Recensione a Vilém Flusser – Filosofia del design


Trad. it. Milano, Bruno Mondadori, pp. 154, € 12,00.
isbn 88-424-9139-X

È possibile una filosofia del design? E cosa sarebbe? Una nuova disciplina? Il design, soprattutto oggi, è diventata un’attività difficile, legata a contesti molteplici e tutti connessi tra di loro, che vanno dall’economia all’industria, dall’arte alla scienza, dalla società alla politica, dall’etica all’estetica. I concetti di forma e di funzione (variamente combinati tra loro) che ne hanno governato ed incanalato la pratica per diversi decenni sono diventati logori, riducendo una realtà dinamica e complessa a formule ormai prive di senso. Non è più possibile pensare al design come ad una disciplina autonoma, isolata, senza pensare al quadro dei problemi che essa solleva ed alle diverse competenze che essa richiede. Il discorso sul design oggi si è fatto talmente complesso che non bastano più i designer a spiegarlo, servono critici, filosofi, teorici della cultura in grado di interrogarsi sulla sua natura e sulla sua destinazione futura.

In questo senso il libro di Flusser si dimostra prezioso e di grande utilità. Con esso ci troviamo infatti di fronte ad un originale studio filosofico sul design scritto non da un filosofo in senso stretto né tantomeno da un designer professionale, ma da un eclettico studioso di linguaggio e di media nato a Praga da una famiglia di intellettuali ebrei, emigrato in Brasile ma poi tornato in Europa e morto nel 1991.
Costruito come una raccolta di saggi brevi e talvolta brevissimi, come una serie di considerazioni di tipo fenomenologico su oggetti quotidiani e sull’ambiente in cui si collocano, il libro si apre con una puntuale indagine etimologica sulla parola design, che – come noto – in inglese può essere usato sia come sostantivo, per indicare tra l’altro “progetto”, “intenzione”, “piano”, “scopo”, “complotto”, “figura”, sia come verbo (to design) col significato di “architettare”, “ideare”, “organizzare”, “simulare”, “agire in modo strategico”. Il termine deriva ovviamente dal latino signum, segno, e ne conserva la radice, per cui dal punto di vista etimologico non significa altro che “disegno”. A questa parola però troviamo spesso associate idee quali astuzia, inganno e insidia, insieme ai termini significativi di macchina, macchinario e di meccanica. L’interrogativo che muove il libro è dunque quello di capire perché questa parola ha assunto il suo attuale significato internazionale, come ha fatto ad arrivare a designare quella peculiare connessione fra arte e tecnica, qualità e quantità che oggi ne racchiude il senso, ma soprattutto – come scrive l’autore – si tratta di cercare di “svelare gli insidiosi e subdoli aspetti della parola design, che in genere passano sotto silenzio”.

Sotto quest’ultimo aspetto allora si può dire che il “design” del libro è perfettamente riuscito, dal momento che esso riesce a gettare piena luce sugli aspetti nascosti e (all’apparenza) estrinseci del design più che su quelli intrinseci e risaputi. Accanto a riflessioni (all’apparenza) tradizionali su “materia e forma”, o su oggetti particolari come tende, tappeti, vasi, ruote, sottomarini, troviamo così riflessioni (all’apparenza) peregrine su design e guerra, sull’etica nel design industriale, sul design come teologia, sulle figure di profeti, di sciamani o di danzatori mascherati. Il tutto con un forte stile ironico, un acutissimo spirito critico e pungente, sorretto dalla convinzione, tanto profonda quanto provocatoria, che il nostro avvenire è soprattutto una questione di design, cioè di forma delle cose, vale a dire di come riusciamo a impossessarci del nostro destino e siamo capaci di dargli forma.

Riflettere sulla natura del design, nel senso pieno del termine, è infatti un’operazione tutt’altro che pacifica, si tratta anzi di porsi una domanda che riguarda die lezten Dingen, “le cose ultime” come dicono i tedeschi, cioè una domanda di tipo esistenziale, metafisico, poiché attiene al nostro stesso modo di essere, di stare, di guardare al mondo, di fare le cose, di trasformare la realtà, di dargli forma. In questa dimensione Flusser parla della prospettiva del designer come quella di qualcuno dotato di un’anima con due occhi – come sosteneva ad esempio il poeta mistico tedesco Angelus Silesius e prima di lui Platone – che riesce a guardare all’eternità e alle sue forme e contemporaneamente riesce a tradurre e a manipolare qui e ora quelle forme, magari con l’aiuto di macchine o di robot. È per questo che Flusser arriva anche a paragonare il designer alla figura del profeta, o addirittura a Dio – “sforniamo mondi in qualsiasi forma desideriamo e lo facciamo bene almeno quanto il Creatore nei sei famosissimi giorni” (p. 26) – “ma grazie a Dio lui non lo sa e si considera un tecnico o un artista. Possa Dio conservargli questa convinzione” (p. 31).

Ma interrogarsi sulla vera natura del design significa propriamente porsi problemi radicalmente metafisici, persino teologici, fronteggiare i concetti di bene e di male. Non c’è niente di meno innocente del design, il diavolo è sempre in agguato ovunque vi sia uno scopo, ricorda Flusser. “Chiunque decida di diventare designer prende una decisione a sfavore del bene puro”. Per il design il bene puro, il bene in sé non esiste, non può esistere, è un’assurdità, perché “in ultima analisi, tutto ciò che è buono nel caso del bene applicato è cattivo nel caso del bene categorico”. Si pensi, tra i molti oggetti possibili, ad un tagliacarte, ad un missile o alle camere a gas: sono tutti progettati per funzionare (bene), ma così facendo finiscono per negare l’idea stessa di bene. “Da quando i tecnici si sono dovuti scusare con i nazisti perché le camere a gas che avevano progettato non erano abbastanza buone – cioè non uccidevano la clientela abbastanza in fretta – ci siamo resi conto ancora una volta di quello che si intende per diavolo” (p. 22).

Ora però non si deve pensare che sia questa generale impostazione “metafisica” a gravare sul libro, ciò che colpisce in esso è piuttosto la straordinaria semplicità e leggerezza del tono, insieme alla varietà e alla ricchezza della ricerca etimologica, che costituiscono forse la vera cifra del lavoro. Per queste ragioni si sarebbe tentati di dire che Flusser ha il dono della vera leggerezza, quella “leggerezza della pensosità” di cui parla Calvino, che è tutto il contrario della banalità e della superficialità.

Accostamenti a tutta prima lontani ed improbabili (cosa c’entra il design con la teologia? e con l’etica?), domande dall’aspetto insolito (“perché le macchine da scrivere ticchettano?”) o discorsi su cose che non sono cose (“La non-cosa 1”, “la non-cosa 2”) rivelano all’improvviso qualcosa d’inatteso e di geniale, gettando luce sul senso profondo dell’operazione, mostrandoci così il vero design del libro.
Se si volesse tuttavia cercare a tutti i costi un qualche neo nel libro, si potrebbe forse individuare nella eccessiva fiducia accordata al progresso tecnologico e al ruolo delle macchine. Ma ciò è probabilmente dovuto anche al fatto che l’autore scrive questi saggi in un periodo storico e in una temperie culturale ben precisi: gli anni Ottanta, gli anni dell’enorme espansione delle nuove tecnologie informatiche e telematiche e dell’esuberante ideologia che tale espansione sosteneva. In quest’ottica si spiega anche l’abbondante utilizzo nel libro di richiami alle figure dei robot, che al tempo sembrava dovessero rivoluzionare l’esistenza quotidiana di tutti noi e che in realtà la ricerca scientifica successiva ha completamente abbandonato. Oggi nessuno sembra più parlare della robotica, ma Flusser immagina un futuro in cui “grazie ai robot tutti saranno collegati a tutti sempre e in tutti i luoghi da cavi reversibili, e attraverso questi cavi (così come attraverso i robot) potranno trasformare e utilizzare ciò che riescono a procurarsi”. O addirittura parla dell’uomo-robot del futuro come di un nuovo homo faber che diviene homo sapiens sapiens, “perché ha compreso che produrre equivale ad apprendere, ossia acquisire, generare e trasmettere informazioni” (pp. 40-42).

L’ottimismo di fondo di cui Flusser sembra nutrirsi è però tutt’altro che miope ed acritico, è legato piuttosto a quella speranza progettuale insita da sempre nel design stesso, che non gli fa chiudere gli occhi sul futuro e non gli impedisce di presagire alcuni scenari del nostro oggi (realtà virtuale e cyberspazio), di avvertire l’importanza della rete e di quelle che egli chiama le non-cose (immateriali, dati, informazioni, conoscenze) per il nostro avvenire sempre più immateriale o anche di intravedere un “totalitarismo dei programmi”, ovvero una società emancipata dal lavoro che crede di prendere le decisioni liberamente ma in realtà vive di programmi, vive cioè di una libertà “programmata”.
Alla fine quel che ci troviamo di fronte è un libricino davvero notevole, la cui lettura risulta non meno utile che piacevole, perché parlando di design parla di molto altro e parlando di tutt’altro parla anche di design.

di Giuseppe Patella