René Capovin – Un’uscita dagli anni Settanta. Perniola e i simulacri


René Capovin Un’uscita dagli anni Settanta. Perniola e i simulacri

 

 

 

 

Nell’opera di Perniola, La società dei simulacri del 1980 costituisce senza dubbio una tappa di grande significato, per molti versi un momento di svolta, soprattutto se letta assieme al libro di poco successivo, Dopo Heidegger. Filosofia e organizzazione della cultura del 1982. “Simulacro” era diventato un termine corrente nel dibattito filosofico francese già dalla fine degli anni Cinquanta, grazie alla lettura dell’opera di Nietzsche condotta da Pierre Klossowski e da Gilles Deleuze, e più tardi grazie al rapporto istituito da Deleuze tra “simulacro” e “struttura”. Oltre a questa linea di pensiero, Perniola fa numerosi ed espliciti rimandi anche all’autore che, alla fine degli anni Settanta, più aveva fatto ricorso a questo concetto, cioè Jean Baudrillard. Al fine di mettere a fuoco la posizione di Perniola, è necessario situarla rispetto alle elaborazioni degli autori appena citati. Successivamente, si cercherà di individuare il significato storico e politico dell’elaborazione di Perniola, leggendola anche alla luce degli sviluppi successivi della sua opera.

Il simulacro, tra Nietzsche e struttura

Klossowski elabora a partire dagli anni Cinquanta un’interpretazione dell’opera di Nietzsche che costituirà una fonte dichiarata dell’influente Nietzsche e la filosofia di Deleuze (1962). In questi testi, la filosofia è vista come il dominio della rappresentazione, cioè come un discorso retto dall’opposizione platonica tra originale e immagine, modello e copia – opposizione originata dalla preoccupazione di discernere, tenendo l’Idea come identità originaria di riferimento, gli idoli buoni (le copie, unite al modello da una somiglianza interna) dagli idoli cattivi (i fantasmi o simulacri). Più precisamente, la teoria platonica delle idee viene caratterizzata da Deleuze come una vera e propria “Odissea filosofica” che punta a distinguere, nello spazio rappresentativo, il pretendente a giusto titolo dal falso pretendente – i simulacri, la versione inautentica costruita su una dissimilitudine. In questa parabola, Nietzsche interviene quale istanza di riscossa dei simulacri: “l’eterno ritorno non concerne e non fa tornare se non i simulacri e i fantasmi […]. Risalendo alla superficie, il simulacro fa cadere sotto la potenza del falso (fantasma) il medesimo e il Simile, il modello e la copia” (Deleuze 1997: 124). La distinzione tra essenza ed apparenza è interna al mondo della rappresentazione, mentre il simulacro è dotato di una “potenza positiva” che toglie sia originale che copia (“crepuscolo degli idoli”, annota Deleuze). Ecco allora che il proposito che Deleuze riconosce nella filosofia moderna, “rovesciare il platonismo”, va declinato nel senso di un prendere partito per il simulacro, cioè di sovvertire il mondo rappresentativo:

rovesciare il platonismo – sostiene Deleuze – significa negare il primato di un originale sulla copia, di un modello sull’immagine, glorificare il regno dei simulacri e dei riflessi. Pierre Klossowski ha giustamente mostrato come l’eterno ritorno, preso in senso stretto, significa che ogni cosa non esiste se non in quanto ritorna, copia di un’infinità di copie che non lasciano sussistere originale e neppure origine. Ed ecco perché l’eterno ritorno è detto ‘parodistico’, in quanto qualifica ciò che fa essere (e tornare), come simulacro (Deleuze 1997: 113).

Il quarto capitolo di La società dei simulacri apre la sezione “Simulacri e filosofia” e inizia proprio con un richiamo alla critica genealogica di Nietzsche dei concetti opposti e complementari di “mondo vero” e di “mondo apparente”, alla loro origine platonica e all’eredità cristiana (cfr. Perniola 2011: 43). Tale riferimento introduce due modi opposti di riflettere, con Nietzsche dopo Nietzsche, sull’apparire: il pensiero di Heidegger e quello di Klossowski. Perniola propenderà chiaramente per la strada segnata da Klossowski, opponendo la forza dell’oblio alla tentazione della memoria dell’Origine. Questa origine filosofica della nozione di simulacro è ricostruita da Perniola con una chiarezza e un’incisività che lo accompagnano spesso nelle letture di autori o fenomeni (si pensi al libro su Bataille, del 1977, quindi molto prossimo per periodo e tema al discorso qui condotto).

Baudrillard fa riferimento a una cornice teorica leggermente diversa, inaugurata da Deleuze leggendo Nietzsche attraverso le categorie dello strutturalismo: l’esito è l’individuazione di istanze capaci di fare esplodere la versione “bloccata” di struttura, dominante a livello di analisi semiotiche e sociologiche. In queste declinazioni, “struttura” funzionava da principio d’ordine o da vera e propria essenza costitutiva di una data realtà: in Deleuze, essa diventa un principio di auto-sovvertimento.

Deleuze vede nella modernità la lotta tra due opposti nichilismi, l’uno, quello instaurato dal caos creatore di cui sono portatori i simulacri, l’altro, quello istituito dal “fittizio”, istanza che cerca di restaurare l’ordine dei modelli e delle copie. Questa opposizione, come detto, può essere ricondotta a due diverse declinazioni del concetto di “struttura” – quella proposta da Deleuze e quella più diffusa a livello di analisi linguistica e sociologica. Ora, rovesciare teoricamente la struttura nella sua versione “scientista”, in quanto modello di controllo capace di regolare l’ordine della modernità neocapitalista, conferiva a tale ripensamento un impatto non soltanto teorico.

Baudrillard va collocato rispetto a questa strategia teorica. Per Baudrillard il potere culturale e reale della logica sistemica, con la propria struttura differenziale, non ha un lato dionisiaco-rivoluzionario e uno gerarchico-regressivo: i cambiamenti delle strutture sono visti come l’oscillare degli assetti del sistema secondo una logica dettata dalla moda, e non già, come in Deleuze, dal dinamismo cieco del “precursore buio”. Di qui, sempre in Baudrillard, l’assunzione della simulazione come modalità operativa della logica strutturale, “motore automatico” della società dei consumi, operazionalità neutra del tutto sprovvista di quella connotazione affermativa che consente a Deleuze di vedere nei simulacri l’esplicarsi dell’eterno ritorno nietzscheano. Secondo Baudrillard, si deve “dimenticare Foucault” (ma in realtà, prima ancora, si deve dimenticare Deleuze) proprio perché il rispettivo superamento dell’ordine strutturale avviene in forza dei modelli messi a punto dalla cibernetica e si rivela una semplice dinamicizzazione, o elasticizzazione, della struttura. Baudrillard non contesta la “verità” del modo in cui i “desideranti” configurano società e potere, ma la tonalità (euforica) con cui li raddoppiano.

Per Baudrillard, il simulacro è l’esito della sostituzione del reale con i segni del reale prodotta dal potere operativo del codice semiotico. In questa prospettiva, il “sistema”, la “struttura” non sono semplicemente dei modelli descrittivi, ma delle matrici operazionali che fanno la realtà contemporanea. Il codice non permette soltanto di organizzare in modo sistematico la promozione dei prodotti, come mostrato in La società dei consumi (Baudrillard 1970). In Lo scambio simbolico e la morte (Baudrillard 1976) l’attenzione si sposta dall’involucro alle cose stesse: il DNA e i sondaggi non descrivono una realtà biologica o politica pre-esistente, ma la costituiscono, la pre-determinano – “precessione dei simulacri”.

Questa concezione della simulazione come “gabbia di ferro” fattasi realtà viva è quindi uno degli esiti del dibattito francese a partire dalla nozione di “struttura”. Nel settimo capitolo di La società dei simulacri, dal titolo: “Oltre l’arte e il design”, Perniola utilizza questa impostazione nel descrivere il funzionamento del “design semiotico”, quel design per cui l’oggetto è concepito come “segno, veicolo di messaggi che col suo valore d’uso spesso non hanno niente a che fare” (Perniola 2011: 88). Siamo quindi esattamente al centro di analisi consacrate da Baudrillard al “sistema degli oggetti” e al “valore-segno”, riportate e interpretate in maniera del tutto ortodossa.

Dopo il simulacro filosofico e quello strutturale, il simulacro come rapporto con la morte: è questa la terza grande fonte teorica della riflessione di Perniola, all’altezza di La società dei simulacri. Si tratta della fonte più interessante, in chiave di un raffronto tra Baudrillard e Perniola, perché si tratta dell’elaborazione forse più originale.

In Baudrillard la morte è fin dal titolo al centro della sua opera principale, aperta da un’affermazione particolarmente potente:

Non c’è più scambio simbolico al livello delle formazioni sociali moderne; non più come forma organizzatrice. Certamente, il simbolico le assilla come la loro morte; ma, proprio perché non ne regola più la forma sociale, esse non ne conoscono più che l’assillo, l’esigenza continuamente preclusa dalla legge del valore (Baudrillard 1979: 11).

Assenza di scambio simbolico significa rimozione della morte, scambio simbolico è anzitutto rapporto con la morte, esemplificato attraverso il riferimento alle società primarie. Il détour antropologico è stato scambiato da alcuni critici, i più noti Lyotard e Ferraris, per una proposta teorica o politica, in realtà la morte simbolica ha valore essenzialmente contrastivo, serve soprattutto per orientare l’indagine sulle forme di rimozione della morte nella società moderna – dalla psicanalisi, intesa come fase storica della de-socializzazione della morte, alle funeral homes.

Perniola si collega a questa riflessione nel quinto capitolo del suo libro, “L’essere-per-la-morte e il simulacro della morte”, e la presenta come un’opzione alternativa al superamento della concezione metafisica della morte effettuato da Heidegger in Essere e tempo. Mentre l’essere-per-la-morte viene collegato a una spiritualità luterana e giansenista, la morte simbolica viene intesa quale “simulacro della morte” e legata alla tradizione gesuitico-barocca. Questa tradizione in effetti è intesa già da Baudrillard come una fase ancora primordiale della modernità, in cui la morte non è ancora diventata affare intimo: gli interni di stucco e nei grandi macchinari teatrali barocchi sono legati al movimento della contro-riforma e, in particolare, all’egemonia del mondo politico e mentale che tentarono di istituire i gesuiti. Come lo stucco è la materia ideale, perché neutra e duttile, attraverso cui procedere alla contraffazione del mondo, così il rigore concettuale e la moderna concezione del potere dei gesuiti puntano a riunificare il mondo disunito in una dottrina omogenea creando dei simulacri efficaci (il simulacro della “macchina dell’organizzazione […], del teatro […], dell’educazione e dell’istruzione, che mira per la prima volta in maniera sistematica a rimodellare una natura ideale del bambino”, Baudrillard 1979: 63).

La riflessione di Perniola dialoga con questi spunti e li sviluppa in modo originale, coinvolgendo una serie molto più ampia di autori e testi sino a costituire un percorso profondo, singolare e fondamentale per comprendere il senso del suo itinerario attraverso gli anni Settanta.

In effetti, le riflessioni sulla teoria delle immagini di Roberto Bellarmino e sulla spiritualità di Ignazio di Loyola sono forse la parte più densa e stimolante dell’intero volume. Qui la prospettiva gesuitico-barocca viene intesa come via alternativa anche rispetto all’ascesi intramondana calvinista e come fonte di un approccio effettuale, realmente contemporaneo alle immagini mass-mediali. L’immagine come simulacro, infatti, si colloca oltre l’iconofilia della società dello spettacolo e l’iconoclastia situazionista:

il giornalismo, la pubblicità, la propaganda politica, i mass-media costituiscono appunto, secondo i moderni iconoclasti, una società dello spettacolo, che deve essere rifiutata in blocco, in nome di una realtà, di un originale che si esprime nella soggettività radicale di chi si ribella alle istituzioni e nell’organizzazione autonoma del proletariato rivoluzionario (Perniola 2011: 77).

Da notare che questo passo fa parte del sesto capitolo, “Icone, visioni, simulacri”, già pubblicato come articolo nel 1978 e citato da Baudrillard nel suo La precessione dei simulacri, sempre del 1978.

Un’uscita dagli anni Settanta

La specificità della posizione di Perniola può essere colta soltanto se la rete di rimandi e differenze teoriche appena delineata viene inserita all’interno di una proposta che è anche profondamente politica. La società dei simulacri non è semplicemente un libro eclettico sulla nozione di simulacri, quanto una sorta di piattaforma teorica orientata, se non a prescrivere, comunque a evocare un preciso modo di agire all’interno di un orizzonte in cui il Settantasette ha seppellito il Sessantotto: “Il movimento studentesco italiano del Sessantasette ha messo in mostra non tanto la marginalità degli studenti, quanto la marginalità della cultura, e paradossalmente innanzitutto e soprattutto l’inutilità della cultura rivoluzionaria, critica, d’avanguardia” (Perniola 2011: 13). Contro la riduzione di tutta la sedicente filosofia a spettacolo e di tutta la sedicente organizzazione della cultura a macchinazione e banda, ci si appella a un nuovo agire culturale che sappia congiungere sapere e potere in modo nuovo.

La società dei simulacri è una società che ha al proprio centro i mass media in quanto vettori di immagini senza originale: “il concetto di simulacro, inteso come costruzione artificiosa priva di un originale trova le condizioni di una piena realizzazione nei mass media contemporanei” (Perniola 2011: 81). Entro tale orizzonte, Perniola evoca una “operazione culturale” non più vincolata al recupero di criteri e valori del passato. Tale operazione troverebbe la sua base sociale e culturale nella lumpen-intelligentsia del tempo. Si tratta di quella generazione che nasce con il Sessantotto ma che è rimasta (in Italia in modo particolare) largamente esclusa dalle cerchie giornalistiche, accademiche e politiche. Questi esclusi avevano tutto per fare quello che in effetti facevano, cioè muoversi contro il Sistema avendo come opzioni-limite sparare e farsi di eroina. È a loro che il discorso di Perniola è rivolto.

La derealizzazione e culturalizzazione della società fanno sì che la cultura illuministica (a partire dal marxismo) sia sostituita dalla cultura del simulacro, azzerando tutte le istituzioni culturali classiche. Gli operatori culturali all’altezza di questa condizione non sono chiamati a essere la coscienza critica intellettuale della nuova fase: “se gli intellettuali, nelle tre forme di giornalisti, professori e politici, sono stati i protagonisti della civiltà aperta dall’Illuminismo, gli operatori culturali sembrano diventare i protagonisti della civiltà del simulacro” (Perniola 2011: 39). Tutta la cultura, tutta la società va restituita nel suo essere copia di copia, e gli operatori culturali sono pensati come spazi di transito delle copie di copie, appunto come “ostetrici dei simulacri” – simulacri che sono già dati, in TV e nell’incipiente spazio digitale, ma vanno rilanciati e lasciati liberi di portare avanti l’opera di implosione del vecchio ordine. Una sorta di invito alla diserzione dall’esercito regolare del Sistema culturale ma anche da ogni avanguardia radicale, inevitabilmente fondata su un conflitto sociale immaginario e invecchiato.

Questo è un punto essenziale per comprendere il senso della posizione di Perniola, sia rispetto a quanto era stato detto anche da lui stesso, sia rispetto alle opzioni di quel particolare momento storico.

Anzitutto, Perniola reputa superate le diagnosi e le strategie proposte dai situazionisti, la versione di critica radicale della società cui Perniola era stato più vicino. Assumere quella prospettiva alla fine degli anni Settanta significherebbe restare ingabbiati entro l’opposizione potere/contro-potere, cioè votarsi al marginalismo. La società dei simulacri viene dopo la società dello spettacolo, riconosciuta come estremo tentativo di opporre alle “copie” spettacolari la “cosa stessa” proletaria. Gli anni Settanta italiani sono per Perniola il periodo in cui questa forma di conflitto sociale esplode ma allo stesso tempo si cristallizza e si estenua, lasciando crescere un resto che teorie, istituzioni e partiti (a partire dal PCI di Tronti e Cacciari) non riescono ad assorbire.

Come alcune opere successive renderanno ancora più evidente (il riferimento è soprattutto a Perniola 2009), il ragionamento di Perniola si articola “per differenza” rispetto a quella che viene riconosciuta come la tendenza dominante in pensatori e movimenti degli anni Settanta, cioè la tendenza alla distruzione di ogni mediazione culturale in forza della superiore verità della “vita” o della “natura”. Questa tendenza sarà etichettata più tardi come “estetica del sublime”, risultando caratterizzata da una ricerca di annullamento del soggetto in un qualche indistinto, sia esso estatico o biologico. Essa troverà esemplificazione anche in autori che condivisero il medesimo milieu del Perniola “movimentista” (e para-marxista) di qualche anno prima – dalla rivista Ludd (1969) alla sua esplosione in percorsi e iniziative a cavallo tra Sessanta e Settanta.

Per esempio, Giorgio Cesarano verrà riconosciuto come pensatore del “sublime rivoluzionario”, in cui la drammatizzazione del conflitto tra vita e capitale porta a vedere in quest’ultimo la fonte di quella “maschera necessaria” che rende la vita inautentica e invivibile (Perniola 2009: 54). Nella stessa categoria, ma in una specie diversa, viene collocato Elvio Fachinelli, fondatore e direttore della rivista L’erba voglio (1971-1977), in cui lo stesso Perniola pubblicò alcuni articoli: Fachinelli individua la variante del “sublime estatico”, segnata dall’attrazione per il baratro che precipita il soggetto in un vuoto primordiale (cfr. Perniola 2009: 56).

Il “naturalismo” contro cui ragiona Perniola, invece, non va confuso con la sensibilità ecologica che si cominciava proprio allora a diffondere anche in Italia e che avrà in un altro rappresentante di quel mondo, Pier Paolo Poggio, una figura periferica ma significativa: ciò che Perniola attacca è la natura come immaginario di annegamento del conflitto, successivamente individuato in alcune varianti apocalittiche della deep ecology. Quello che Perniola ha in mente non è l’ecologia in sé, essendo questa ancora un pensiero della natura e dei suoi limiti (e semmai, in Poggio, pensiero della Tecnica come mito estatico di soluzione armonica di ogni conflitto; cfr. Poggio 2003). Perniola si oppone all’idea di Natura come promessa di assorbimento dei conflitti della civiltà o come “cartolina ruralista” da opporre alla degradazione urbana. Non è quindi casuale che la collaborazione con Poggio sia proseguita anche negli anni Ottanta, fino all’ideazione di un convegno, nel 1985, sul più simulacrale dei regimi politici del Novecento, la Repubblica Sociale Italiana – uno Stato ridotto a somma di retorica e violenza.

Il percorso di Perniola attraverso gli anni Settanta, quindi, ha come punto fermo il rigetto di quella tendenza vitalista, volta a distruggere ogni mediazione culturale, che ebbe proprio nel Settantasette una sorta di culmine catastrofico. In quel movimento, infatti, Perniola vede all’opera, oltre alla sana rivolta contro saperi e poteri ormai fuori dal tempo, una forza tesa alla distruzione di qualsiasi mediazione teorica e istituzionale. In questo senso, il Settantasette costituisce una sorta di corrispettivo sociale e politico di quelle diverse tendenze teoriche riconducibili alla modalità del sublime.

Perniola pare porsi come suggeritore di una conversione di massa della marginalità ribellistica, iconoclasta e auto-distruttiva, che aveva avuto le sue giornate di fragole e sangue a Bologna nel 1977. L’indicazione che pare di poter evincere è piuttosto chiara: il potere è violento ma ineffettuale, l’università è in agonia, il giornalismo affonda… Non cercate di portare la vostra ideologia marginale in centri di potere declinanti: semmai, esercitate il potere dei simulacri. Non fatevi martiri neo-proletari, restate indifferenti allo spettacolo della violenza, non coltivate la virtù autistica della radicalità – fatevi eminenze grigie.

La proposta di Perniola, quindi, va letta soprattutto in rapporto alle opzioni vive nei movimenti del tempo. Quello che Perniola delinea è una sorta di mandarinato post-culturale, costituito da esseri rigorosi, sobri, fattisi estranei a se stessi e per questo vettori di una ricchezza sociale e culturale non più mediata dalle vecchie forme istituzionali: il compito degli operatori culturali, configurato come una illimitata obbedienza alla società e alla storia (cfr. Perniola 2011: 39), fa di loro dei vettori relativamente passivi dei simulacri. Proprio la tradizione gesuitica, prima esaminata, costituisce uno dei modelli di questa pratica politico-culturale effettuale, accanto a quella dei funzionari-letterati cinesi, richiamata in opere successive. E se Bataille fu al centro della riflessione di Perniola soprattutto verso la metà degli anni Settanta (cfr. Perniola 1977), quella che agisce qui non è certo la logica della negatività eccessiva, che risulta anch’essa condannata a un destino di marginalità (cfr. Perniola 2011: 18) – Bataille quindi non come figura dell’abisso, ma semmai del suo periplo: vi è negli operatori culturali cui fa riferimento Perniola una tonalità neutra, operativa, letteralmente opposta rispetto all’esperienza ingenua dell’eccesso da nipotini neri di Bataille, ma anche rispetto a tutte le forme di militanza collegate alle riflessioni radicali del tempo.

Con il senno di poi

Nel luglio del 1980 viene approvato il DPR 382/1980 sul riordinamento della docenza universitaria, più noto come “ope legis”, con cui si decretava la fine del precariato universitario, stabilizzando la posizione lavorativa di migliaia e migliaia di lumpen-intellettuali. Come si ricorderà, era proprio questa la base sociale cui si rivolgeva neanche tanto indirettamente Perniola: il suggerimento di farsi ostetrici del simulacro ha avuto appena il tempo di essere formulato che già una fetta non secondaria dei suoi destinatari si trova sistemata in nome di superiori esigenze di ordine sociale.

Su questo Perniola, quindi, il tribunale della storia pare essersi pronunciato in modo chiaro: assolto per insufficienza di effetti. E dove non arrivarono le capacità di recupero del Sistema arrivarono le mode culturali degli anni Ottanta, caratterizzate da attori e tonalità in presa diretta con i ritmi e le forme della società dei consumi.

È allora da chiedersi, in conclusione: l’operazione culturale cui si appella Perniola ha avuto mai un corrispettivo reale? La sua società dei simulacri è da leggere come una fiction colta, enigmatica ma di carta, riducibile a variante poco frequentata del postmodernismo anni Ottanta?

L’apparente ineffettualità sul piano storico e teorico dell’operazione culturale evocata da Perniola ha (almeno) una eccezione: Perniola stesso. Nel 1982 Perniola lascia Cappelli, editore bolognese di certo Baudrillard e di La società dei simulacri, per pubblicare con Feltrinelli un libro che ne costituisce una sorta di sviluppo-radicalizzazione: Dopo Heidegger. Filosofia e organizzazione della cultura. Con questa mossa, in qualche modo i giochi sono fatti: Perniola lascia i margini per installarsi stabilmente al centro del campo intellettuale italiano, mantenendo (questo è il punto) il proprio status di outsider. L’appello a farsi “ostetrici del simulacro” ha quindi avuto effetto almeno su chi l’ha formulato, che mollando ogni radicalità minoritaria si muoverà verso altre sperimentazioni, indubbiamente originali, mai mainstream ma lette (anche all’estero, cosa non comune per i filosofi italiani). Sarà questo il Perniola più noto, per il quale gli anni Settanta (anche i suoi anni Settanta) saranno una sorta di tragicommedia da cui sarà sempre ancora necessario uscire.

Resta che al volgere degli anni Ottanta, da molti punti di vista i giochi sono fatti: sono fatti a livello di società italiana (ma non solo), sono fatti a livello teorico per Perniola, perché il quadro essenziale del suo pensiero non subirà vere svolte, semmai costanti arricchimenti (soprattutto Luc Boltanski e Peter Sloterdijk) e occasioni per ripensare e precisare la cornice di legittimazione complessiva della propria azione (Pierre Bourdieu).

Da questo punto in avanti si rende ancora più sensibile un fatto caratteristico: l’opera di Perniola si caratterizza, forse ancor più che per continuità stilistiche o tematiche, per il ricorrere di una serie di elementi che orientano la proposta teorica, collocandola all’interno di una idea più complessiva di cultura e di azione intellettuale.

La prima di queste coordinate meta-teoriche è la riflessività: si tratta di un atteggiamento che trova già nel metaromanzo, oggetto del primo libro (1966), una sorta di laboratorio teorico, poi aggiornato e radicalizzato attraversando l’opera di Bataille e Klossowski. Il gioco di (impossibile) trasparenza e punti-ciechi del romanzo che si pensa e si mostra nel suo farsi viene così allargato alla riflessione sulle condizioni materiali in cui la pratica intellettuale e i suoi prodotti sono inseriti. L’originaria modalità riflessiva del metaromanzo viene sviluppata nel senso di una progressiva consapevolezza della realtà extra-intellettuale, come se nelle opere di Perniola l’ostilità del contesto fosse anticipata e simulata, in modo tale da preparare l’opera stessa ai “traumi della comunicazione”.

Un secondo tratto caratteristico, insieme sviluppo e correzione del precedente, è il rapporto con il contesto socio-politico. L’opera di Perniola non è mai accademica nel senso di impermeabile a passioni e interessi – semmai vale il contrario, quella che viene assunta è l’impossibilità di una separazione tra prestazione intellettuale e relativi “contesti”, siano essi pensati come rapporti di classe (questo fino a un certo punto degli anni Settanta) o come “campi” attraversati dai corrispondenti conflitti di potere e di riconoscimento (sarà questo l’apporto di Bourdieu, a partire da un certo punto degli anni Novanta). In questo senso, l’opera di Perniola va inquadrata entro una legittimazione delle ragioni della pratica intellettuale, se non della propria stessa esistenza sociale in quanto pensatore, in un contesto – quello della società della comunicazione – tutt’altro che amichevole verso le ragioni intellettuali e verso gli intellettuali stessi.

Questa auto-educazione alla lotta ha nelle avanguardie, movimento situazionista compreso, un grande modello più negativo che positivo. All’adesione per il superamento di accademismo e dell’idea stessa di arte fa da contraltare il rigetto dell’ansia apocalittica che era già in La società dei simulacri oggetto costante di critica e diventerà, sul tardi, motivo delle “storiette” (Perniola 2016). Per questa strada, infatti, la critica all’arte alienata dell’ultima delle avanguardie si dimostra un movimento auto-distruttivo e diversamente alienato, la critica alla merce finisce con l’annientarsi e così via, di vicolo cieco in vicolo cieco. Questa dialettica distruttiva era già stata colta da Perniola in presa diretta con l’ascesa e la caduta del movimento situazionista. Bologna 1977, come abbiamo visto, ne sarà una sorta di verifica hardcore, rianimata anni dopo dalla trash art e da simili tendenze dell’arte contemporanea.

La reazione costante di Perniola davanti a queste esperienze catastrofiche ha il segno di un partito preso anti-apocalittico: questo terzo tratto si sviluppa nel senso di un invito alla valorizzazione e alla difesa delle mediazioni, delle forme, delle cornici istituzionali intese come condizioni di possibilità reali delle pratiche culturali. In effetti, il vero nemico del pensiero di Perniola durante e dopo La società dei simulacri è proprio il collasso delle mediazioni, variamente esercitato da situazionisti, Bataille e lo stesso Baudrillard (“le sue considerazioni appartengono a quella retorica del sublime catastrofico”; Perniola 2004: 93). Perniola, invece, è stato sempre anche uomo istituzionale e sarà sempre di più pensatore della mediazione sovra-individuale, fino alla rivista Ágalma (sua ma non solo sua, come dimostrato dalla coerente sopravvivenza della stessa dopo la morte del suo fondatore).

Il quarto e ultimo asse meta-teorico dell’opera di Perniola è costituito dalla predisposizione programmatica all’ammirazione, al riconoscimento della grandezza altrui. Questa apertura assume la forma di vena sperimentale, attraversata dall’incontro con forme di pensiero e istituzioni culturali altre, tra tropici, Giappone e Nemi.

Anche di questo, forse soprattutto di questo, la rivista Ágalma è insieme prova ed eredità, ben oltre gli anni Settanta.

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