Roberto Terrosi – Gyaru Power. Un confronto tra l’immagine dell’adolescente seducente in Giappone e in Occidente


La figura della ragazza adolescente ha assunto nell’immaginario contemporaneo giapponese un ruolo di primissimo piano. Essa è divenuta la protagonista della cultura visuale giapponese dai livelli considerati più alti, come l’arte contemporanea, a quelli considerati più bassi, come l’industria del sesso, passando per i mass-media: pubblicità, intrattenimento televisivo, manga, anime e fiction.
La prima cosa da notare è che però questa immagine non è univoca. Non esiste cioè un modello unico a cui conformarsi. L’industria culturale ha dato vita a una galassia di situazioni che però si addensano intorno a due polarità: da una parte una ragazza truccata, dai vestiti fantasiosi e spesso sgargianti, che oggi si concentra nella figura della cosiddetta gyaru e dall’altra, all’opposto, una ragazza acqua e sapone, in divisa, e cioè la liceale nell’uniforme della scuola (jogakusei).

I due modelli sono entrambi di derivazione occidentale. La divisa scolastica è stata introdotta con l’opera di modernizzazione intrapresa in seguito alla restaurazione Meiji (1). Diversamente la figura della gyaru è più recente e più dipendente dall’influsso dell’industria culturale americana. Non a caso la parola gyaru è la nipponizzazione attraverso il sillabario katakana della parola girl, sebbene il termine “ragazza” in giapponese venga reso con “musume”, ragion per cui “gyaru” indica una ragazza di un certo tipo, con un certo look e un particolare atteggiamento. In apparenza la gyarusembrerebbe più sessualmente provocante della scolara, essendo più scoperta, più disinvolta, più truccata, pur con tutte le gradazioni che vanno dal trash allo chic; ma a ben considerare le produzioni visuali, che vanno dall’arte contemporanea al fumetto, ci si rende conto che il vero sex symbol della cultura giapponese è invece la liceale in divisa, anche in questo caso con varie gradazioni, che vanno dalla scolaretta totalmente timida, remissiva e insicura a quella più smaliziata e curata.

Nel corso di questo articolo cercheremo di rintracciare i motivi di un’iconologia di questa duplice imago dell’adolescente giapponese, non solo per quel che riguarda i suoi risvolti relativi all’arte contemporanea, ma anche in relazione alla costituzione di quella che potremmo chiamare un’icona pop. Ci serviremo quindi di una serie di comparazioni storiche e geografiche con il Giappone tradizionale e con la cultura occidentale al fine di far risaltare lo “stile culturale” di questa coppia di figure, ma anche le tensioni in termini di potere e di conflitti latenti tra sessi che vi sono collegati.
L’oggetto quindi del nostro studio è una figura culturale, che contrariamente alla prassi degli studi iconologici, non deve riguardare solo gli elementi rappresentativi presenti all’interno delle opere d’arte, ma che, allo stesso tempo, contrariamente agli studi sociologici, non si concentra sulle caratteristiche degli attori sociali ma sulle figure, come entità pertinenti al piano del sapere e all’ordine impersonale della rappresentazione collettiva.

Quindi non si richiedono in questo caso indagini statistiche sui comportamenti effettivi delle adolescenti giapponesi. Il problema non è come loro siano effettivamente, ma come vengono rappresentate nella sfera delle rappresentazioni condivise. Si prenda l’esempio dello studio del tema del serpente effettuato da Warburg (1988). Poco importa sapere cosa pensa veramente un serpente per capirne il suo uso a livello di rappresentazione sociale. Né serve avere precise cognizioni biologiche o etologiche sui serpenti per capirne l’iconografia. Le notizie sufficienti sono molto poche e prescindono dall’osservazione scientifica. Basta sapere che il serpente può essere velenoso, che muta di pelle e si annida sotto terra per avere già un quadro degli sviluppi possibili delle simbologie ad esso connesse.
In alcuni casi una conoscenza scientifica degli oggetti può essere addirittura dannosa al fine della loro comprensione come simboli. Alcune simbologie riguardanti gli animali traggono spunto da convinzioni popolari su di essi che poi la scienza ha scoperto essere inesatte. La differenza tra i serpenti e le adolescenti sta però nel fatto che, contrariamente ai serpenti, queste ultime possono interagire con le rappresentazioni che si danno di esse, emulandole e quindi rafforzandole, o al contrario discostandosene e indebolendole. Infatti il serpente è solo l’oggetto di una rappresentazione, ma non può esserne né l’artefice, né il pubblico. Diversamente l’adolescente può essere entrambe le cose. Resta chiaro però che le adolescenti, in quanto attori sociali, non ci interessano come oggetto in se stesso, ma solo come agenti che entrano in sinergia con altri fattori nel determinare la fisionomia di una figura culturale. Detto questo veniamo alla descrizione di tale figura.

 

La figura

La costruzione della doppia immagine dell’adolescente giapponese è un intreccio di attributi comuni e di attributi dissociativi o complementari. Il primo attributo comune è la giovinezza, sebbene anche qui si debbano fare delle distinzioni. Infatti la liceale tanto più è giovane e meglio è, mentre per la gyaru, pur sempre all’interno dell’adolescenza, vale il discorso opposto e cioè è meglio che sia già un po’ grandicella.
Il secondo attributo comune è quello del vestire. Entrambe sono abbastanza scoperte. Entrambe vengono ritratte con gonne molto corte, anche se le gyaru spesso aggiungono a questo anche altre nudità come la scollatura o la pancia scoperta. Diversamente la liceale non viene mai rappresentata scoperta più di tanto tranne nelle situazioni erotiche.

Una situazione bilanciata tra componente comune e complementare riguarda ancora il vestire. Entrambe vestono in un modo fuori dell’ordinario, ma lo fanno in due direzioni opposte. Infatti le gyaru usano vestiti dai colori sgargianti, con molti ninnoli bizzarri per differenziarsi, giungendo al limite del travestimento carnevalesco; mentre la scolara tanto più annulla ogni differenza stilistica in un’anonima divisa, che la rende “uniforme”, e meglio è.
Un’altra situazione mista riguarda la comune provenienza da modelli occidentali già accennata, sebbene l’immagine della gyaru insista più sull’innovazione e la sperimentazione e quella della liceale venga congelata nella sua uniforme a-storica.
Venendo invece agli attributi solamente complementari troviamo una serie di aspetti relativi all’ethos. Tanto più la gyaru tende ad essere rappresentata come una ragazza sicura di sé e tanto più la scolara tende ad essere invece presentata, specie nelle situazioni erotiche, come una figura impacciata, passiva, insicura e indifesa.

Tanto più la gyaru viene dipinta come una ragazza autonoma, attiva, disinibita e protagonista anche nelle scelte più discutibili e tanto più le liceali vengono presentate come passive, dipendenti, incapaci di sottrarsi alla loro sorte, e per questo spesso soggette ad atti di violenza carnale. Come si vede anche gli attributi comuni contengono al loro interno una componente dissociativa e complementare. Ciò sta a significare che questi attributi comuni hanno la funzione di incorniciare e delimitare la dimensione all’interno della quale si divaricano le differenze. Tali differenze non devono essere necessariamente dovute alla presenza di due fasce di ragazze diverse, ma semplicemente alla presenza di due modelli o stereotipi, anche perché questi due personaggi (la gyaru e la scolara) possono convivere nella stessa persona che si veste la mattina in un modo e il pomeriggio in un altro.

 

Il confronto con l’Occidente

L’Occidente, pur avendo inventato le divise scolastiche, non ha mai fatto di esse né un tema di particolare interesse sociale né un sex symbol. È curioso notare come in Occidente le divise nascano in campo militare per distinguere i soldati dei vari eserciti. In ambito militare questo uso era stato preceduto dall’adozione degli stemmi sulle armature,  in quello religioso dagli abiti che i vari ordini usavano per distinguersi fin dal medioevo. Inoltre il fatto di differenziare alcune cariche pubbliche o religiose attraverso alcuni paramenti affonda le sue radici fin nella più remota antichità. Ciò che era assente anche negli eserciti antichi è l’idea di uniformare le masse dei soldati attraverso l’uso di una divisa identica, che facesse scomparire l’identità dei singoli individui. Questa prassi giunge a maturazione nel XVII secolo dopodichè è grazie alla settorializzazione biopolitica della società che le divise entrano nella società civile per distinguere le mansioni, tendendo a sigillare un processo di tipizzazione dei ruoli che era già in corso precedentemente.

Con la modernità però tale operazione assume il senso di un’irregimentazione della società e di una sua messa a profitto su base razionale, secondo le modalità di quella tendenza alla classificazione che ossessiona il processo di ordinamento operato dalla società borghese. A queste divise però non era stato conferito un valore estetico di tipo erotico, ma casomai un valore estetico in misura della rispettabilità e del grado assunto nella gerarchia sociale indicato dalla divisa. Le studentesse quindi, essendo ai gradi bassi della gerarchia, cominciavano casomai a diventare attraenti nel momento in cui si toglievano la divisa, che ne umiliava la bellezza e la singolarità, e potevano indossare ad esempio i pomposi abiti per le feste da ballo. Quindi l’immaginario occidentale ha soprattutto trascurato la bellezza e l’erotismo della divisa scolastica per le donne come per gli uomini. Il modello di bellezza adolescenziale prodotto nell’Occidente moderno è invece quello della Lolita e cioè una ragazza in grado di stuzzicare e sedurre gli uomini maturi con la sua inaspettata maliziosità. Essa viene da subito immaginata come una pericolosa distruttrice, in quanto pone lo spauracchio dell’inversione dei rapporti di potere.

Nel romanzo di Nabokov una ragazzina apparentemente ingenua finisce facilmente col soggiogare, a causa della sua bellezza, un uomo molto più colto e scaltro di lei, ma molto più vulnerabile sotto il profilo dei rapporti di forza. Nell’industria cinematografica americana, dopo la Lolita di Kubrick, una serie di minorenni pericolose hanno invaso la scena, con storie in cui le si vedeva distruggere famiglie, uccidere persone, ecc. Questo non significa automaticamente che le teenager americane siano intente a sedurre il padre della loro amica o intromettersi invadentemente negli affari privati di persone di mezza età. Ciò significa solo che è stato costruito un personaggio di demone tentatrice sulle rischiosissime attrazioni che queste ragazze possono suscitare. Sfruttando questo stereotipo l’industria culturale americana ha sviluppato un modello di adolescente maliziosa, seducente  e allo stesso tempo aggressiva, capricciosa e pretenziosa. Lo sviluppo di tale modello oggi è proposto, non tanto nel cinema, quanto nel mondo della musica ed è proprio da queste cantanti abbronzatissime, truccatissime e iper-cosmetizzate, che prende avvio il discorso della gyaruche però viene anche rielaborato in funzione delle aspettative della società giapponese.
La storia dell’iconografia (gioventù/età adulta = nudità/vestito)

L’Europa

Il primo elemento di questa cornice comune sta nel porre l’età dell’adolescenza come momento privilegiato della bellezza femminile. Questo oggi può apparire un fatto quasi ovvio, ma non è stato sempre e ovunque così. Se guardiamo un film occidentale degli anni Quaranta troviamo ancora tutti divi adulti (Nazzari, Gabin, Bogart, Sinatra) che cercano delle vere donne e non se la intendono con delle semplici ragazzine. Sinatra in un film addirittura rifiuta una donna perché è ancora troppo giovane. Le vere donne vanno dalla Dietrich alla Deneuve. Dopodichè ci sono sempre più dive-giovani o che fanno la parte delle giovani. Lo stesso dicasi per l’estetica del femminile ancora presente in molte società, anche dell’Estremo Oriente, come quella cinese, nella cui cinematografia troviamo ancora ammalianti donne adulte o comunque non più adolescenti.

Per trovare la supremazia della figura dell’adolescente in Occidente occorre tornare all’Europa premoderna. Infatti a partire dalla Grecia arcaica viene formulato un modello di bellezza adolescenziale sia per le donne che per gli uomini. Tutte le statue di soggetto femminile dell’antica Grecia raffigurano quelle che oggi chiameremmo adolescenti a partire dalle koraiarcaiche fino a giungere alle più morbide bellezze ellenistiche. Occorre ricordare però che nell’antica Grecia quelle ragazze potevano essere considerate donne da marito (ragazze che andavano dai 15 ai 19 anni). Lo stesso si può dire per la bellezza efebica maschile su cui fiorisce tutta la letteratura greca a sfondo omosessuale (i cui soggetti hanno dai 12 ai 17 anni circa). Ma ancora più interessante è la formazione nel mito greco di due modelli opposti di ragazza adolescente che anticipa e forse condiziona lo sviluppo della problematica occidentale a tale riguardo. Infatti troviamo due archetipi: uno è costituito dalla figura di Proserpina, la figlia di Demetra, rapita da Ade per farne la sua sposa, mentre era intenta a raccogliere fiori; l’altro è rappresentato invece dalla figura della Ninfa, destinata ad avere una larga fortuna nella cultura classicista e oggetto per questo di studio da parte di Warburg.

Nel primo caso Proserpina è descritta in funzione della madre Demetra (2), come una fanciulla, che però non è più tale per Ade che invece la vuole come moglie. Nel secondo caso la Ninfa è una creatura silvestre, una divinità delle fonti il cui destino è di essere fatta oggetto di attenzioni carnali più o meno violente da parte di satiri e altre entità maschili del mondo sovrannaturale arcadico. Torneremo in seguito su questo schema. Tale immagine di bellezza giovanile prosegue nel medioevo, sebbene arricchita da una serie di attributi relativi alla cortesia e allo stile del comportamento. La donna angelicata stilnovista è un tipo di presenza che riguarda ancora ragazze al di sotto dei vent’anni, ma a condizione di una loro particolare grazia, dovuta a un’accurata educazione. Ci allontaniamo in questo modo dalla bellezza naturale e incolta della Ninfa, per incamminarci verso un tipo di bellezza sempre più marcatamente culturale.

La svolta a favore del predominio dell’aspetto culturale su quello naturale si compie con la cultura della cortigianeria nel Rinascimento. Tra il XVI e il XVIII secolo si afferma così un nuovo modello di bellezza femminile basato sulla figura di una donna aristocraticamente ricca ed educata, che si afferma per le sue vesti, i suoi modi e il suo eloquio. Il corpo idillicamente nudo della ninfa e dunque della ragazza, lungi dal rappresentare un modello, è considerato un corpo povero e sciatto, la cui bellezza giovanile viene pensata come “bellezza dell’asino”. La bellezza femminile così si emancipa dall’ordine dei meri istinti, ragion per cui ai rapimenti e alle violenze carnali del mito classico della ninfa, subentrano ora sempre più complicati “corteggiamenti”.
Il Giappone

Un passaggio simile avviene nella società giapponese. La cultura arcaica e contadina era abituata al corpo nudo, esibito con indifferenza nelle vasche termali (onsen) usate sia da uomini che da donne, la cui frequentazione mista è stata ostacolata solo dopo l’apertura dell’imperatore Meiji all’Occidente per evitare di essere giudicati immorali dagli occidentali. Allo stesso modo le lavoratrici (contadine e pescatrici) non esitavano a stare a seno scoperto nei momenti di afa, o per dover entrare in mare a pescare.

La nudità quindi non era di per sé preziosa e non aveva un particolare appeal, era solo la giovinezza ad essere importante. Con il periodo Heian (794-1185), ci si istrada, come nel nostro Trecento, su una cammino di carattere marcatamente più “cortese” in cui i personaggi però sono ancora giovanissimi. Riguardo alla giovinezza si pensi che lo stereotipo del volto femminile di età Heian, tramandatoci da disegni e maschere, è un viso estremamente paffuto (come quello dei putti rinascimentali) e bozzettistico (stando alle ciglia estremamente alte) che tende a suggerire l’immagine stilizzata di una bambina. Tale giovinezza era però già inserita in un codice di comportamenti raffinati e già alle prese, più che nell’Italia trecentesca, con una cultura del vestire e del nascondimento. Così in epoca Heian, la bellezza giovanile finisce col perdere ogni naturalità, essendo relegata solo ai lunghissimi capelli lasciati sciolti. E ciò è indicato dal fatto che essa si copre quasi completamente, si rade le ciglia e per disegnarsene di finte più in alto al fine di adeguarsi allo stereotipo e si nasconde dietro a imposte e paraventi, tanto che vari sono i racconti di scambi di persona in cui incorrono gli spasimanti a causa del fatto che potevano solo intravedere le loro amate. Inoltre la giovane dama Heian deve avere un comportamento formale, quasi fosse una bambola di cera o una marionetta, in linea con la rigida ritualità del teatro Nō che si afferma di lì a poco, all’inizio dell’epoca Muromachi (1336-1573).

Da questo modello infantile si finisce col passare a una figura più moderna e più matura tramite il modello della geisha e in generale della donna del periodo Edo (1600-1868), rappresentata nel genere dei bijinga (lett. “le immagini delle belle donne”) nell’ambito delle famose stampe ukiyo-e(lett. “immagini del mondo fluttuante”). Queste “belle donne” hanno, infatti, un viso allungato e un naso leggermente e nobilmente aquilino. Tali caratteristiche non concordano affatto con i tipici stilemi precedentemente usati anche in Giappone per esprimere la fanciullezza, indicando senza possibilità di dubbio una donna ormai adulta. La figura della geisha (3), che nasce proprio in questo periodo, ha per definizione più di venti anni. Prima dei venti anni le apprendiste geisha sono chiamate maiko. La maikoha tutta una serie di attributi che la rende riconoscibile a prima vista come tale: non indossa la parrucca, ha il kimono più colorato e l’obi più allungato. La maiko sta alla geisha come la ragazza sta alla donna sposata. In un certo senso quindi la geisha è una donna sposata alla cortigianeria. Dunque la geisha è per definizione una donna adulta, che potrebbe altrimenti essere già moglie o madre di famiglia. La sua bellezza allora non sta nel suo corpo giovanile, anche perché il corpo non si vede. La geisha è completamente abbigliata, anche nel volto attraverso uno strato bianco che le copre sia il viso che il collo (a eccezione di una piccola parte). I capelli sono coperti da una parrucca. Anche i denti in passato venivano coperti da una tinta nera (il che accomunava le geisha alle donne sposate della nobiltà). Nel suo periodo di apprendistato come maiko ella impara a controllare ogni movimento e ogni comportamento in modo da sembrare naturale nella sua totale innaturalezza.

Anche in questo caso il fenomeno può essere associato al teatro, all’idea di maschera e di personaggio (non a caso maiko significa “danzatrice” e geisha significa “artista”). La cortigiana e la geisha sono dei personaggi che rappresentano astrattamente il massimo della desiderabilità e, come nel teatro, gli attori reali devono solo impersonare il personaggio nel modo migliore possibile.
La sontuosità delle vesti e la vistosità dei trucchi offrono inoltre una bellezza e un erotismo completamente vestito che si oppone alla nudità della bellezza arcaica e folclorica. Tutto ciò è indice di un preciso passaggio culturale in cui, sia in Italia che in Giappone, le regole della cortigianeria si sono evolute sempre più fino ad avere la meglio sulla semplice giovinezza, che prima viene stilizzata e poi accantonata. Questo significa che lo sviluppo della struttura culturale di questi due paesi ha creato un sistema di regole così sofisticato in cui la bellezza culturale ha prevalso completamente su quella naturale. Tale bellezza culturale si pone in entrambi i casi tra l’altro come bellezza teatrale. In Italia troviamo la corrispondenza con la Commedia dell’Arte e in Giappone, dopo il rigido teatro , troviamo il più elastico teatro Kabuki che, come il teatro moderno occidentale, è ormai svincolato dal rito e parte proprio dalla considerazione e dalla constatazione di una dimensione artificiale della vita, basata sul gioco delle regole della cultura, in cui i personaggi (in quanto complesse macchine di ruoli) hanno preso il posto della “nuda vita”. Il prevalere della veste sulla carne indica proprio questa supremazia della cultura sulla natura, e la possibilità di poter disegnare artificialmente la bellezza, anche sensuale, sia nelle apparenze che nelle movenze. Alla presenza di un fondo di una “nuda vita” fa riferimento invece la “nudità del corpo” e la “nudità” dell’istinto sessuale che si manifesta nella sua ferina impulsività (attraverso il rapimento o la violenza carnale). Diversamente, nel paradigma teatrale la monotonia del corpo è sostituita da coloratissime vesti e l’automatismo dell’istinto sessuale è sostituito da complicate trame di seduzione, e alla fine anche l’istintività dell’atto sessuale è sostituito da un’ars amatoria, diffusa attraverso gli shunga in Giappone e attraverso libretti erotici e pornografici in Occidente, come i Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino illustrati da Giulio Romano.
Il ritorno alla giovinezza

Questa immagine declina in Occidente con il passaggio alla modernità, in cui si consuma la crisi della supremazia della cultura aristocratica, incentrata sul fasto, sul decoro e sull’ornamento, e si dà spazio a una dimensione forse ipocritamente naif. L’accento dei pre-romantici e dei romantici torna sugli immaturi e ingenui amori dei giovani, nella ricerca di una palingenesi sociale, di una ritrovata purezza attraverso l’esasperato sentimentalismo adolescenziale, illustrato in opere come i Dolori del giovane Werther. Questa gioventù però è ancora compressa dentro le norme e il moralismo di una società adulta contro cui i giovani stessi, con il loro carico di idealismo, cominciano a premere. Si innesca così un processo di ribellione e trasgressione che dal romanticismo giunge fino a movimenti di contestazione degli anni Settanta e che portano allo smantellamento di tutto il sistema culturale aristocratico. La stessa bellezza vestita crolla più velocemente nel momento in cui la nudità viene additata come peccaminosa. Spogliarsi, dare più spazio al nudo nel vestire allora diviene un’emancipazione e un progresso dei costumi fino al topless delle spiagge europee anni Ottanta. Ritorna così il protagonismo dei giovani e della bellezza nuda dei corpi. Ma questo giovanilismo europeo sceglie come modello i vent’anni, non l’adolescenza. Paradossalmente l’interesse per un’estetica erotica dell’adolescenza si trova in un pittore “anacronista”, “anti-moderno” e vagamente “neo-aristocratico” come Balthus, assolutamente distante dalle retoriche della liberazione sessuale.
Rotondità europea e piattezza giapponese

Anche qui però assistiamo a delle differenze tra Occidente e Giappone. Il ritorno al corpo giovane in Occidente è caratterizzato dalla valorizzazione di forme eccessive sul modello di una bellezza che esaspera i tratti distintivi della donna rispetto all’uomo, fino a farne quasi una caricatura. Nasce così il modello mass-cult della maggiorata fisica che ha un grande successo sia in Italia che negli USA, e che non ha precedenti se non nella cultura induista. Infatti nelle concezioni contadine e arcaiche le forme troppo sviluppate sono interpretate spesso come un primo sintomo di senescenza. Il successo popolare delle maggiorate è dovuto alla possibilità, grazie a diete e cosmesi, di far coesistere la bellezza materna associata ai seni prosperosi con il mantenimento della prestanza fisica del resto del corpo.

Un’altra spiegazione meno psicanalitica e più estetica di questo fenomeno sta nello sviluppo, nel corso della storia del gusto occidentale, di parametri che esaltano la consistenza tridimensionale e materiale dei corpi e che si lega alla tendenza al realismo, che ispira tutto il corso dell’arte occidentale, fino alla fotografia. In questo senso un particolare significato assume la considerazione che invece in Oriente si porta all’estremo una concezione opposta basata sulla piattezza, che suggerisce quasi l’esistenza di una correlazione con alcuni tratti somatici (piattezza del naso, degli occhi, dei seni, del sedere, in molti casi la maggiore frontalità dell’intero viso) a cui va aggiunta la piattezza e uniformità nei comportamenti, la diplomatica “superficialità” (non in senso spregiativo) del carattere del giapponese medio, e la piattezza proposta nella storia dell’estetica giapponese in vari ambiti che vanno dalle scenografie teatrali kabuki del periodo Edo al recente Super-flat dell’arte neo-pop di Takashi Murakami.
Questa estetica della piattezza è quella che contraddistingue anche i bijinga dell’ ukiyo-e disegnate ad esempio da Utamaro e da molti altri. In queste immagini il volto della donna è standard, come una maschera. Ci sono delle stampe di Hokusai in cui vi sono disegnate numerose donne che hanno tutte lo stesso viso e spesso la stessa angolatura (come se fossero fatte con il taglia-e-incolla). Nelle illustrazioni erotiche si intravedono delle parti di nudo, sebbene sempre in mezzo a sontuose vesti. Potremmo dire che queste parti di nudo essendo altamente vaghe e indeterminate, si presentano come degli spazi bianchi tra i panneggi. Il loro erotismo sta allora in questa punteggiatura di spazi, in una apertura su qualcosa che però non è descritto.

Questa indeterminazione del corpo femminile non esiste solo in Giappone ma in tutto l’Estremo Oriente e in particolare in Cina. L’estetica cinese privilegia secondo François Julien (1999, 2004) tutte le forme vaghe e indeterminate in quanto aprono su una vasta mole di possibilità. In un certo senso tanto minore è l’atto, e tanto maggiore è la potenza. Minore è la presenza e maggiore è l’apertura al molteplice. Lo sfumato, il vago, l’indefinito, sono la chiave estetica dei paesaggi orientali, ma anche dei corpi proprio in quanto sfuggente oggetto di bellezza. Inoltre occorre sottolineare che l’esperienza estetica del corpo femminile in Cina e in Giappone è tradizionalmente legata a un complesso di suggestioni e non è dominato dalla semplice visione come accade in Occidente. L’Occidente tende invece a dare una descrizione meticolosa del corpo a partire dall’antica Grecia.
Ciononostante, il Giappone, rispetto alla Cina, ha storicamente dimostrato di avere un atteggiamento meno repressivo e più aperto alla rappresentazione, seppure vaga. Questa sensibilità a contatto con la cultura occidentale ha portato allo sviluppo della più grande industria pornografica dell’Estremo Oriente. I bianchi corpi “indeterminati” delle teenager giapponesi hanno così invaso il mondo, forgiando un’estetica del nudo che, pur essendo ispirata a quella occidentale (prima del contatto con l’Occidente non esistevano illustrazioni o dipinti di donne completamente nude), conserva un tipico approccio orientale. Anche oggi il nudo giapponese è raramente integrale. La donna conserva sempre qualche indumento che è indice e rivelatore della sua funzione e confezione sociale (in modo che si possa capire se è una liceale, una office lady, una gyaru).
Gli abiti e la cultura della confezione

Un altro fattore da considerare nella sensibilità giapponese è infatti la cultura dalla confezione. Forse a causa della grande importanza attribuita all’esteriorità e alla superficie e quindi alla dimensione pubblica dell’apparire (che giunge fino allo svuotamento dell’interiorità) l’elemento superficiale ed esterno diventa il luogo di un lavoro incessante. In un certo senso in Giappone non c’è nulla che non venga impacchettato. Le geishapossono essere lette come delle dame impacchettate, le case vengono fatte in legno e poi rivestite di uno strato sintetico di simil mattonelle, cosicché da fuori sembrano di mattoni come le case occidentali. Quindi vengono anch’esse impacchettate. La stessa famosa cortesia giapponese può essere descritta come una forma di infiorettamento o di impacchettamento del comportamento. L’attenzione spasmodica della cucina giapponese per le presentazioni è ancora una forma di confezionamento. In questo quadro le gyaru sono ancora l’espressione di una tendenza all’impacchettamento che entra in ibridazione con la cultura americana del packaging.

È curioso quindi che partendo da punti di vista opposti, americani e giapponesi giungano a conclusioni simili. Infatti, se per i giapponesi l’impacchettamento serve a mantenere la propria reputazione e il proprio “onore” in uno sforzo di adeguamento allo standard, in America invece il packaging è una tecnica di spettacolarizzazione del prodotto o di sé, che serve ad avere più influenza sugli altri. Quindi se in Giappone ci si sforza di aderire alla correttezza della propria apparenza, in Occidente non si perde occasione per riaffermare la propria differenza interiore dalla propria immagine (continuando così a speculare sulla propria immagine). Questo perché, come scrive Takeo Doi (1986), nell’opposizione giapponese tra omote e ura (lett.: fronte/retro), l’interno è visto come un luogo privato e segreto che può essere anche guardato con sospetto, mentre nell’impostazione ideologica occidentale dell’opposizione tra soggetto e maschera, è l’esterno, considerato in quanto maschera, ad essere pensato come luogo di sospetto e alienazione.

La gyaru è allora celebrata dall’industria culturale giapponese nella sua splendente superficialità, così come l’Occidente celebra invece la presunta sincerità e ingenuità della teenager, intesa come figlia, e biasima l’esteriorità e la presunta ipocrita malizia della lolita tentatrice.
La gyaru quindi non è più una scolaretta in divisa con accorgimenti che la rendono un po’ più sexy. Su questo modello l’industria dell’abbigliamento, dei cosmetici e anche le ragazze stesse hanno lavorato intensamente caricandolo di una serie di attributi autoctoni e di altri importati tramite l’emulazione delle teenager americane. Si parte così dall’interesse per aspetti della moda occidentali, estranei alla tradizione nipponica, come l’abbronzatura (si pensi che in Giappone molte ragazze d’estate usano ancora l’ombrellino da passeggio per coprirsi dal sole). Si arriva quindi a una eccessiva forzatura e caricatura dell’immagine della ragazza abbronzata, dando vita alle ganguro o yamanba (in cui ci si tinge la pelle di scuro), per tornare più recentemente a un’immagine meno carica e più glamour. Nasce così la vera gyaru, che si pone come un concentrato di prodotti di bellezza, abiti firmati e gadgets, presentandosi come un inno vagante al consumismo più estremo. L’idea che suscita è quella di una ragazza “patinata”, della concretizzazione di una foto. Il trucco deve essere costante e continuo affinché non si perda mai l’aspetto glamour (le gyaru si truccano continuamente e ovunque: al caffè, sull’autobus, negli angoli delle strade). In un certo senso la gyaru è l’esaltazione della vita come rappresentazione in cui la rappresentazione ha la meglio sulla vita.
Da un certo punto di vista essa sembra asservita all’emulazione degli stereotipi occidentali, ma da un altro punto di vista essa ripropone, mutatis mutandis, la bellezza rivestita e confezionata della geisha. Infatti essa pur presentando varie nudità, con minigonne e scollature, le propone sempre in una forma così cosmetizzata da farle sembrare innaturali e coperte.

Il fatto che le gyaru si trucchino continuamente significa che non c’è un lifestyle che vada oltre la presentazione dell’immagine o che costituisca un obbiettivo rispetto al quale il presentarsi è funzionale. Diversamente il lifestyle delle gyaru è conseguente e dipendente dalla formazione dell’immagine vivente. La gyaru è un tableau-vivent. Il truccarsi continuamente indica che esse si comportano come un termostato che torna continuamente alla temperatura impostata non appena questa scende di un grado. Quindi il comportamento si riduce a un automatismo omeostatico e a una dipendenza sorretta unicamente dalla valorizzazione sociale nella gerarchia di gruppo rispetto al parametro della “patinatura”.
Lo schema

Abbiamo tracciato lo sviluppo del complesso figurale dell’adolescenza nel corso della storia occidentale e orientale, arrestandoci alle porte della situazione contemporanea. Abbiamo visto che in Occidente si è assistito a una rivalutazione della gioventù, ma sappiamo che nel cinema fino alla Seconda guerra mondiale persistono stereotipi dell’uomo e della donna adulti. Quando entra in scena la teenager occidentale e perché? Per rispondere a questa domanda occorre prendere in considerazione il rapporto che si determina tra l’adolescente come personaggio e l’adolescente come attore sociale. Infatti come abbiamo detto l’adolescente a differenza di un qualsiasi oggetto di rappresentazione è in grado di interagire a più livelli. Ma è anche vero che quando parliamo di attore sociale parliamo pur sempre di una realtà socialmente costruita.

Le immagini della lolita, della teen, della gyaru e della scolara, sono tutte immagini che vengono fatte circolare grazie all’esistenza di un mercato che ne alimenta la proliferazione e ne richiede la produzione. C’è da chiedersi allora chi siano i committenti (domanda) e i produttori (offerta) di queste immagini. La risposta chiaramente varia a seconda delle quattro figure che si sono venute a determinare (due occidentali e due giapponesi).
Per esempio è chiaro che l’immagine dell’adolescente come Proserpina, e cioè come figlia da difendere dal maschio predatore, sia un’immagine che ha come matrice i genitori e che viene venduta ai genitori sia maschi che femmine, sebbene in questo caso le donne, in qualità di madri, costituiscono l’attore principale. Diversamente, la figura seducente e maliziosa della ninfa-lolita è chiaramente una figura destinata ad interagire con le fantasie di un pubblico maschile e adulto, ma che trova la sua matrice non solo in considerazioni maschili, bensì anche femminili e cioè nella percezione da parte della donna, in qualità di moglie del pretendente, della ragazza come pericolosa concorrente, maliziosa e non veramente ingenua. Quindi anche in questo caso tra gli attori troviamo entrambi i sessi, in quanto certamente un ruolo di primo piano spetta al maschio, ma troviamo anche un ruolo di riflesso della donna adulta. Questo ci permette di affermare che in tutto questo gioco di connotazioni benigne e maligne della figura della teen, le teenager non contano poi molto. Contano solo come pubblico a cui vendere ora l’immagine della brava figlia e ora quella della ragazza aggressiva, truccata e sensuale.

Da questo punto di vista sintomatico è il caso di Britney Spears. La Spears è un personaggio costruito sicuramente come modello consumistico per il pubblico delle teen, ma con attributi che soddisfano anche il pubblico maschile adulto, da parte di un tipo di produzione industrialmente organizzata da adulti. Una testimonianza di ciò sta nel fatto che la Spears non era solo l’idolo delle sue coetanee, ma era anche la ragazza immagine più apprezzata dagli uomini adulti e che il suo indice di gradimento presso questi ultimi è crollato dopo che ha avuto un figlio, cosa che la faceva uscire dalla categoria delle teen e la faceva entrare in quella delle madri e mogli. La teen allora come attore sociale ha un ruolo limitato. Essa è emersa nel momento di diffusione della musica pop in qualità di pubblico strepitante e delirante di cui si apprezzavano le enormi potenzialità economiche. In questo senso la teen si è imposta all’attenzione in una veste passiva a cui il mercato ha risposto con un rilancio di una sua immagine da protagonista.  In tal modo dal mondo degli attori sociali la teen è entrata in quello dei personaggi sociali, un po’ come i committenti borghesi, che all’inizio del XV secolo si facevano dipingere sottodimensionati e in disparte in qualità di fedeli accorati, hanno poi acquistato un rilievo sempre maggiore, fino ad occupare con il ritratto rinascimentale tutto il quadro. Allo stesso modo la teen da semplice pubblico in delirio che accompagnava le imprese della rock star ha avuto un rilievo sempre maggiore, fino a diventare con Britney Spears e altre essa stessa la rock star al centro della scena, rimanendo tuttavia sempre pilotata dai produttori dell’industria culturale. Quindi al protagonismo conquistato dal personaggio non ha corrisposto un eguale protagonismo conquistato dalla teen in quanto attore sociale.

In Giappone la situazione è diversa. Anche qui abbiamo due figure di adolescenti: la timida scolara e la gyaru seducente. La gyaru in teoria dovrebbe derivare dall’emulazione della teen abbronzata americana di cui segue il proporsi come aggressiva, disinibita e sexy. Il problema però è che questa immagine qui non è che in parte funzionale alle fantasie erotiche del maschio giapponese, ma più al desiderio di indipendenza, potere e fiducia in se stesse delle adolescenti, animato forse da un inconsapevole desiderio di emancipazione sociale.
La timida scolara in divisa, dal canto suo, non è la figura di ragazza da proteggere promossa e sostenuta dalle donne in qualità di madri occidentali, bensì è la figura della ragazza, passiva e completamente sottomessa, preda innocente e impotente delle violenze maschili, così come lo era la ninfa greca, frutto dell’immaginazione maschile. Ma perché proprio le studentesse in divisa? E perché queste hanno avuto tanto successo in Giappone e non nei paesi anglosassoni o in altri paesi orientali come la Corea? Una prima spiegazione potrebbe consistere proprio nell’emancipazione delle ragazze fuori dalla divisa. Una tale emancipazione può essere interpretata come un atto di insubordinazione, che, pur non comportando un’aperta riprovazione, non suscita certo simpatia. Più rassicuranti e inoffensive invece a questo punto potrebbero apparire le ragazze in divisa, senza trucco, acqua e sapone, ingenue e sottomesse; anche se poi magari si trattasse delle stesse che il pomeriggio vanno a Shibuya truccatissime. La divisa inoltre è già un simbolo di assoggettamento, del consegnarsi e sottomettersi al potere di una regola e di una gerarchia, in cui l’uomo adulto occupa un posto più alto. Infine la divisa aiuta a trasformare un individuo concreto in un personaggio, un tipo. Essa sottrae l’unicità della persona e ci esime dal confrontarci con essa. Quindi, così come, un conto è uccidere una persona e un conto è uccidere un soldato, allo stesso modo, un conto è imporsi sessualmente a una ragazza in particolare, che potrebbe essere nostra figlia, e un conto è farlo con un’anonima scolaretta.

La prima chiama in causa la nostra responsabilità individuale, la seconda ci permette di permanere semplicemente all’interno di un sistema di segni e rappresentazioni. Una altro punto sta nella situazione, fotografata da uno studio degli anni Ottanta, ma forse in parte ancora attuale, in cui si nota che l’adolescenza degli studenti giapponesi è connotata da una relativa scarsità di relazioni tra coetanei di sesso differente, ragion per cui le prime esperienze sessuali vengono consumate con adulti sia per quanto riguarda i ragazzi (prostitute e hostess) che le ragazze, che intraprendono relazioni con uomini adulti che hanno più esperienza e sono meno timidi (Rolhen 1983).

Lo schema che si profila vede allora una corrispondenza apparente tra la coppia figlia/lolita e la coppia scolara/gyaru che in realtà va rovesciata. Infatti l’immagine della liceale è ad uso e consumo dell’immaginario di dominio maschile (sebbene non manchino figure di scolare abusate e violentate nelle riviste di fumetti per sole donne e disegnate da donne) (4), mentre l’immagine della gyaru è al servizio di una non meglio espressa voglia di riscatto delle adolescenti stesse che, come attore sociale nella scena giapponese, si rivelano più attive ed effettivamente più protagoniste di quanto non lo siano le loro colleghe occidentali. Questo non significa però che se ne debba fare delle eroine. Da una parte infatti occorre ribadire il carattere apertamente consumistico di queste tendenze esplose non a caso nel periodo della baburu economy, ovvero della bolla speculativa (1989-1999) in cui si parlò anche del controverso fenomeno della shopping addiction, che portava le minorenni addirittura a prostituirsi (enjyo kosai) per permettersi capi firmati. Basti ricordare inoltre che il modello della pornostar giapponese sul mercato americano ricalca l’immagine della gyaru, che quindi si sottrae agli sfruttamenti endogeni ma si espone a quelli esogeni, verso i quali è più esposta, essendo ingenuamente attratta dal modello occidentale, a causa del rifiuto di quello indigeno. Allo stesso modo è interessante notare come il corrispondente cinese delle operazioni di Aida Makoto, noto artista giapponese che propone immagini di scolare seviziate, sia invece un’artista donna, Cui Xiuwen, che vede nell’importazione degli stilemi giapponesi una rimessa in discussione degli stereotipi femminili cinesi (oppure come ironica ed estetica esportazione del “masochismo” femminile giapponese). Come si vede si innesca così un gioco di traduzioni e reinterpretazioni transculturali in una realtà globalizzata che usa ovunque gli stessi significanti assegnandogli però di volta in volta diversi significati.

L’altro aspetto sintomatico è che, a dispetto di tutte queste vicissitudini, le varie identità culturali locali mantengono una loro inaspettata continuità.
Torniamo ancora una volta al mito di Proserpina. In questo mito l’azione si svolge tra il personaggio di Demetra, la madre protettiva, e Ade, il maschile negativo, che violenta e rapisce. Proserpina è solo un oggetto in questa partita. Anche la risoluzione non è che un compromesso tra la potestà della madre e quella dell’ormai marito. Nei miti delle ninfe si ripete la determinazione della stessa condizione di passività, operata dal punto di vista maschile, con l’aggiunta in qualche caso dell’idea di una segreta complicità della ninfa, che può addirittura fingere di dormire per permettere al satiro di abusarne. Questi due punti di vista in Occidente hanno creato una zona di attrito tra due qualifiche incompatibili, quella della bambina asessuata e quella della ragazza sessualmente disponibile e compiacente. Questa condizione di dissidio si trasforma in una incertezza di status tra la bambina e l’amante che si riflette ancora una volta negativamente sull’adolescente connotandola come implicitamente “impura”, nel senso inteso da Mary Douglas (1966), condizione dalla quale scaturiscono i personaggi come quello della Lolita, e che viene per giunta imputato a un suo presunto stato di instabilità psicologica reale. Si passa così nella cultura occidentale dalla passività dell’adolescente al sospetto di una sua colpevolezza intrinseca che diviene costitutivo della sua figura e che si trascina dall’antichità ai nostri giorni, modellando l’ibrido di insicurezza, ingenuità, capricciosità da una parte e sex appeal, disinvoltura e aggressività dall’altra, che connotano la figura della teen attuale.

In Giappone invece questa connotazione ambigua non risponde a una sovrapposizione e a una dimensione conflittuale in cui la colpa infine viene scaricata sulla ragazza, ma a una condizione più prossima a un vuoto, a una situazione di latenza, in cui viene concessa all’adolescente una sorta di tacita impunità accompagnata da una educata riservatezza da parte dei genitori. Il periodo dell’adolescenza in Giappone, collocandosi tra due condizioni fortemente delineate – da una parte l’infanzia e dall’altra l’integrazione nei ruoli rigidamente prefissati di moglie, madre e spesso lavoratrice dipendente – si pone come un momento di sollevamento dalle responsabilità (tipico della condizione infantile) accompagnato a delle libertà di tipo più adulto, rispetto alle quali si manifesta un certo permissivismo. Non a caso molte spericolate gyaru, passano in pochi mesi dalla pelle scura e i capelli bianchi con vestiti sgargianti ai capelli raccolti e discreti tailleur, e passando così da una certa disinibizione sessuale a una condotta quasi severa e conservatrice, quasi si fosse trattato della fine di una vacanza che nella vita non è destinata a ripetersi. Tuttavia altre continuano anche da madri a perpetuare questi atteggiamenti definiti da “bad girls”. Ma come al solito in Giappone lo sviluppo dei comportamenti sociali si gioca su un curioso bilanciamento di tendenze opposte capace smussare il potere destabilizzante e sovversivo delle spinte che in esso si ingenerano.

di Roberto Terrosi

 

 

Note

1 Le prime divise dopo la restaurazione Meiji erano ancora ispirate al kimono (Czarnecki, in Miller 2005).
2 Il rapimento in questo senso è un analogo della violenza carnale, che strappa la ragazza dalla sua condizione spensierata di fanciulla (non a caso Proserpina era intenta a raccogliere fiori). Il mito viene raccontato dal punto di vista della madre e connota con la massima negatività possibile l’uomo che strappa la figlia alla famiglia. Da un’altra parte non si può evitare di leggere in questo mito anche il suggerimento di un rito di passaggio (la morte indicata da Plutone può essere letta come la morte rituale del passaggio da una condizione all’altra e cioè la morte di un ruolo che prelude alla nascita in un ruolo differente) e di trasformazione della figlia in moglie che però non si deve compiere fino in fondo, fino cioè a rompere definitivamente i rapporti che la legano alla sua famiglia. La ragazza così nel mito classico non esce mai definitivamente dalla tutela della madre (infatti nel mito Cerere ottiene di poter riavere Proserpina con sé per un  periodo, ciclicamente, in corrispondenza con elementi ciclici dell’agricoltura che in questa sede non possiamo analizzare) e dalla condizione di figlia, ponendo le basi per un’ambiguità di status che continua ad essere problematica a tutt’oggi.
3 La geisha, considerata il simbolo della sensualità giapponese è un prodotto relativamente recente della cultura nipponica, infatti geisha, “artista”, indica un tipo di donna di piacere che compare nei cosiddetti “quartieri senza notte” di Edo, sebbene in un primo momento il termine era usato in riferimento a danzatori e istrioni di sesso maschile. Solo in un secondo tempo questo nome viene associato alle donne di piacere, creando una figura che si consolida solo in età Meiji.
4 Questo fenomeno è stato descritto da Gretchen Jones come una forma di masochismo socializzato, dovuto forse all’interiorizzazione di un modello e di rapporto sociale (Jones, in Miller 2005).

 

 

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