Roland Barthes – Scrittori e scriventi 


Chi parla? Chi scrive? Ci manca ancora una sociologia della parola. Quello che sappiamo è che la parola è un potere, e che esiste un gruppo di uomini, una via di mezzo tra la corporazione e la classe sociale, definibile con buona approssimazione come detentore, a gradi diversi, del linguaggio della nazione. Per lungo tempo però, probabilmente tutta l’epoca classica del capitalismo, vale a dire dal XVI al XIX secolo, proprietari incontestati del linguaggio, erano, in Francia, gli scrittori, e solo loro; se si eccettuano i predicatori e i giuristi, chiusi del resto nei loro linguaggi funzionali, nessun altro parlava; e questa sorta di monopolio del linguaggio produceva stranamente un ordine rigido, più della produzione che non dei produttori: non era la professione letteraria a trovarsi strutturata (essa ha subito una grande evoluzione nel corso di secoli, dal poeta domestico allo scrittore-uomo d’affari) ma la materia stessa di questo discorso letterario, soggetto a regole d’uso, di genere e di composizione, rimasto press’a poco immutato da Marot a Verlaine, da Montaigne a Gide (si è mossa la lingua, non il discorso).

Contrariamente a quanto accade nelle società cosiddette primitive, nelle quali non si ha stregoneria se non attraverso lo stregone, come ha dimostrato Mauss, l’istituzione letteraria — e in essa l’ingrediente essenziale, la parola — trascendeva ampiamente le funzioni letterarie. Istituzionalmente, la letteratura della Francia è il suo linguaggio, sistema a un tempo linguistico ed estetico, cui non è neppure mancata una dimensione mitica, la clarté. Da quando, in Francia, lo scrittore non è più il solo a parlare? Senza dubbio dal tempo della Rivoluzione; si cominciano a vedere allora (ne trovavo conferma leggendo in questi giorni un testo di Barnave) uomini che si appropriano della lingua degli scrittori a fini politici. L’istituzione resta salda: si tratta sempre di quella grande lingua francese, di cui vengono reverentemente preservati attraverso il più grande sconvolgimento della storia di Francia, lessico ed eufonia; ma le funzioni cambiano, il personale va aumentando nel corso di tutto il secolo; gli scrittori stessi, da Chateaubriand o de Maistre a Hugo o Zola, contribuiscono ad ampliare la funzione letteraria, a fare di questa parola istituzionalizzata, di cui sono ancora i proprietari riconosciuti, lo strumento di un’azione nuova; e accanto agli scrittori propriamente detti si costituisce e sviluppa un gruppo nuovo, detentore del linguaggio pubblico.

Intellettuali? La parola è di risonanza complessa; preferisco chiamarli scriventi. E poiché oggi siamo forse in quel momento fragile della storia in cui le due funzioni coesistono, vorrei delineare una tipologia comparata dello scrittore e dello scrivente, anche se dovrò utilizzare per questo confronto un solo riferimento: quello del materiale che hanno in comune, la parola. Lo scrittore svolge una funzione, lo scrivente un’attività, ecco quanto già ci insegna la grammatica, che giustamente contrappone il sostantivo dell’uno al verbo (transitivo) dell’altro. Non che lo scrittore sia una pura essenza: egli agisce, ma la sua azione è immanente all’oggetto, si esercita paradossalmente sul proprio strumento: il linguaggio; lo scrittore è colui che lavora la sua parola (fosse anche ispirato) ed è funzionalmente assorbito in questo lavoro. L’attività dello scrittore comporta due tipi di norme: norme tecniche (di composizione, di genere, di scrittura) e norme artigianali (di applicazione, di pazienza, di correzione, di perfezione).

Il paradosso è che, dal momento che il materiale diventa in qualche modo fine a sé stesso, la letteratura è in fondo un’attività tautologica, come quella di certe macchine cibernetiche costruite per se stesse (l’omeostato di Ashby): lo scrittore è un uomo che assorbe radicalmente il perché del mondo in un come scrivere. E il miracolo, se così si può dire, è che questa attività narcisistica sollevi incessantemente, in secoli di letteratura, un’interrogazione al mondo: chiudendosi nel come scrivere, lo scrittore finisce per ritrovare il problema aperto per eccellenza: perché il mondo? Qual è il senso delle cose? Insomma, proprio nel momento in cui diventa fine a se stesso, il lavoro dello scrittore riacquista una funzione mediatrice: lo scrittore concepisce la letteratura come fine, il mondo gliela restituisce come mezzo: e in questa decezione infinita lo scrittore ritrova il mondo, un mondo strano del resto, poiché la letteratura lo rappresenta come una domanda, mai, in definitiva, come una risposta. La parola non è né uno strumento né un veicolo: sappiamo ormai che è una struttura; ma lo scrittore è il solo, per definizione, a perdere la propria struttura e quella del mondo nella struttura della parola. Ora questa parola è una materia (infinitamente) lavorata: è un po’ come una superparola, per cui il reale è sempre solo un pretesto (per lo scrittore, scrivere è un verbo intransitivo); ne consegue che essa non può mai spiegare il mondo, o almeno, quando finge di spiegarlo, è solo per farne arretrare ulteriormente l’ambiguità: una volta fissata nell’opera (lavorata), la spiegazione diviene immediatamente un prodotto ambiguo del reale, con cui si trova in rapporto a distanza; la letteratura insomma è sempre irrealistica, ma proprio il suo irrealismo le consente di porre spesso domande valide al mondo — anche se non possono mai essere domande dirette: partito da una spiegazione teocratica del mondo, Balzac ha finito per interrogarlo soltanto.

Ne consegue che lo scrittore si vieta esistenzialmente due modi di parola, qualunque sia l’intelligenza o la sincerità della sua impresa: in primo luogo la dottrina, poiché suo malgrado, per il suo stesso progetto, egli converte in spettacolo ogni spiegazione: è inevitabilmente un induttore di ambiguità1; e poi la testimonianza: essendosi dato alla parola, lo scrittore non può avere una coscienza innocente: non si può lavorare un grido senza che il messaggio finisca per vertere molto più sul lavoro che sul grido: identificandosi a una parola lo scrittore perde ogni diritto di rivalsa sulla verità, perché il linguaggio, non appena cessi di essere rigorosamente transitivo, è precisamente quella struttura che ha per fine (almeno storicamente, dai Sofisti in poi), di neutralizzare il vero e il falso. In compenso, egli acquista, evidentemente, il potere di scuotere il mondo, dandogli il vertiginoso spettacolo di una prassi senza sanzione. Per questo è derisorio domandare a uno scrittore di impegnare la sua opera: uno scrittore che «s’impegna» pretende dì giovarsi simultaneamente di due strutture, e non potrà farlo senza inganno, senza prestarsi a quell’ingegnoso meccanismo per cui maître Jacques si faceva ora cuoco ora cocchiere ma mai tutte e due le cose insieme (inutile tornare una volta di più su tutti gli esempi di grandi scrittori disimpegnati o «male» impegnati, e di grandi impegnati cattivi scrittori).

Quello che si può chiedere allo scrittore è di essere responsabile; e ancora bisogna intendersi: che lo scrittore sia responsabile delle sue opinioni è insignificante; che assuma più o meno intelligentemente le implicazioni ideologiche della sua opera, anche questo è secondario; per lo scrittore la vera responsabilità è di sostenere la letteratura come un impegno mancato, come uno sguardo mosaico sulla Terra Promessa del reale (è la responsabilità di Kafka ad esempio). Naturalmente, la letteratura non è una grazia, è il corpo dei progetti e delle decisioni che portano un uomo a compiersi (cioè, in certo modo, a essenzializzarsi) nella sola parola: è scrittore chi vuole esserlo. Altrettanto naturalmente, la società, che consuma lo scrittore, trasforma il progetto in vocazione, il lavoro del linguaggio nel dono di scrivere, e la tecnica in arte: è nato così il mito del bello scrivere: lo scrittore è un sacerdote retribuito, il guardiano semirispettabile semiderisorio del santuario della grande Parola francese, sorta di Bene nazionale, merce sacra, prodotta, insegnata, consumata ed esportata nel quadro di una sublime economia dei valori.

Questa sacralizzazione del lavoro dello scrittore sulla sua forma ha grandi conseguenze, e non più formali: consente alla (buona) società di distanziare il contenuto dell’opera quando esso rischia di metterla nell’imbarazzo, di convertirlo in puro spettacolo cui ha il diritto di applicare un giudizio liberale (cioè indifferente), di neutralizzare la rivolta delle passioni, il sovvertimento delle critiche (costringendo così lo scrittore «impegnato» a una provocazione incessante e impotente), insomma di recuperare lo scrittore: non c’è scrittore che non finisca per venire digerito dalle istituzioni letterarie, salvo liquidarsi, salvo cioè cessar di confondere il suo essere con quello della parola: per questo sono così pochi gli scrittori che rinunciano a scrivere, perché rinunciare, in questo caso, significa letteralmente, uccidersi, morire all’essere che ci si è scelto; e se se ne trova qualcuno, il suo silenzio risuona come una conversione inesplicabile (Rimbaud). Gli scriventi, invece, sono uomini «transitivi»; si pongono un fine (testimoniare, spiegare, insegnare) di cui la parola non è che il mezzo; per essi la parola sostiene un fare, non lo costituisce. Il linguaggio viene dunque ricondotto alla sua natura di strumento di comunicazione, di veicolo del «pensiero». Anche se lo scrivente presta qualche attenzione alla scrittura, questa cura non è mai ontologica: non è preoccupazione. Lo scrivente non esercita alcun intervento tecnico essenziale sulla parola; dispone di una scrittura comune a tutti gli scriventi, sorta di koinè in cui è certo possibile distinguere dei dialetti (per esempio marxista, cristiano, esistenzialista), ma molto raramente degli stili. Perché lo scrivente è definito dal fatto che il suo progetto di comunicazione è ingenuo: egli non ammette che il messaggio si rovesci e si chiuda su se stesso, che vi si possa leggere, in maniera diacritica, altra cosa da quella che vuol dire: quale scrivente sopporterebbe che si psicoanalizzi la sua scrittura? Dal suo punto di vista, la parola pone fine a un’ambiguità del mondo, istituisce una spiegazione irreversibile (anche se egli ammette che sia provvisoria), o un’informazione incontestabile (anche se egli si vuole modesto insegnante); laddove per lo scrittore, come si è visto, è tutto il contrario: egli sa bene che la sua parola, intransitiva per scelta e per applicazione, inaugura un’ambiguità, anche se si dà per perentoria, ch’essa si offre paradossalmente come un monumentale silenzio da decifrare, che non può avere altro motto se non la frase profonda di Jacques Rigaut: E persino quando affermo, interrogo ancora.

Lo scrittore partecipa del sacerdote, lo scrivente del chierico; la parola dell’uno è un atto intransitivo (quindi, in certo modo, un gesto), la parola dell’altro un’attività. Il paradosso è che la società consuma con molto più ritegno una parola transitiva che non una parola intransitiva: lo statuto dello scrivente, perfino oggi che gli scriventi pullulano, è molto più complicato di quello dello scrittore. Ciò dipende in primo luogo da un fatto materiale: la parola dello scrittore è una mercé venduta secondo circuiti secolari, è l’unico oggetto di un’istituzione fatta soltanto per lei: la letteratura; la parola dello scrivente, al contrario, può essere prodotta e consumata solo all’ombra di istituzioni che all’origine hanno tutt’altra funzione che di far valere il linguaggio: l’Università, e in via accessoria la Ricerca scientifica, la Politica, ecc. E poi, la parola dello scrivente è in posizione falsa per un’altra ragione: dato che è (o si crede) un semplice veicolo, la sua natura di mercé viene trasferita sul progetto di cui essa è strumento: come se si vendesse del pensiero, al di fuori di ogni arte; ora, il principale attributo mitico del pensiero «puro» (meglio sarebbe dire «inapplicato») è appunto di essere prodotto fuori del circuito del denaro: contrariamente alla forma (che costa cara, diceva Valéry), il pensiero non costa niente, ma anche non si vende, si dà generosamente. Ciò mette in luce almeno altre due differenze fra lo scrittore e lo scrivente. In primo luogo la produzione dello scrivente ha sempre un carattere libero ma in qualche misura «insistente»: lo scrivente propone alla società qualcosa che la società non sempre gli chiede: situata in margine delle istituzioni e degli scambi, la sua parola appare paradossalmente molto più individuale, almeno nei suoi motivi, di quella dello scrittore: funzione dello scrivente è di dire in ogni occasione e senza indugio quello che pensa; e questa funzione basta, secondo lui, a giustificarlo; di qui l’aspetto critico, pressante, della parola scrivente: essa sembra sempre segnalare un conflitto fra il carattere irreprimibile del pensiero e l’inerzia di una società riluttante a consumare una merce non normalizzata da alcuna istituzione specifica. Appare dunque chiaro al contrario — ed è la seconda differenza — che la funzione sociale della parola letteraria (quella dello scrittore) è appunto di trasformare il pensiero (o la coscienza, o il grido) in merce; la società conduce una sorta di lotta vitale per fare proprio, acclimatare, istituzionalizzare, il rischio del pensiero, ed è il linguaggio, istituzione modello, a offrirgliene il mezzo: il paradosso è che, stando così le cose, una parola «provocatoria» cade senza difficoltà sotto il dominio dell’istituzione letteraria: gli scandali del linguaggio, da Rimbaud a Ionesco, sono rapidamente e perfettamente integrati; e un pensiero «provocatorio», nella misura in cui lo si vuole immediato (senza mediazione), non può che estenuarsi in un no man’s land della forma: non si dà mai scandalo completo. Quello che descrivo è una condizione che, di fatto, si riscontra di rado allo stato puro: ognuno oggi si muove più o meno apertamente fra le due postulazioni, quella dello scrittore e quella dello scrivente; certo, così vuole la storia, che ci ha fatto nascere troppo tardi per essere scrittori superbi (in buona coscienza) e troppo presto (?) per essere scriventi ascoltati.

Oggi ogni membro dell’intelligentsia congiunge nella sua persona ambedue i ruoli, di cui fa «rientrare», più o meno bene, l’uno o l’altro: ci sono scrittori che a un tratto assumono comportamenti, impazienze da scriventi; scriventi che si innalzano talvolta fino al teatro del linguaggio. Vogliamo scrivere qualcosa, ma nello stesso tempo scriviamo e basta. La nostra epoca insomma darebbe alla luce un tipo bastardo: lo scrittore-scrivente. La sua funzione non può non essere anch’essa paradossale: egli provoca e esorcizza insieme; formalmente la sua parola è libera, sottratta all’istituzione del linguaggio letterario e tuttavia, chiudendosi in questa stessa libertà, secerne le sue proprie regole, sotto forma di scrittura comune; uscito dalla cerchia degli uomini di lettere lo scrittore-scrivente ritrova un’altra cerchia, quella dell’intelligentsia. A livello dell’intera società, questo nuovo raggruppamento ha una funzione complementare: la scrittura dell’intellettuale funziona come il segno paradossale di un non-linguaggio, consente alla società di vivere il sogno di una comunicazione senza sistema (senza istituzione): scrivere senza scrivere; comunicare pensiero puro senza che questa comunicazione sviluppi alcun messaggio parassita, ecco il modello a cui soddisfa, per la società, lo scrittore-scrivente. È un modello distante e insieme necessario, con cui la società gioca un po’ come il gatto col topo: essa riconosce lo scrittore-scrivente acquistando (un poco) le sue opere, ammettendo il loro carattere pubblico; e nello stesso tempo lo tiene a distanza, obbligandolo a fare capo a istituzioni annesse, controllate (l’Università per esempio), accusandolo ininterrottamente di intellettualismo, vale a dire, miticamente, di sterilità (rimprovero in cui lo scrittore non incorre mai).

In breve, da un punto di vista antropologico lo scrittore-scrivente è un escluso integrato dalla sua stessa esclusione, un lontano erede del Maudit: la sua funzione nella società globale non è forse senza analogie con quella che C. Lévi-Strauss attribuisce allo Stregone: funzione di complementarità, in quanto lo stregone come l’intellettuale fissa in qualche modo una malattia necessaria all’economia collettiva della salute. E naturalmente non fa meraviglia che un tale conflitto (o contratto, come si vuole) abbia luogo al livello del linguaggio; il linguaggio infatti è questo paradosso: l’istituzionalizzazione della soggettività.

di Roland Barthes