Recensione a Benjamin Fondane “Faux Traité d’esthétique. Essai sur la crise de la réalité presenté par Ann Van Sevenant”  di Aldo Marroni


Paris, Méditerranée, 1998, pp. 150, FF. 120.

Nato a Jasi, in Romania, nel 1898,Fondane (il cui vero cognome era Wechsler, cioè «cambiavaluta», di famiglia ebreo-tede­sca, mutato poi, per evidenti motivi, in Fondane dal nome del territorio di prove­nienza), muore nel 1944 nel campo di con­centramento di Birkenau, non senza aver prima pubblicato scritti di notevole interesse nel campo letterario e filosofico. Opere che ne fanno indubbiamente un ispiratore enig­matico e sotterraneo di quello sforzo filoso­fico impegnato intensamente a pensare la «diversità» e la «differenza», operante in segreto nella società tra gli spiriti liberi, opposto alle mode correnti e ai modelli di pensiero dominanti, per lo più centrati sulla prevaricazione e violenza dell’io. Da alcuni anni la studiosa belga Ann Van Sevenant sta riproponendo alla comunità dei ricercatori (si veda a questo proposito il suo lavoro: Il filosofo dei poeti. L’estetica di Benjamin Fondane, trad. it. Milano, Mimesis, 1994)questo scrittore la cui forza e intensità del pensiero è ancora tutta da scoprire e valoriz­zare (a tale scopo è sorta la Société d’Etudes Benjamin Fondane, con sede a Kfar-Saba, in Israele, con un proprio bollettino destinato alla diffusione di documenti e studi sul filo­sofo). Un’altra sua iniziativa è stata quella di promuovere la ristampa di un libro di Fondane, tanto sconosciuto quanto ai suoi tempi coraggioso, cioè un «falso trattato di estetica» (pubblicato in Francia per la prima volta nel 1938,rimasto inesplorato per molti decenni dopo la morte dell’autore, trattato del quale si spera di poter leggere al più presto, una traduzione in lingua italiana), il cui titolo sembra già far preludere a degli esiti assolutamente non scontati, o comunque nonfacilmente assimilabili dalla ricerca estetologica accademica.
La domanda immediatamente impostasi alla nostra attenzione è la seguente: perché è «falso» questo trattato? E se è falso che necessità c’era di farlo conoscere mettendo­lo in circolazione in un periodo molto diffi­cile per tanti intellettuali controcorrente? Forse per ingannare o deridere l’establish­ment culturale? Per scioccare i benpensanti della filosofia? Niente di tutto questo. Fondane, come spiega bene Ann Van Sevenant, ammette essere «falso» il suo trat­tato soltanto dal punto di vista dell’estetica in quanto disciplina accademica. Infatti la sola estetica ammissibile per lui è quella che prende coscienza dell’impossibilità di conci­liare serenamente «verità artistiche e verità speculative» (p. 10). Facoltà poetica (rispon­dente alle esigenze artistiche) e spirito razio­nale (il quale soddisfa l’esigenza di esprime­re comunque giudizi, anche sull’arte) sem­brano fare appello non tanto alla conciliazio­ne e composizione convenzionale quanto al conflitto. Lo «schermo opaco della raziona­lità» tende ad occultare tale tensione, impo­nendo una coabitazione sotto l’egida di una ragione onnicomprensiva, entro cui tutto si rivela e tutto si nasconde.
L’aggettivo «falso», scrive la curatrice del volume, non deve dunque essere interpretato nel senso di apparente, non vero, palese impostura perpetrata ai danni del serio e compassato studioso della disciplina, «tale aggettivo indica piuttosto che il trattato gli fornisce il pretesto necessario per affrontare una verità, la verità poetica, su cui gli estetologi non hanno mai pronunziato parola. Fondane ha così redatto un falso trattato sulla sola verità possibile; infatti solo un falso trattato non si lascia ingannare da false verità» (p. 19).
Il testo dello scrittore rumeno è dunque un lavoro in assoluta controtendenza, tutta­via inscritto entro un contesto filosofico che già si interrogava criticamente sui compiti dell’estetica e sull’origine dell’opera d’arte. Il libro di Fondane appare ancora più impor­tante e significativo se poniamo mente al fatto non secondario che, più o meno nello stesso periodo, e comunque nella stessa tem­perie culturale e in una cornice storica ugualmente tragica, escono importanti lavo­ri nei quali la tensione spirituale più che la conciliazione appagante, il conflitto positivo più che l’accordo avvilente, l’attenzione per il ripetuto più che la venerazione per l’origi­nale, la rivalutazione dell’arte come «cosa» più che l’incontrollabile immaginazione, è al centro degli interessi di importanti pensato­ri. Il riferimento, abbastanza esplicito, è a opere come il Sistema delle belle arti di Alain, risalente al 1920, L’opera d’arte nell’e­poca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin, che è del 1936, la conferenza di Heidegger L’origine dell’opera d’arte, pure del 1936. Non è dato stabilire fino a che punto lo stesso Fondane avesse consapevo­lezza di come si stessero muovendo le cose in campo filosofico (la drammatica vicenda personale e la prematura scomparsa depon­gono d’altro canto a sua discolpa). Per ora a noi interessa unicamente sottolineare l’entu­siasmo e nel contempo la forte e quasi acca­nita resistenza del filosofo a tutte quelle teo­rie elaborate presupponendo il primato della razionalità, le quali gli sembravano proporre un concetto della creazione poetica da cui fosse espunta, per un processo inspiegabile di supposta purificazione, ogni «realtà» e ogni derivazione fisiologica dello stesso prodotto artistico. A tratti il libro sembra assu­mere il tono di un pamphlet occasionale («Lo studio non affronta nessuna delle que­stioni serene che nel corso dei secoli ci hanno proposto gli estetologi») e non di una pacata riflessione sull’estetica: stile polemico tanto più comprensibile quanto più pensia­mo alla circostanza che il «trattato», nelle sue diverse parti, è scritto sempre contro qualche intellettuale, teoria estetica o cor­rente poetica del tempo (d’altronde i testi di cui si compone, come ci informa lo stesso Fondane, erano già apparsi, in una prima redazione, su altrettante differenti riviste, e quindi sicuramente influenzati anche dalla vivacità e immediatezza del dibattito in corso).
Se la presunta «falsità» del trattato (e qui la definizione di «trattato», impiegata sicura­mente con una sottolineatura ironica, va intesa nella direzione del discutere e discet­tare sull’estetica, piuttosto che nel senso di un monoblocco teorico razionale e onnicom­prensivo) richiede una spiegazione, non meno importante è chiarire il significato del sottotitolo nel quale è rivelata (non senza indurre qualche incomprensione) la chiave di lettura di tutto il testo. Che significa infat­ti «crisi della realtà»? E di quale realtà Fondane scorge la crisi? È forse un lavoro nel quale l’autore si ispira alle teorie sul rea­lismo del filosofo marxista Lukàcs? Sembra proprio di no. Scagliandosi contro il tentati­vo di «intellettualizzare» la poesia facendola divenire uno strumento, o peggio un sup­porto della riflessione filosofica, Fondane rivendica la consustanzialità del fare poesia e dell’essere radicati nella realtà esistenziale. Egli vede all’opera nella creazione poetica un monismo entro il quale né la poesia può obliare il fatto di essere frutto di un certo «tessuto esistenziale e mitico», né l’indivi­duo può espellere l’espressione creativa dalle sue nervature affettive ed emozionali. Non vi è poesia, danza, musica propriamente dette senza un esperire «anonimo» del reale, nel quale tutti i soggetti sono coinvolti: la poesia non si lascia astrarre né isolare, perché essa è della stessa sostanza della realtà. Mano a mano che la natura ha rimpiazzato il soprannaturale, l’umano il sovrumano, l’oggetto, la potenza, l’inorganico, il vivente e il pensiero discorsivo, il pensiero partecipato, la poesia ha perso la sua sostanza vitale ed è morta. Tutto ciò è l’esito di un atteggiamento schi­zofrenico nel quale domina una sorta di disgusto per l’esistente in nome di un pen­siero svuotato di ogni contenuto sensibile, chiamato Spirito. A partire da tale entità incorporea si è sviluppato un virus che ha contagiato anche la poesia ridotta ormai a fatto puramente intellettuale piuttosto che essere esaltata nella sua sostanza «fisiologi­ca». Così, secondo Fondane, assistiamo allo sfruttamento dell’irrazionale da parte del razionale: non è più il movimento delle pas­sioni a mostrarsi nella produzione poetica, ma è la razionalità a sollecitare nell’individuo la sua sfera oscura e imprendibile («La ragio­ne decide la mobilitazione della sragione, tenta di provocare coscientemente il subco­sciente; vuole ottenere un occulto “chiaro e distinto”»). Tutto appare ricompreso nel processo intellettualistico posto sotto il dominio dello Spirito hegeliano: «Se le cose non esistono fuori dallo spirito, se esse non sono che segni convenzionali, la poesia rinuncia alla sua funzione di partecipazione alle cose: essa pensa, si pensa, e pensa che si pensa» (p. 64). La poesia è insomma divenu­ta un «in sé», dal momento in cui si è voluta rendere autonoma, cioè si è emancipata dalla realtà affettiva, immaginativa, corporale, sto­rica, e ha bandito dai suoi contenuti il riso, il pianto, il mistero, la favola: questo osserva, quasi sconsolato, Fondane, accomunando nello stesso processo tutta la tradizione filosofica occidentale (ad esclusione di Nietzsche che criticò fortemente la formula di Spinoza: Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere!), nella quale la posi­zione dell’io cartesiano ha avuto una funzio­ne preminente e imperialistica. Ma cosa rispondere a tale svilimento della creazione poetica, come riconquistare un rapporto di presa diretta con la realtà, con le cose? Come restituire alla poesia il suo senso positivo? Lo sforzo di Fondane sembra essere orientato verso una suprema desoggettivazione, verso il riconoscimento di forze e tensioni tese a contrastare il senso cerebrale e mentale dell’arte, rivolte energicamente a identificare nel poeta un soggetto senza soggettività, un «posseduto», un’anima beneficamente aper­ta a potenze estranee ed esteriori che le per­mettono di dischiudersi appunto alla realtà delle cose. Tutto ciò implica il riconoscimen­to di una dicotomia insanabile tra due modi di apprendere le cose: da una parte egli vede la realtà in quanto conosciuta intellettual­mente, dall’altra ipotizza la realtà in quanto posseduta e partecipata. La prima è, in verità, una specie di schermo opaco il quale ci impedisce di oltrepassare la trincea eretta dall’io, che non riconosce altre cose al di fuori di se stesso; la seconda si configura come una forma speciale di «partecipazione all’oggetto», una singolare «sommatoria del poeta e della realtà» che ha origine dal flus­so impuro stabilitosi tra il poeta e le cose. Il poeta non vede, dice Fondane, «egli sente dei flussi», sente delle correnti che lo per­corrono e poi scorrono dentro il poema. Egli non favorisce, come accade al sapere filoso­fico, il disprezzo della carne, dei sentimenti, delle passioni, piuttosto vuole farsene ele­mento conduttore, strada di passaggio verso la presenza nella forma poetica. Quando Fondane cita a più riprese il verso di Rimbaud che recita: «Je est un Autre», allu­de evidentemente a questo compito desog­gettivante dell’esperienza poetica, la quale non erge sbarramenti alla sfera impulsionale, non chiude le porte in faccia alle potenze che desiderano possederlo, piuttosto si rende ospitale e ne facilita la manifestazione. Non si tratta dunque di ricondurre tutta la realtà all’io e qui illusoriamente conciliare e pacifi­care ogni diversità e differenza, al contrario il problema è di esaltare tali diversità, ren­derle legittimamente partecipi del processo di conoscenza. Sintetizzando quest’ultimo senso lo scrittore rumeno chiude il suo libro con una affermazione valida per qualsiasi teoria estetica che voglia presentarsi come conclusiva: «Il conflitto, la tensione, questo sarebbe più vero della falsa unità, della falsa pace della conoscenza!» (p. 142).