Recensione a Hernando de Soto “Il mistero del capitale. Perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo”


Milano, Garzanti, 2001, pp. 278, Euro 18,08

 

Uno spettro si aggira sulla terra: la delusione dei poveri del Terzo mondo e dei paesi ex-comunisti. Nel corso dell’ultimo decennio essi infatti hanno lavorato moltissimo: hanno costruito abitazioni, hanno creato imprese, si sono resi conto del valore economico delle competenze culturali e professionali, si sono appropriati dei processi logici che garantiscono efficienza e rapidità. In altre parole, si potrebbe dire che si sono globalizzati secondo i principi e i parametri della cultura occidentale: l’informazione e la comunicazione li hanno resi coscienti di ciò che non hanno e di come costruirselo. Come scrive de Soto “se si lasciano da parte gli stereotipi hollywoodiani degli abitanti del Terzo mondo e dei paesi ex-comunisti come un assortimento eterogeneo di venditori ambulanti, baffuti guerriglieri e gangster slavi, si troveranno poche differenze tra la cultura dell’Occidente e il resto del mondo quando si tratta di tutelare i beni patrimoniali e fare affari” (p. 195).

Il risultato di questo immenso lavoro tuttavia resta una specie di capitale morto perché non è legalmente riconosciuto: i poveri hanno case ma non titoli di proprietà, hanno raccolti agricoli ma non atti legali, hanno imprese ma non statuti societari. Perciò non possono vendere le loro case e terreni, né emettere azioni o obbligazioni per ottenere nuovi investimenti e nuovi finanziamenti: hanno solo il valore d’uso e non il valore di scambio. Secondo l’economista peruviano de Soto, l’autore di questo libro pubblicato in inglese (© Hernando de Soto 2000) e diventato rapidamente un best seller mondiale, l’ammontare del capitale morto è enorme: per esempio, se consideriamo le abitazioni urbane, il possesso informale e non legale riguarda nelle Filippine il 57%, in Perù il 53%, ad Haiti il 57%, in Egitto addirittura il 92%! Se passiamo al settore rurale, si va dal 67% delle Filippine al 97% di Haiti! Non diversamente la Russia ha visto passare all’economia sommersa milioni di persone e ovunque nei paesi del Terzo mondo ed ex-comunisti si assiste all’aumento delle disuguaglianze, alla diffusione delle mafie, alle fughe dei capitali, all’instabilità politica, a flagranti trasgressioni della legge. Infatti in questi paesi sono posti infiniti ostacoli burocratici alla legalizzazione dei possessi.

A Manila per formalizzare un possesso urbano informale ci vogliono 168 passaggi burocratici e un tempo che va dai 13 ai 25 anni. A Lima per aprire un laboratorio di abbigliamento occorre fare pratiche per 289 giorni e spendere 1231 dollari, trentanove volte il salario minimo mensile. Nelle favelas brasiliane le pigioni sono pagate in dollari e i locatari morosi sono evacuati molto rapidamente. Perciò – conclude De Soto – è la legalità ad essere marginale, mentre l’illegalità è diventata la norma. Ancora più impressionante è il rapporto tra l’Occidente e il resto del mondo che comprende 5 miliardi di persone e detiene un capitale morto che ammonterebbe a 9,34 triliardi di dollari! L’impressione che si ricava dalla lettura del libro di de Soto è che il capitalismo liberale e la sua cultura giuridica costituiscono una piccola isola assediata da un mare di attività e di possessi extralegali. Il settore informale è il luogo in cui le attività cercano rifugio quando i costi del rispetto della legge superano i vantaggi.

Questa analisi fa giustizia delle teorie culturaliste del capitalismo, come quella famosissima di Max Weber, secondo la quale esiste un rapporto tra il capitalismo e l’etica protestante. Per De Soto, nel corso degli ultimi dieci anni si è avverato il detto secondo cui “tutto il mondo è paese”, cioè “tutto il mondo è Occidente”, e quindi non esistono barriere di carattere culturale e tantomeno religioso che impediscono di uscire dalla povertà e dal bisogno. “Molti comportamenti – scrive – che oggi sono attribuiti all’eredità culturale non sono l’inevitabile risultato delle caratteristiche etniche o idiosincratiche di un popolo, ma derivano dalla valutazione razionale dei costi e benefici relativi all’ingresso nel sistema di proprietà legale” (p. 245).

Siamo così arrivati a un punto critico: se l’attesa di legalizzazione dei beni che i poveri hanno prodotto non viene soddisfatta, l’esito non potrà limitarsi all’emigrazione; né è probabile che l’atteggiamento di rassegnazione che ha caratterizzato alcune grandi culture come quella indiana possano continuare a tenere tranquilla la popolazione. Gli sconvolgimenti sociali avvenuti in Iran, in Indonesia e in Venezuela costituiscono campanelli d’allarme di estrema gravità. Dall’analisi condotta da de Soto risulta chiarissimamente che il nodo è politico: “ciò che caratterizza i nemici della proprietà e della formazione del capitale nei paesi in via di sviluppo ed ex comunisti non è il fatto di essere di sinistra o di destra, ma di essere amici dello status quo” (p. 183).

Questa teoria si accompagna ad un’analisi storica relativa alla formazione del capitale negli Stati Uniti dell’Ottocento: la concessione dei diritti di proprietà ai coloni e agli squatters, le leggi minerarie, l’assegnazione delle terre demaniali ecc., hanno costituito un elemento determinante della prosperità americana. Secondo de Soto quindi il Terzo mondo e i paesi ex comunisti si trovano oggi in una situazione che gli Stati Uniti hanno superato nell’Ottocento e il Giappone nel corso del Novecento. La Svizzera ha unificato il proprio sistema proprietario solo alla fine dell’Ottocento. Quanto all’Inghilterra questo processo di legalizzazione è durato alcuni secoli. Là dove ha incontrato insormontabili ostacoli politici, l’esito è stato rivoluzionario come in Francia nel 1789 e in Russia nel 1917.

Colpisce nell’analisi condotta da de Soto il fatto che egli non nutra alcun dubbio circa l’unidirezionalità del processo socio-economico che in tutti i paesi e in tutte le epoche seguirebbe lo stesso cammino orientato verso il riconoscimento del diritto di proprietà; così lascia perplessi il fatto che non vi sia una sola parola di critica nei confronti dell’iperproduttivismo devastatore e autodistruttivo che caratterizza il modo di vivere occidentale. Tuttavia la sua analisi ha una notevole forza d’impatto nella demistificazione della politica economica neoliberale, la quale nasconde una realtà che è proprio opposta all’ideologia che sbandiera: la globalizzazione capitalistica si è basata finora non sulla promozione dell’attività economica delle masse, non sulla valorizzazione del lavoro dei poveri, ma proprio al contrario sul porre infiniti ostacoli burocratici e giuridici al riconoscimento dei loro diritti di proprietà e alla loro trasformazione in soggetti economici autonomi e indipendenti!

L’ideologia neoliberale occulta un potere dispotico, monopolitistico, esclusivamente orientato verso il mantenimento e l’accrescimento delle ricchezze esistenti, che non esita a ricorrere addirittura alla guerra quando la burocrazia e la mafia non sono sufficienti ad impedire l’entrata dei poveri nell’economia capitalistica! Tuttavia in questo modo l’analisi di de Soto spiazza e disorienta anche la critica neo-comunista al liberismo, perché offre un profilo della realtà economica del Terzo Mondo e dei paesi ex comunisti assolutamente differente e perfino opposta a quella fornita dal marxismo. Secondo de Soto, infatti, il superamento della povertà e del bisogno non si fonda sul valore d’uso, ma sulla sua trasformazione in valore di scambio e in capitale. Nella trappola ideologica che spaccia il neoliberismo per libertà economica sono caduti non solo gli amici del capitalismo, ma anche i suoi nemici. Per rispolverare un linguaggio ormai desueto, meglio piccolo-borghesi che affamati e taglieggiati. E speriamo di non dover mai dire: meglio affamati e taglieggiati che morti!

di Mario Perniola