Recensione a Cimmino, A. Santambrogio (a cura) “Antropologia e interpretazione. Il contributo di Clifford Geertz alle scienze sociali”


Perugia, Morlacchi, pp. 234, € 17,50. ISBN 88-88778-45-4

 

Nello spazio a equilibrio necessariamente instabile delle pubblicazioni scientifiche, dire che un libro è interessante perché in gran parte tipico e prevedibile può sembrare un’affermazione senza tanto senso – nondimeno è parte di quanto cercherò di mostrare. Tipicità e prevedibilità non dovrebbero aver corso, in uno scambio orientato alla selezione di verità-o-falsità nuove: eppure, questa composizione di voci della scena geertziana, raccolte prevalentemente nel campo degli studi antropologici, crea per lunghi tratti un curioso effetto-eco. È come se nell’unicità del timbro autoriale risuonassero molte altre voci affini, come se si avvertisse che quello che viene detto è già stato detto da altri, magari con accenti appena diversi. Per trasmettere questa sensazione, cercherò di de-singolarizzare quasi tutti i contributi e li tratterò come pezzi “tipici” – l’eccezione finale, oltre ad essere più che bastevole per legittimare la raccolta come opera scientifica riuscita (innovativa!), chiarirà l’insospettabile importanza di questa tipicità.

Nel saggio “Esistere è avere fiducia nel proprio modo d’essere”. Rituali come sistemi modello, Geertz rifà Geertz. Qui parte dal rituale: perché gli antropologi sono generalmente associati al loro rituale – Malinowski al kula, Bateson al naven, ecc.? Prosegue con una nota autobiografica che suona oggi, dopo la sua scomparsa avvenuta il 30 ottobre 2006, come un epitaffio: “Nella qualità di colui che si considera destinato ad essere ricordato quale autore di un breve scritto sui combattimenti dei galli balinesi, mi interessa sapere perché tale identificazione degli etnografi con i riti e le cerimonie che descrivono (…) debba mai essere così forte e persistente” (p. 212).

Conclude individuando nel rituale il modelloattraverso cui comprendere come gli esseri umani si radichino nella propria forma di vita: il rischio della smondanizzazione del mondo è “una potenzialità generale dell’esperienza umana” (p. 227), e nel rituale vediamo condensato lo sforzo per riconquistare (mai una volta per tutte) la realtà del proprio mondo. Se consideriamo che tale discorso si snoda passando in rassegna veloce ma sapiente le principali alternative teoriche (il rituale come fatto storico, come funzione e come struttura), possiamo dire che in questo breve testo Geertz rimanda a se stesso più volte: nella circolarità di parole e cose, nell’emergere, attraverso il rituale, del livello emotivo (motivazioni e stati d’animo) quale mediazione decisiva di livello biologico e cognitivo; lo stile, le incursioni in altri ambiti disciplinari, l’a-sistematicità… A tutto ciò corrisponde, nel lettore (o almeno in chi scrive), l’abituale sensazione di avere in mano un tassello stupendo e ricco, ma di non sapere bene dove collocarlo, cosa farne.

M. Archetti e R. Malighetti esemplano le conseguenze del guardare Geertz da troppo vicino. La mancanza di una teoria strutturata su cui piegare le proprie vanghe analitiche tende a innescare due reazioni ugualmente improduttive: la sovrapposizione di una griglia sostanzialmente inventata e il ventriloquismo. Entrambi gli autori prendono la seconda strada (la prima è poco battuta, forse è solo il sogno denegato di chi scrive), producendo (Archetti) un’introduzione davvero troppo timida e (Malighetti) una ricostruzione più rotonda ed equilibrata del Geertz “interprete della cultura”, con tutti i rimandi del caso (Weber, Ryle, Ricoeur, “post-moderni”).

C. Nizzo rimette in scena la guerra tra universalisti e relativisti. Geertz vi ha partecipato in qualità di fomentatore involontario: le sue tesi anti-mentaliste e anti-naturaliste hanno fatto propagare un conflitto ch’egli non aveva cercato e che, semmai, si è adoperato per smorzare (del tipo: se non c’è una mente o una natura universale, non perdiamo mica il mondo). Nizzo condivide solo in parte questo irenismo e conduce un’elaborata critica del concetto di relativismo, procedendo poi a distinzioni in varianti e sotto-varianti: l’impressione è che quando dall’immersione nell’ambiente epistemologico (tema classico: gli schemi con cui dividiamo in colori lo spettro del visibile) si ritorna alla superficie antropologica (il significato di “legge” nella cultura islamica) sfumi un po’ anche il “contributo operativo” di un détour così puntiglioso.

G. Conti riapre il doloroso (per i lettori italiani) capitolo delle traduzioni delle opere di Geertz, comparando in maniera puntuale e convincente alcuni passi di un suo famoso saggio (“The uses of diversità”) e, più in generale, riflettendo sul modo in cui è stato/avrebbe dovuto essere tradotto un autore come il Nostro. L’articolo fa inferire che, sì, Geertz è stato tradotto male (non ci sbagliavamo allora!), in compenso tradurlo bene sarebbe stato quasi impossibile: riferimenti troppo indiretti, immagini troppo locali, Conti mostra un Geertz che parla come un indigeno ma senza il provvido informatore lì di fianco, e siccome il traduttore non ha tutto il tempo di un etnografo (e generalmente anche molti meno soldi), finisce col cavarsela come può. Anche in questo contributo possiamo sentir risuonare un vocio indistinto, stavolta proveniente dalle discussioni che hanno accompagnato e accompagnano luoghi e forme della ricezione di Geertz in Italia.

M. Canevacci recita la vecchia, antipatica parte di chi ha fatto almeno un passo oltre Geertz e ha preso la stessa direzione presa dal mondo. Certo, Geertz ha aperto un orizzonte decisivo nell’antropologia contemporanea, ma da allora la realtà è cambiata e con essa la concettualizzazione della pratica etnografica: la critica post-moderna, battendo sul tasto della dialogicità, si è mossa nella direzione giusta, come risulta ora conclamato dal convergere, quasi dialettico, di mondo ed etnografia. Adesso, infatti, non si tratta più di cogliere il punto di vista del nativo mediante sottili costruzioni operate, qui, dall’etnografo, basta lasciar fluire, dai tanti , le auto-rappresentazioni di persone che, finalmente, possono chiamarsi come piace a loro e decidere autonomamente forme, tempi e usi delle proprie narrazioni. All’antropologo non resta che accompagnare una rivoluzione che è già in cammino, lasciando che l’etnografia si faccia mondo: “L’alternativa è semplice: sollecitare l’uso dei termini da loro stessi adottati, cherokee, xavante, textal. (…) Schierarsi al fianco della svolta basta sull’auto-rappresentazione” (p. 208).

S. Ortner è il paradigma dei tentativi di andare con Geertz oltre Geertz. La via segnata da questa autorevole allieva del maestro prevede una schematizzazione anche troppo netta delle alternative teoriche in campo: utilizzando come pietra di paragone la “contesa sul ruolo dell’essere sociale” (63), Ortner è con Geertz nell’evidenziare i limiti della concezione del soggetto di post-strutturalismo, strutturalismo agito à la Foucault o à la Bourdieu e subaltern studiesoltre Geertz nel traslarne la concezione della soggettività entro un approccio rinnovato alla coscienza post-moderna.
I caratteri appena passati in rassegna disegnano un’impasse che è significativa, dal punto di vista conoscitivo. Collazionati per delineare “il contributo di Clifford Geertz alle scienze sociali”, sottotitolo del libro, essi vengono a comporre un quadro in cui canonizzazione, commiato e prospettive iper-focalizzate non si intrecciano in modo tale da staccare il primo piano dallo sfondo, il protagonista dai contesti, il prima dal (ora anche nel senso biografico del termine) dopo. Ai miei occhi, G. Marcus si smarca da questo coro in maniera quasi violenta. Quello che egli riesce a fare è passare attraverso Geertz, situandolo entro una prospettiva che recupera distanziando e fa emergere uno scenario teorico nuovo e stimolante prendendo a rovescio quello passato.

Il punto di partenza è il solito, quello previsto dallo stesso Geertz alcune pagine dopo: il racconto del tumultuoso inizio della ricerca sul campo dei coniugi Geertz a Bali. Il punto di Marcus è mostrare come questa configurazione del rapporto etnografico e le due critiche più consolidate (l’Altro non parla, quindi dobbiamo costruire monografie dialogiche; chi parla è la nostalgia imperialista, quindi dobbiamo fare una critica politica del progetto storico dell’antropologia e assumerne le conseguenze, teoriche e politiche) presuppongano una mise-en-scène tradizionale dell’incontro etnografo-nativo. Questo è il punto cieco di larga parte della riflessione aperta da Geertz: “la discontinuità nelle formazioni culturali – i loro multipli ed eterogenei luoghi di produzione – ha costretto a produrre cambiamenti negli assunti e nelle nozioni che avevano costituito la mise-en-scènetradizionale” (p. 40) del lavoro sul campo]. Questa grammatica profonda viene messa a nudo facendo leva sulla nozione di complicità: prima, la complicità poteva essere o mezzo per istituire il rapporto necessario per co-costruire l’etnografia o traccia occultata della co-responsabilità imperialistica dell’antropologo; ora,  la complicità è quello “stato di connessione o coinvolgimento” che unisce ricercatore e informatore non nell’esplorare l’interno di una cultura, ma nel cogliere il modo in cui il “qui” è modificato da cause che stanno in un “altrove” imprecisato: “quello che gli etnografi cercano non è tanto un sapere locale (…) quanto un’articolazione delle forme di ansia che vengono generate dall’essere toccati da quel che accade altrove, senza essere a conoscenza di quali possano essere le particolari connessioni con questo altrove” (p. 43).

Antropologo e informatore si somigliano, ma non per un sapere ora meno squilibrato, quanto per il convergere nel non-sapere, di cui l’antropologo si candida ad essere l’agente speciale: “la complicità sta nella riconosciuta reciproca fascinazione tra antropologo e informatore riguardo al ‘mondo’ esterno che l’antropologo materializza mediante i viaggi e le traiettorie della sua agenda multi-localizzata” (p. 50). Non ci sono due distinti orizzonti da fondere, c’è un unico immaginario, matrice di complicità cognitiva: i soggetti nello specchio dell’antropologo sono più vicini di quanto sembrava, in parte quelli sono lui! Nell’esempio analizzato, lo studioso che ascolta le retoriche di vari gruppi dell’estrema destra europea mostra lo sgretolamento dell’idea che l’informatore viva in un altro mondo; al contrario, vi è una “comunanza di riferimenti, di immaginario analitico e [una] curiosità che il ricercatore e i suoi interlocutori condividono – anche se ciascuno per ragioni e finalità diverse” (p. 56).

A pagina 58, infine, quella conclusiva del suo intervento, Marcus pone il proprio contributo “in uno spirito di continuità” con le “intuizioni profonde e le grandi ambiguità” della riflessione di Geertz sulla pratica etnografica; tale pagina può essere considerata l’ideale apertura di ulteriori, differenti, compiuti attraversamenti dello spazio conoscitivo geertziano – il resto del libro, in quanto ben congegnato giro d’orizzonte sullo stato dell’arte, segnala la necessità di altre imprese di questo tipo.

di René Capovin