverso il quale essa apprende questo referente e che, beninteso, è l’emanazione di una specifica cultura e della sua storia.

È talmente vero che questa parola, o il suo equivalente esatto, non esiste in tutte le lingue: che in certe lingue orientali, il cinese per esempio, non c’è alcun termine che denota l’esistenza del corpo come sostanza autonoma reperibile, ma soltanto dei lessemi che designano stati o situazioni. Questi sono caratterizzati da posture, attitudini, gesti, movimenti e mimiche: corpo eretto, seduto, inclinato, che cammina, che corre, sorprendente, avvincente, ridente, urlante, etc., in breve, molto lontano dall’essere l’oggetto evidente di una esperienza universale e necessaria. Il corpo è innanzitutto un enunciato e un modo singolare dell’enunciazione i quali implicano una organizzazione e una posta in gioco tali da tracciare, in filigrana, una strategia segreta di gestione dell’esperienza vissuta di noi stessi, degli altri e del mondo. Plasmando il simulacro di un referente identico, riconoscibile e intelligibile, questa forma di designazione svela il lavoro specifico di un particolare modo di percezione, di espressione, di azione e di concettualizzazione in cui viene allo scoperto l’originalità di una prassi culturale3.

Il vocabolo “il corpo” è, in effetti, un segno linguistico che, a differenza degli altri, impegna a priori e radicalmente il modo esistenziale del suo enunciatore: sceglierlo come enunciato è acconsentire, implicitamente, a una maniera di percepire, di esprimere, di agire, di pensare, e, beninteso, di parlare che in qualche modo traccia e caratterizza l’ambiente culturale e il campo delle possibilità offerte agli individui che lo richiedono. Nello specifico, questa maniera consiste nel sottomettere tutte queste funzioni all’intento identificatorio e cognitivo di scambio e di controllo, in breve, di dominio dell’intenzionalità significante. Se è vero, come afferma Umberto Eco4, che l’ordine semiotico non si riduce alla categoria dei segni linguistici, che corrisponde soltanto a una delle quattro modalità di produzione del segno (quella della replica, accanto a quelle del riconoscimento, dell’ostensione e dell’invenzione) e che un segno linguistico, del resto, non si limita a stabilire un rapporto di sostituzione tra un significante e un significato, è anche vero, per contro, che l’uso della parola “corpo” sottolinea o accentua ciò che Julia Kristeva chiama “l’ideologia del segno” come struttura binaria di equivalenza fondata sulla reversibilità del processo mercantile e, di conseguenza, come strumento di influenza e di manipolazione, dunque, di potere.

In effetti, l’uso di questo tipo di segno linguistico per designare la dimensione materiale e sensibile del nostro vissuto implica l’alterazione e anche la falsificazione dei cinque processi che lo costituiscono e assicurano il nostro rapporto con noi stessi, l’Altro e il mondo. Questa falsificazione si opera tramite cinque riduzionismi connessi:

  1. Quello del processo sensoriale della percezione a processo cognitivo d’informazione: percepire non è più vivere l’esperienza carnale, aleatoria e ambivalente di un incontro o di un contatto evenemenziale, ma tentare di identificare la sua causa e il suo referente. Erwin Straus ha vivamente denunciato questa confusione in Du sens des sens5, dove, al contrario, tende proprio a fondare un approccio esclusivamente fenomenologico all’essere senziente. Tuttavia, tradotto in termini semiotici, ciò è ritornare a constare, con Eco, che se la percezione è, in teoria, sempre interrogativa e condizionale, per la complessità delle sue implicazioni contestuali essa diviene assertiva e apodittica per l’annullamento o l’occultamento di queste implicazioni, riducendosi così a una pura e semplice equivalenza6.
  2. Quello del processo pulsionale ed energetico di ex-pressione, nel senso etimologico del termine – a mio avviso il solo legittimo –, a un processo di comunicazione: la dinamica immanente auto-affettiva che la costituisce si tramuta in un potere strumentale di emissione e di trasmissione di segni. Il lessema “corpo” diventa così il prodotto e la garanzia di una espressività deviata o fuorviata.
  3. Allo stesso modo e parallelamente, l’azione come forza intensiva di dispendio energetico si riduce alla sua finalità utilitaria e relazionale: la categoria di “corpo” diviene, da questo momento, il supporto, il veicolo e il termine di una capacità di adattamento biologico.
  4. Parallelamente, il pensiero che lo accompagna, postulato da questa categoria o da questo lessema, si tramuta in logica organizzativa di una programmazione tecnocratica: questa lascia che la forza innovatrice e imprevedibile del suo immaginario sia assorbita dalla razionalità calcolatrice.
  5. Infine, ultimo riduzionismo implicito nell’uso della categoria di “corpo”, la pragmatica materiale dell’emissione e della poetica della parola è assoggettata all’egemonia della funzione semantica della trasmissione del messaggio, cioè all’imperativo di ciò che è convenuto chiamare la comunicazione: la vocalità è in qualche modo introdotta clandestinamente e neutralizzata attraverso la sovranità di un “corpo” postulato come fornitore e veicolo di scambio di significazioni.

Insomma, com’è evidente, il modello tradizionale di “corpo” non è privo di presupposti carichi di conseguenze. Erede di una tradizione teologico-metafisica che ne aveva fatto il supporto di una visione ontologica ordinata del mondo, esso si è visto investire e invadere dal progetto tecnico-scientifico di un capitalismo trionfante: la nostra esperienza quotidiana si trova a priori in-formata e normalizzata dall’immaginario sociale e dal discorso che questo modella genera e promuove. Come ho tentato di mostrare nel mio libro intitolato ironicamente Le Corps, noi viviamo il nostro rapporto con noi stessi, gli altri e il mondo attraverso la nostra storia, al tempo stesso, collettiva e individuale, culturale e pulsionale. Così la categoria di “corpo”, attraverso le sue implicazioni, regola e governa la complessità, la contingenza, e la fugacità evidenti del nostro vissuto più banale.

Ora, sembra che l’avvento dell’arte contemporanea – in particolare il profondo rovesciamento del processo di creazione – abbia contribuito a decostruire questo modello, rimettendo in questione la sua egemonia. Ispirati, stimolati e incoraggiati dalle visioni o dalle riflessioni di artisti come Cézanne, Artaud, Klee, Kandinsky, Bacon o Cage, numerosi pensatori molto diversi, addirittura divergenti, come Merleau-Ponty, Ehrenzweig o Deleuze, ci rivelano che l’atto creatore non è un fatto di potere inerente a un “corpo” come struttura organica permanente e significante. Al contrario, un tale atto risulta dal lavoro di una rete materiale ed energetica mobile, instabile, di forze pulsionali e di interferenze di intensità disparate e incrociate.

Così, da un punto di vista strettamente fenomenologico, Merleau-Ponty ci mostra che la categoria di “corpo” dissimula il funzionamento strano e singolare di un “tessuto” o di un “intreccio” di molteplici sensazioni eterogenee e reversibili. Al tempo stesso passive e attive, queste sensazioni costituiscono, in un gioco di corrispondenze “chiasmatiche”, ciò che egli chiama la “chair”: un essere “a più fogli o a più facce”, “un essere di latenza”, trama “di una certa assenza”7.

Dal canto suo, lo psicanalista austriaco Anton Ehrenzweig, autore de L’Ordre caché de l’art8, afferma che ogni atto di creazione si effettua attraverso uno “scanning” o una scansione inconscia di strutture che la coscienza percepisce in superficie come disgiunte, ciò che implica la messa in opera di un modello di corpo non più sostanzialista e permanente, ma reticolare e mobile. Concepito come uno spettro sensoriale, eterogeneo e contingente, questo corpo è lavorato da un doppio meccanismo antinomico di differenziazione e di dedifferenziazione (ciò che Ehrenzweig chiama “serializzazione”). In altri termini, lungi dall’essere l’emanazione di un corpo-soggetto omogeneo e identico, la produzione artistica è la decostruzione e lo svelamento della sua materialità sensibile instabile e aleatoria.

Una tale ipotesi si accorda in questo, ma a modo suo e in un’ottica specificamente psicoanalitica, con una prospettiva che tuttavia si mostra come contestazione vigorosa della teoria freudiana dell’inconscio: la concezione “rizomatica” di Deleuze e Guattari. Per questi ultimi, in effetti, il corpo-organismo che noi apprendiamo quotidianamente non è che uno “strato su un ‘corpo senza organi’, cioè un fenomeno di accumulazione, di coagulazione, di sedimentazione che gli impone delle forme, delle funzioni, dei legami, delle organizzazioni dominanti e gerarchiche, delle trascendenze organizzate per estrarne un lavoro utile”9. Ciò che in questo contesto essi chiamano, sulla scorta di Artaud, “il corpo senza organi”, che subirebbe un tale lavoro di normalizzazione, si definisce come un puro campo di intensità, una connessione di molteplici forze eterogenee a-significanti, in breve, secondo la loro terminologia, “un rizoma”. Non c’è più un essere corporeo in sé, ma un divenire energetico perverso polimorfo come “la grande pellicola effimera” che Jean-François Lyotard descrive in modo pertinente nella sua Économie libidinale10, e che si traveste in simulacri di corpo permanenti, voluminosi e organizzati.

Così, a dispetto o al di là delle differenze d’approccio, filosofi ed estetologi contemporanei si accordano per sovvertire radicalmente la categoria tradizionale di “corpo” e per proporcene una visione originale, al tempo stesso, plurale, dinamica e aleatoria, come un gioco chiasmatico instabile di forze intensive o di vettori eterogenei. Visione che è opportuno designare, ormai, con il vocabolo dalle connotazioni più plastiche e spettrali di “corporeità”. Certo, non si tratta di un vocabolo nuovo: i traduttori francesi di Husserl e, in particolare, Paul Ricœur, talvolta l’hanno impiegato come equivalente di due termini tedeschi: Leibhaftigkeit e Körperlichkeit. Ma il significato che pretende dargli il fondatore della fenomenologia e, a fortiori, i suoi discepoli, è estraneo a quello che io gli conferisco. Nell’accezione husserliana, la corporeità non denota che il substrato del “carattere posizionale” o ontico del noema, cioè il modo in cui il senso di una cosa (un paesaggio, per esempio) che si offre alla nostra coscienza è “riempito originariamente” da una percezione11. In altri termini, l’accezione fenomenologica della categoria di “corporeità” si riduce a designare la modalità concreta o sensoriale del processo cognitivo, e non, come credo si debba fare, la struttura o la trama che sottende la sensorialità stessa nella sua sola materialità e malleabilità, indipendentemente da ogni intenzionalità noetica.

Da questo cambiamento di designazione e di ottica estetico-filosofica risultano tre importanti conseguenze da sviluppare. La prima, e più evidente, concerne lo statuto stesso dell’arte e del rapporto tra le arti o, se si preferisce, dell’unità e della pluralità dell’arte. Ormai non esiste più l’arte in sé come campo unificato di una attività autonoma e trascendente, messa a punto da un valore o da una norma a priori, ma un divenire fortuito di intensità dove giocano e si combinano i due processi contrari di differenziazione e di congiunzione, di distorsione e di sistemazione. Nell’artista i diversi sensi si rispondono in una polifonia sempre rinnovata, e costituiscono una sorta di strana tastiera mobile, precaria e indefinibile, su cui egli si diverte a comporre variazioni inaudite.

D’ora in poi, la specificità e la relativa autonomia di un’arte rispetto alle altre non saprebbe giustificarsi attraverso l’indipendenza e l’originalità delle proprietà dei dati materiali di un organo sensoriale preso in se stesso. Da una parte, la specificità artistica si radica nella singolarità della modulazione funzionale di una gestione energetica, e non nella realtà obiettiva e razionale di un prodotto (quadro, scultura, partitura, pezzo teatrale, balletto, profumo, etc.). Dall’altra, nessuna modulazione è esclusiva o isolata, ma si articola e interferisce necessariamente con le altre. In altri termini, il concetto di “corporeità” implica un intreccio polisensoriale o, se si preferisce, un chiasma intersensoriale che invita l’artista a un perpetuo viaggio, a un’erranza infinita: per essenza, l’arte è nomade. La sua apparente sedentarietà e insularità nella chiusura di un dominio non sono che la risultante delle esigenze normative di un bisogno sociale e di obblighi istituzionali. In realtà, l’arte non può sopportare alcun limite o confine: è ciò che intende Mikel Dufrenne quando rivendica “un’estetica senza ostacoli”12 che non ha altra legge che quella della mobilità di un lavoro artistico senza frontiere, apolide e selvaggio.

In questo modo, si dà una sorta di “spettro estetico” dove si congiungono, come sulla tavolozza, colori fondamentali, tonalità energetiche e sensoriali connessi: pittoricità, plasticità, musicalità, fragranza, sapore, teatralità, e, ciò che per la danza oso chiamare, orchesticità (in riferimento alla sua origine greca, orchèsis). Queste due ultime tonalità si alimentano non soltanto l’una dell’altra, ma anche e soprattutto delle prime tre.

Ciò mi conduce a rilevare e a liberare una seconda conseguenza dell’uso preferenziale del concetto di “corporeità”: quella che concerne la sua messa in opera spettacolare. Parlare di una corporeità spettacolare implica, in effetti, una radicale trasformazione dell’approccio al gioco teatrale e alla danza. La teatralità deriva, secondo la mia ipotesi, dalla struttura ambivalente della matrice vocale, in quanto motore e veicolo della gestione energetica che ciascuno di noi opera13. Se ogni “ex-pressività” implica, secondo la mia ipotesi, il meccanismo antinomico di una dinamica di differenziazione immanente, lavorata o minata da un vano desiderio di auto-affezione o di specularità, è certamente la voce che ne costituisce l’archetipo e la fonte, regolante la visibilità non meno che l’udibilità. “La voce, scrive Bachelard, proietta visioni”. L’espressione è, insomma, “transvocalizzazione”. La teatralità risulta dunque necessariamente da questo gioco contrastato o contrappuntistico tra un processo di distorsione e una ricerca di identità o di unificazione, meglio ancora, tra una differenziazione esponenziale e una ripetizione continuata.

A partire da ciò, invece di vedere il corpo dell’attore o del danzatore come una totalità morfologica, organizzata e significante, cioè una unità gerarchizzata di forme e di segni, noi siamo invitati a considerarlo come la modulazione temporale e ritmica di microdifferenze o di leggere distorsioni che affettano gli operatori della pragmatica corporea. Nel numero di sette (estensione e diversificazione del campo di visibilità, orientamento, posture, attitudini, spostamenti, mimiche e vocalizzazioni), è a partire da questi operatori che il danzatore non smette, da parte sua, di moltiplicare i giochi speculari e gratuiti o le metamorfosi gravitazionali. Insomma, la corporeità spettacolare è l’invito a un altro sguardo e, tramite ciò, a un’altra forma di approccio e di analisi del teatro e della danza.

Ma a partire da qui, essa produce un’altra conseguenza, non meno importante: la necessità di un diverso modo di insegnarla o di un altro tipo di rapporto pedagogico. Come ho tentato di mostrare14, l’intento educativo è carico della sedimentazione di modelli concettuali che determinano ogni condotta di apprendimento. Il modello del “corpo” ne è senza dubbio il principale, o uno dei principali, poiché è stato tradizionalmente considerato come il supporto, il veicolo e il termine della relazione con gli altri: fino a oggi, quest’ultima è stata sempre assimilata a una produzione di messaggi e informazioni attraverso differenti vie sensoriali, in altri termini, a una logistica comunicativa. Come affermano ironicamente Deleuze e Guattari, insegnare si riduce allora a “insignare”15 [ensigner]. Adottando un altro sguardo e sostituendo a questo modello sostanzialista, semiotico e strumentale, quello reticolare, intensivo ed eterogeneo di “corporeità” si sconvolge il meccanismo di potere messo in atto da questa logistica. Senza per questo liberarsi del suo influsso, la nostra percezione, accentuando, al pari del pittore e del musicista, le disparità, la mobilità, e le interferenze dei dispositivi sensoriali, non solo confonde l’impero delle forme dei segni, ma permette anche di modificare lo scopo di dominio che li utilizza. Invece di programmare un’azione su un corpo di cui abbiamo valutato in anticipo le modalità funzionali, mettiamo in gioco, come preconizzato da Bachelard, le incertezze e le contingenze di un vissuto relazionale e dunque la temporalità di un’esperienza. Tentativo rischioso, senza dubbio, e soprattutto non redditizio, ma che almeno ha il merito di rendere adeguato l’atto dell’educare all’etica su cui pretende fondarsi. Così il rifiuto teorico del concetto tradizionale di corpo è una reazione e una protezione immunitaria contro la visione filosofica che questo concetto veicola, in breve, un vero “anticorpo” nel doppio senso della parola.

di Michel Bernard

(Traduzione dal francese di Caterina Di Rienzo)

 

 

 

 

Note

 

1 Testo di una comunicazione (leggermente modificata) esposta nel 1990 al colloque international dell’UQAM a Montréal e pubblicata nel volume collettivo Le corps rassemblé, université del Quebec, Montréal, Éditions Agence d’Arc, 1991.

2 Riprendo la distinzione fatta da A.-J. Greimas e Courtés tra débrayage énonciatif che proietta gli attanti dell’enunciazione e débrayage énoncif che proietta gli attanti dell’enunciato. Vedere Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette-Université, 1979, voce: “Débrayage”.

3 A titolo illustrativo, vedere l’opera collettiva diretta da M. Godelier e M. Panoff, La Production du corps, Éditions des Archives contemporaines, 1999.

4 U. Eco, Sémiotique et philosophie du langage, PUF, 1988, pp. 32-59.

5 E. Straus, Du sens de sens. Contribution à l’étude des fondements de la Psychologie, trad. G. Thinès, e J.-P. Legrand, Éd. Jérôme Millon, 1989.

6 U. Eco, op. cit., p. 46.

7 M. Merleau-Ponty, Le Visible et l’Invisible, Gallimard, p. 179.

8 A. Ehrenzweig, L’Ordre caché de l’art, Gallimard, 1976, libro I, parte I, capitolo III.

9 G. Deleuze e F. Guattari, Mille plateaux: capitalisme et schizophrénie, Éd. de Minuit, 1980, p. 187.

10 J.-F. Lyotard, Économie libidinale, Éd. de Minuit, 1974, pp. 9-56.

11 E. Husserl, Idées directrices pour une phénoménologie, trad. P. Ricoeur, Gallimard, 1950, p. 460; Méditations cartésiennes: introduction à la phénoménologie, trad. G. Peiffer e E. Levinas, Vrin, 1969.

12 M. Dufrenne, Vers une esthétique sans entrave, 10/18, 1975.

13 M. Bernard, L’Expressivité du corps. Recherches sur les fondements de la théâtralité, 1a ediz.: J.-P. Delarge, 1976; 2a ediz.: Chiron, 1986, capitolo V e VI.

14 M. Bernard, Critique des fondements de l’éducation. Généalogie du pouvoir et/ou de l’impouvoir d’un discours, Chiron, 1988.

15 G. Deleuze e F. Guattari, op. cit., p. 95.

 

* Il presente testo è una traduzione del saggio di M. Bernard, De la corporeité comme “anticorps” ou de la subversion esthétique de la categorie tradionnelle de “corps”, contenuto in: M. Bernard, De la création chorégraphique, Pantin, ©Centre national de la danse, 2001, pp. 17-24. Si ringraziano gli aventi diritto per aver gentilmente concesso la liberatoria alla pubblicazione.