Sarah F. Maclaren – Che cosa sono gli Studio Crafts?


Considerati tradizionalmente come anomali o inferiori all’arte e al design, gli Studio Crafts hanno seguito un percorso alternativo rispetto alle arti e all’industria, giocando un ruolo cruciale nella cultura visiva e materiale contemporanea. Gli ultimi anni hanno testimoniato un forte e rinnovato interesse nei confronti dei crafts; ciò è avvenuto soprattutto nei paesi fortemente industrializzati, come l’Europa occidentale e scandinava, gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone e l’Australia (Greenhalgh 2002). Anche in Italia si assiste,  dopo decenni in cui il design industriale ha goduto di un grande sostegno, ad una rivalutazione dell’artigianato artistico. Sono state finalmente attivate politiche culturali nazionali, con l’appoggio del Ministero delle Attività Produttive, per proteggere, valorizzare e rilanciare il prezioso patrimonio d’arte e di cultura legato alla produzione dell’artigianato artistico e tradizionale italiano. Tuttavia la maggior parte dei progetti è allestita con l’intento di far apprezzare queste prestigiose produzioni all’interno di eventi di carattere folcloristico comprendenti degustazioni di cibi e di vini.

Dopo l’Unità d’Italia l’artigianato artistico ebbe un forte incremento, soprattutto in seguito all’affermazione dello Stile Liberty. Tuttavia l’Italia non vide il sorgere di una tendenza compatta a favore delle arti decorative paragonabile alle Arts and Crafts Movement inglese: ci furono numerosi casi isolati di eccelsi artisti artigiani (1). Una delle pochissime eccezioni, durata poco più di un lustro, fu Aemilia Arts che riuscì negli anni a cavallo tra Otto e Novecento a promuovere ben oltre l’ambito regionale e nazionale i prodotti dell’artigianato artistico emiliano (Bernardini, Davanzo Poli, Ghetti Baldi 2001). La breve stagione dell’artigianato artistico moderno italiano cessò con la IV Esposizione internazionale di Monza nel 1930, che col sostegno decisivo della politica culturale del fascismo, promosse il design e la produzione industriale in serie.

Attualmente gli Studio Crafts occupano un territorio instabile di alleanze mutevoli con l’arte e il design. Pertanto le categorizzazioni tradizionali non sembrano più adeguate (2). Gruppi di design di fama internazionale, come quello olandese Droog e quello italiano Alessi, cercano di andare ben oltre il funzionalismo. Molti designers sono lieti di alternare la realizzazione di oggetti unici con quelli prodotti industrialmente. Vi sono sempre più Studio Craftspersons che inseguono un riconoscimento artistico per le loro opere: il lavoro del notissimo vetraio americano, Dale Chihuly, è uno degli esempi più emblematici. Gli stessi craftspersons hanno introdotto e utilizzano innovazioni tecnologiche nelle loro creazioni. Anche nel campo dell’arte, alcuni processi tradizionalmente associati con i crafts cominciano a essere presi in considerazione.

 

Specificità dello Studio Craft

Se le categorie di arte, design e crafts sono così offuscate e confuse, in che cosa consiste il carattere specifico dei crafts?
La parola inglese craft deriva da una radice germanica da cui proviene la parola tedesca Kraft, che significa “forza, vigore”. Tuttavia lungo il corso dei secoli, craft ha acquisito una grande varietà di significati; nel sedicesimo secolo, craft si riferiva al potere e alla capacità intellettuale, ma aveva anche il significato peggiorativo di frode e scaltrezza (da cui il significato attuale dell’aggettivo inglese crafty). Era inoltre associato alla stregoneria (witchcraft), al governo dello stato (statecraft) e alla massoneria.
In questa sede, craft è usato nel senso tratto dall’Oxford English Dictionary, che lo definisce “un’attività richiedente una capacità e un sapere speciali; specialmente un’arte manuale, un prodotto realizzato a mano”. Non è il caso di soffermarsi qui sull’ampissima varietà di crafts e sulle numerose questioni loro connesse (3). Basta osservare che la suddivisione dei crafts nelle principali categorie tutt’ora esistenti avviene nel periodo compreso  tra il 1920 e il 1940.

È allora che il craft viene ripartito in varie sottocategorie: rural craftfolk craftvernacular craft(mirante alla preservazione di tecniche di produzione e di oggetti prodotti in contesti rurali, subalterni o addirittura pre-industriali, per nulla o poco scalfiti dall’industrializzazione), studio craftluxury craft, amateur craft(svolto come attività del tempo libero), ethnic and tourist craft (destinato al mercato turistico e prodotto in conformità ai gusti e alle esigenze degli acquirenti); women’s crafts (prodotto tradizionalmente dalle donne nell’ambito domestico). Last, but not least, i crafts oggi superano i confini tradizionali, includendo l’arte, il design, la tecnologia e il marketing.

Da un punto di vista più generale, i crafts subirono nella cultura occidentale due trasformazioni fondamentali: la prima, quando furono separati dalle Belle Arti, declassati e definiti come “arti applicate o decorative”; la seconda, quando il design industriale avviò la produzione in serie di prodotti a basso costo.
Tra i vari tipi di crafts, gli Studio Crafts si distinguono per le loro piccole produzioni realizzate con enorme destrezza tecnica e criteri artistici. Si tratta del tipo di craft che, in termini di discorsi e di pratiche, ha la più stretta connessione con l’arte, ed è infatti l’unico in grado di competere con essa. Inoltre, gli Studio Craftspersons si sono impegnati per far riconoscere ai loro artefatti e materiali uno status artistico, sebbene questi continuino generalmente ad essere associati alle arti applicate e decorative, come la ceramica, il vetro, il tessuto, il mobilio, la lavorazione del legno e del ferro, e i gioielli. Molte creazioni degli Studio Crafts sono state accettate nel campo artistico; sono state esposte in mostre, in gallerie e musei dove vengono apprezzate, collezionate e anche “consumate”.

Sebbene il movimento studio craft fosse iniziato come una diramazione dell’Arts and Crafts Movement, fondato da John Ruskin e William Morris, si staccò quasi immediatamente da quest’ultimo per il suo approccio innovativo nei confronti delle arti applicate e decorative. Anziché considerarli come un antidoto all’industrializzazione (e quindi assumere quell’atteggiamento romantico e nostalgico), gli Studio Craftsprivilegiarono le qualità artistiche dei manufatti. Infatti gli Studio Craftsebbero inizio nei primi due decenni del ventesimo secolo, quando, in un contesto urbano, moderno e d’avanguardia come quello di Londra, si instaurò un “campo artistico” per sostenere i prodotti più artistici (Stair 2002, pp. 49-60). La ceramica (studio pottery) fu invocata come una nuova e radicale espressione artistica. Oltre al background urbano, un ruolo fondamentale a sostegno di questa disciplina emergente, oggi nota come studio ceramics o new ceramics, fu svolto da uno dei massimi critici d’arte dell’epoca, Roger Fry. In pochissimi anni, lo studio pottery si scrollò il suo retaggio fortemente moralistico (dovuto all’orientamento di Ruskin e Morris) per abbracciare il modernismo (Stair 2002, pp. 49-60).

La ceramica venne alla ribalta e acquisì riconoscimento artistico, perché occupava una posizione intermedia tra la pittura e la scultura. Si prestava inoltre ad una seria riflessione teorica. Roger Fry fu uno dei primissimi teorici a considerare la ceramica come “arte” (1914). Il formalismo di Fry sviluppò nozioni astratte, quando fu individuato un accostamento, fino a quel momento inaccettabile, tra le terraglie autoctone inglesi e l’antica ceramica cinese (unendo in tal modo la tradizione inglese con l’orientalismo). Fry infatti analizzava la ceramica medievale inglese secondo criteri che privilegiavano la forma, la composizione e l’espressività; la descriveva in termini analitici come “austere rhythm (…)structural design (…) relations of planes (…) inherent unity” (1914). Il critico sosteneva che questa ceramica era stata realizzata con un gusto estremamente raffinato e la comparava a quella della dinastia Tang, che riteneva “la massima ceramica mai esistita” (1914). Fry ebbe una posizione chiave nello stabilire una connessione tra l’orientalismo e i concetti dell’avanguardia.

Negli anni Venti, lo studio pottery movement venne alla ribalta anche per le associazioni con l’astrattismo. L’espressione studio pottery apparve per la prima volta nella rivista commerciale «The Pottery Gazzette and Trade Glass Review», nell’articolo The Late Robert Wallace Martin nel 1923. Uno dei primi ceramisti a raggiungere una grande notorietà artistica fu William Staite Murray, che fu un pioniere nella realizzazione di ceramiche personali. Negli anni Venti, Staite Murray sviluppò il concetto di ceramica come un tipo di scultura astratta, la cui forma circolare era dovuta al tornio. L’espressione fine art pot sottolinea la qualità artistica delle sue ceramiche e segna una rottura fondamentale rispetto agli oggetti prodotti industrialmente. Staite Murray riteneva che la ceramica fosse arte, parimenti alla pittura e alla scultura. Analogamente a Fry, anche Staite Murray trovò una fortissima fonte d’ispirazione nell’Estremo Oriente e soprattutto nell’arte cinese.

Gli scritti teorici e critici di Fry contribuirono a diffondere un’idea di ceramica artistica; questa raggiunse il massimo riconoscimento, quando a Londra fu instaurato una sorta di governance che promosse questa nuova espressione artistica. Staite Murray e i suoi colleghi si trovarono in un “campo” che comprendeva le istituzioni (il Burlington Club, il Victoria & Albert Museum), le gallerie di Bond Street con i loro patroni e mecenati, e i collezionisti. Non meno importante fu l’attenzione che la ceramica artistica ricevette nei media negli anni Venti e Trenta: la ceramica occupò un enorme rilievo nei principali quotidiani («The Observer», «The Sunday Times», «The Manchester Guardian») e nelle maggiori riviste specialistiche e non («The Spectator», «Apollo», «Artwork», «Burlington Magazine», «Spere», «The Studio», «The Listener»). Tra il 1924 e il 1930, la posizione dello studio pottery fu consolidata nell’ambito degli sviluppi critici del modernismo, provocando una rottura con l’ideologia degli Arts & Crafts. Lo studio pottery proseguì fino alla metà degli anni Trenta, quando l’agenda modernista fu rimpiazzata da un’altra. Il notissimo ceramista Bernard Leach (1940) che, a differenza di State Murray, fu fortemente influenzato da Ruskin e dal movimento mingei giapponese, fondato da Yanagi Soetsu, sostituì il fine art pot con l’ethical pot, segnando così la fine di un periodo estremamente vivace.

 

Creatività versus virtuosità tecnica

Dagli anni Cinquanta in poi gli Studio Crafts tornano alla ribalta e acquisiscono una fisionomia estremamente innovativa (4). Si affermano a livello internazionale varie produzioni chiamate new ceramicsnew jewelleryfiber artwearable arttextile artglass art, e così via. Craftspersons come Peter Voulkos, Judy Chicago e più recentemente Dale Chihuly, Albert Paley, Gwyn Hanssen Pigott, Alison Britton, contribuiscono a eliminare ancor di più i confini tra arte, crafts e design.
Se gli Studio Crafts sono riusciti a conquistare un tale riconoscimento e successo artistico, ciò è dovuto al fatto che essi possiedono delle caratteristiche particolari differenti sia dalle opere d’arte sia dal design. Ci soffermeremo su alcuni di questi aspetti teorici, le implicazioni delle quali si estendono ben oltre il campo dei crafts.

Il primo aspetto riguarda la questione della separazione tra arte e craft, ossia la creatività contro la capacità e la virtuosità tecnica. Infatti una delle caratteristiche che ha separato le arti dal design e dai crafts è stato “avere idee” opposto a “realizzare oggetti”. Questo atteggiamento ha fatto sì che si radicasse l’idea che esista una sorta di attributo mentale conosciuto come “creatività” che può essere completamente slegato dal saper realizzare oggetti. Il risultato ha prodotto un’arte senza craft (Dormer 1997).
Mentre i saggisti, i ballerini, gli attori di teatro e i musicisti non hanno mai visto la virtuosità e la capacità tecnica come un intralcio, gli artisti contemporanei hanno quasi completamente visto la capacità di realizzare qualcosa come un ostacolo alla loro creatività. Nelle arti visuali contemporanee l’atteggiamento che si manifesta nella frase “non voglio che il craft sia d’intralcio alla mia creatività” è estremamente diffuso e accettato.

craftspersons tuttavia non hanno mai rifiutato né la creatività, né l’eccellenza della virtuosità tecnica. La maggior parte di costoro ritiene che per creare alcunché sia necessario conoscere le qualità del materiale con cui si ha a che fare; è impossibile realizzare l’oggetto, senza avere questa conoscenza. Henri Focillon nel suo famoso saggio Éloge de la main (1943) sostiene che vi è un legame inseparabile tra il pensiero e la mano. Da questo punto di vista, sembra che i crafts abbiano innalzato e applicato le qualità che Hannah Arendt attribuisce all’homo faber nella sua opera The Human Condition (1958). L’homo faber, a differenza dell’homo laborans, è riuscito a conservare un atteggiamento contemplativo nei confronti degli oggetti che realizza. Il craftsperson è dunque simile al filosofo; per realizzare ciò che fa, deve sapere con cosa ha a che fare e come trasformarla in qualcosa di nuovo. Il filosofo inglese Robin George Collingwood, nell’opera The Principles of Art (1938) dichiarò che la differenza tra l’arte e il craft sta nella distinzione tra il progetto e la sua realizzazione. Nel craft “the result to be obtained is preconceived or thought out before being arrived at” (Collingwood 1958, p. 15). Il craftsman, sostiene Collingwood, sa cosa vuole realizzare prima di realizzarla. Questo sapere non deve essere vago, bensì preciso. A suo avviso, costituisce un elemento essenziale del craft. Se questa conoscenza manca non ci sarà craft, ma solo un incidente. Se qualcuno si cimenta per realizzare un tavolo, ma lo concepisce solo vagamente, costui non è un craftsman (p. 16).

L’idea di Collingwood sembra tuttavia essere troppo rigida. Non tiene in considerazione che virtuosità tecnica e creatività sono strettamente legati. Gli Studio Craftspersons infatti inseguono nuove forme e opere, creando e sperimentando con nuovi materiali. In tal modo la capacità tecnica è inseparabile dal processo creativo.
Non sorprende dunque se la figura del craftsman-artista abbia acquisito un nuovo fascino. Ciò è dovuto anche alla perdita di credibilità della maggior parte dell’arte contemporanea, che non vuole o non è più in grado di dimostrare di avere alcuna competenza tecnica: qualsiasi “idea” può essere presentata come “arte”! Tale calo di credibilità ha fatto sì che alcuni artisti si siano resi conto che la virtuosità tecnica deve essere recuperata. L’artista Sara Tse di Hong Kong, con la sua installazione Trans/form(2004), un’opera che unisce l’arte tessile e quella della ceramica, ha voluto dimostrare che la capacità tecnica non può più essere messa da parte (Lopez 2005, pp. 18-19).

Anche in Italia, la Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, che si tiene in Liguria tra Savona, Albissola Marina e Vado Ligure, che nel 2006 è arrivata alla sua terza edizione, ha voluto riattivare la nota tradizione locale di invitare artisti italiani e stranieri a realizzare in loco opere in ceramica in collaborazione con gli artisti-artigiani delle più note manifatture della zona. È stata così ripresa una tradizione che risale agli anni Venti del Novecento, quando la ceramica locale si sposò con i linguaggi dell’avanguardia artistica, e soprattutto con il Futurismo, e proseguì negli anni Cinquanta e Sessanta quando grandi artisti come Asger Jorn e Wilfredo Lam si insediarono e lavorarono ad Albissola. Per la maggior parte degli artisti si tratta del primo confronto con un materiale, la terracotta, e una tecnica, il tornio e la cottura, con cui non hanno alcuna dimestichezza. Tuttavia quasi tutti i progetti proposti dagli artisti, sostengono i ceramisti coinvolti nella manifestazione, sono irrealizzabili! Bisogna spiegare agli artisti che le loro idee sono assurde, che richiedono aggiustamenti tecnici specifici, una conoscenza della materia, nonché una notevole dose di umiltà. “Il ceramista”, dice Ernesto Canepa, titolare della manifattura Studio Ernan Design, “quando va ad aprire il forno, ha sempre una piccola dose di inquietudine” (Casapietra & Costantino 2003, p. 319).

 

Apprendistato, training, professionalità

Il secondo aspetto strategico dei crafts è l’apprendistato e l’atteggiamento professionale dei craftspersons. Nonostante la proliferazione dei dilettanti che nel tempo libero e in modo del tutto hobbistico e non-specialistico, si dedicando ai crafts, gli studio crasftspersons sono legati alle loro attività in modo professionale.
L’istituzionalizzazione dei crafts (avvenuto soprattutto in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Giappone), attraverso l’allestimento di corsi accademici altamente specializzati, dimostra come l’esigenza di professionalizzazione sia fortemente avvertita nel settore. Le accademie e i collegi giocano un ruolo chiave nell’offrire una preparazione adeguata per i futuri craftspersons. È significativo che neanche la relazione tra maestro e allievo-apprendista abbia subito una flessione. In Giappone, per esempio, l’apprendistato dura per molti anni. Vi sono dinastie secolari che tramandano l’eccellenza artistica e tecnica da generazione in generazione, come nel caso della ceramica Raku, delle spade e dei kimono. Il maestro dell’arte del bambù, Hayakawa Shokosai V, nominato Tesoro Vivente nel 2003 (il massimo riconoscimento ufficiale conferito ad artigiani e a tutti coloro che si distinguono nelle arti tradizionali come il teatro No e il Kabuki), dovette seguire il tipico iter dell’apprendista iniziato all’età di vent’anni. Si può affermare con tutta tranquillità che gli occidentali avrebbero difficoltà ad immaginare e a sottoporsi al tipo di addestramento che un artista di bambù giapponese deve seguire per diventare un maestro come Hayakawa. La sua educazione artistica, che avvenne sotto l’egida di suo padre, potrebbe sembrare addirittura una forma di abuso secondo gli standard occidentali.

Il padre distrusse tutte le ceste che Hayakawa realizzò durante i suoi quattordici anni di apprendistato, affinché il giovane aspirante non fosse tentato di metterne in vendita una che il padre reputava inferiore e non rovinasse così l’onore della dinastia. Hayakawa aveva trentaquattro anni (ora ne ha settantatre), quando gli fu finalmente concesso di esporre una propria cesta in pubblico (Walker 2005, pp. 60-61)!
In occidente, sebbene l’apprendistato non sia così rigido e non duri così a lungo, l’accademia e il maestro continuano a essere il parametro per l’addestramento delle nuove generazioni di craftspersons. Mentre gli artisti osannano la loro genialità e creatività individuali, i craftspersons professionisti non si vergognano di dire apertamente con chi e dove hanno studiato. Inoltre sono orgogliosi di dichiarare da quale scuola provengono o dove sono stati addestrati.

Nel fondamentale volume di Marcia e Tom Manhart The Eloquent Object (1987), che traccia l’evoluzione degli Studio Crafts negli Stati Uniti dal 1945, si possono trovare notizie riguardo alla formazione, alle accademie e ai maestri degli artisti (pp. 279-84). I craftsperons invocano il loro professionalismo per distinguersi dai dilettanti, che non hanno ricevuto alcuna formazione specifica e non sono obbligati a confrontarsi con il mondo del craft, con le sue dinamiche, i suoi conflitti, i problemi di affermazione e riconoscimento artistico, nonché con tutte le difficoltà e le rivalità presenti in qualsiasi campo professionale (Greenhalgh 2002, pp. 6-7).

 

Gender e minoranze etniche

Il terzo punto strategico del craft riguarda il ruolo che il gender e le minoranze etniche occupano in questa produzione. È interessante constatare che i crafts hanno consentito a gruppi marginali di mettersi in luce e di utilizzare un mezzo di espressione che non avevano acquisito altrove. Minoranze etniche, come quelle degli Hopi, dei Pueblo o di altre culture sul punto di scomparire oppure di essere soppiantate da quelle dominanti, sono riuscite a preservare e a rinvigorire la loro eredità culturale grazie ai crafts. Questo tipo di craft tuttavia non va assolutamente confuso con i cosiddetti tourist crafts, ossia con quel fenomeno di produzione etnica eseguita secondo i gusti dei turisti, già analizzata da Nelson Graburn (1976).
Gli Studio Crafts hanno permesso ad altre espressioni “marginali” di mettersi in mostra, come ha mostrato Betye Saar, autrice di The Liberation of Aunt Jemina, 1972, che impiegò il suo craft a favore del Black Power Movement.

Un caso a parte è costituito dai women’s crafts; a differenza delle Belle Arti, i crafts non sono mai stati sessisti. I crafts non hanno mai ostacolato l’espressione dell’eccellenza femminile; anzi, da un punto di vista storico, sembra che l’energia creativa, che le donne non potevano impiegare nelle arti, come la pittura e la scultura, sia confluita proprio in queste altre forme di attività (Lucie-Smith 1984).
Il gender ha svolto un ruolo chiave negli ultimi decenni, soprattutto dagli anni Sessanta in poi, in connessione con le rivendicazioni politiche del movimento femminile; molti crafts sono stati utilizzati per esplorare e trasformare la percezione e il ruolo delle donne nella società contemporanea. Uno degli esempi fondamentali rimane quello pionieristico di Judy Chicago. La sua opera Dinner Party (1979) è l’installazione di una magnifica cena immaginaria a cui sono invitate le donne più importanti della storia: dalle dee preistoriche fino a Georgia O’Keeffe. L’opera è formata da un enorme tavolo triangolare e ciascun posto – eseguito con le ceramiche, le stoffe e i metalli – è stato realizzato tenendo presente e mettendo in evidenza la personalità individuale di ciascuna donna invitata alla cena. Molto più recente è l’esperienza dell’artista gallese, stabilitasi a Londra, Kelly Jenkins, che ha completamente sovvertito gli stereotipi tradizionali che circondano il lavoro a maglia.

Nella mostra Knit 2 Together, tenutasi al Craft Council Gallery di Londra nella primavera 2005, Kelly ha esposto dei quadri realizzati con la macchina per maglieria, basati sulla pubblicità dell’industria pornografica. Questi enormi teli, realizzati con colori audaci, prendono in giro l’atteggiamento tipicamente maschile nei confronti della sessualità, trasformando il lavoro a maglia in un’arte assolutamente attuale. Dice Kelly: “l’aspetto più profondo del mio lavoro ha a che fare con questioni femminili e sessuali, e su come trasformare il craft in una moda; tuttavia io tratto questi aspetti con humour. Io mi diverto e rido con il lavoro a maglia” (Hoggard 2005, p. 38). Uno dei teli intitolato Knit Uncensored è un curioso pastiche che riproduce copertine di riviste per uomini, al cui interno una bellissima e conturbante ragazza offre non sesso, ma lavoro a maglia! “Inteso come craft – dice Kelly nell’intervista – lo status del lavoro a maglia è visto come datato; perciò il mio lavoro è diretto a celebrare l’aspetto kitsch del lavoro a maglia, per dimostrare che ciò che è datato non è il lavoro a maglia, ma gli stereotipi che lo circondano” (Hoggard 2005, p. 40).

 

Produzione, ricezione e “consumo” dei manufatti

È ormai accettato che i nuovi Studio Crafts fanno parte di un mondo che è molto prossimo a quello dell’arte. Ciò ci conduce ad analizzare i dispositivi attraverso i quali questi splendidi oggetti vengono trasformati in opere d’arte. Nella storia del craft abbiamo un esempio notissimo: l’artista-artigiano Benvenuto Cellini realizzò la splendida saliera d’oro e smalti per Francesco I di Francia nel 1543. Questo capolavoro dell’arte orafa italiana fu realizzato come un artefatto d’élite e il suo “consumo” offriva al sovrano francese quel tipo di “distinzione” teorizzato da Bourdieu (1979). Il manufatto e la sua realizzazione dovuta alla virtuosità tecnica contribuiscono a conferire all’oggetto una sorta di valore aggiunto, un’attribuzione di unicità e di bellezza, e un’ “aura” che difficilmente si può trovare in prodotti industriali realizzati in serie.

Tuttavia per acquisire questo valore simbolico e culturale, gli Studio Craftshanno dovuto fare i conti con tutti i processi dinamici e conflittuali del “campo artistico” (Bourdieu 1992), in cui questi manufatti sono prodotti, distribuiti, commercializzati, apprezzati, interpretati e discussi. Ancora una volta il Giappone costituisce l’esempio di un “campo” molto articolato, all’interno del quale i crafts vengono valorizzati e trasformati in oggetti artistici (Moeran 1997). Yanagi Soetsu, il fondatore del movimento Mingeigiapponese, s’impegnò con la massima energia a preservare i craftsnipponici tradizionali per evitare che sparissero a causa dell’accelerata industrializzazione che aveva investito il paese nella prima metà del Novecento. Per raggiungere il suo obiettivo, Yanagi costituì un “campo” altamente strutturato che prendeva in considerazione ogni singolo aspetto necessario per la preservazione e la valorizzazione dei manufatti tradizionali: questo includeva l’allestimento di musei e di gallerie, la pubblicazione di materiale critico e accademico, una fitta organizzazione di marketing e di commercializzazione (Kikuchi 2005). Inoltre, grazie al boom che il movimento Mingei ottenne dalla metà degli anni Cinquanta, i crafts furono ufficialmente riconosciuti dalle maggiori istituzioni politiche e culturali giapponesi; il ministero della cultura addirittura li reputò idonei a rientrare nei due più prestigiosi riconoscimenti culturali e istituzionali, quali le intangible cultural proprieties (“proprietà culturali immateriali”), massimo riconoscimento conferito a comunità che realizzano l’artigianato, e i National Living Treasures (“tesori nazionali viventi”), la somma onorificenza concessa ad una singola persona.

Perciò i new crafts si trovano coinvolti in quella fitta trama di processi sociali, critici ed economici che riguardano l’apprezzamento di un quadro di Rubens, di una sedia di Chippendale o di un mucchio di mattoni esposti come opera d’arte alla Tate Modern di Londra.

 

 

Note

1 Un esempio è Carlo Rizzarda, maestro del ferro battuto (1883-1931), le cui opere sono raccolte nel palazzo Cumano di Feltre (oggi parte dei Musei Civici) (Lanza 2001).
2 Per l’ampio dibattito attuale intorno a queste categorie e i loro confini liquidi cfr. Lees-Maffei & Sandino (2004).
3 Per un’analisi storica del fenomeno si vedano Bologna (1972) e Lucie-Smith (1984).
4 Per una retrospettiva sugli Studio Crafts negli Stati Uniti, cfr. Manhart & Manhart (1987). Cfr. Greenhalgh (2002) per quanto riguarda gli sviluppi e le riflessioni più recenti.

 

 

Bibliografia

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