Ágalma 14 – Outsider Culture Torna al sommario del numero

Sarah F. Maclaren – L’architettura magnifica di Achilles G. Rizzoli


Rizzoli, artista “outsider” sui generis

Achilles G. Rizzoli (1896-1981), rimasto totalmente ignorato durante la sua vita, è ormai riconosciuto come uno degli outsider artists più originali del Novecento. Scoperto casualmente nel 1990, quando una parente portò alcune delle sue opere presso una gallerista, Rizzoli è ormai entrato nella sfera dei “classic outsiders” (Maizels 2002), a cui sono stati dedicate numerose mostre, nonché un bellissimo film-documentario realizzato da Pat Ferrero (2000) (1). Rizzoli è stato paragonato a Blake, Piranesi, Escher e i suoi disegni sono considerati come dei veri e propri capolavori dell’architettura visionaria.
Difatti l’immensa attività di questo artista, le cui opere sono magnifiche visioni, “simbolizzazioni” di persone e di eventi, una città ideale, nonché una terza parte della Bibbia, sarebbe vista come aberrante se non esistesse la categoria dell’outsider art. Come è noto, il termine outsider art, coniato da Roger Cardinal (1972) quale sinonimo dell’art brut, designa artisti che operano al di fuori o ai margini della cultura ufficiale.

Superata la prima definizione che la circoscriveva quasi esclusivamente all’attività dei folli (2), come quella a cui si riferiva l’artista francese Jean Dubuffet (1949), fondatore della Collection de l’Art Brut nel 1948 a Losanna in Svizzera, oggi l’outsider art comprende molteplici fili tematici (3). Outsider art indica anche l’arte “fuori dalle norme”, eccentrica, autodidatta con una spiccata originalità (Maizels 2002, p. 30): s’identifica con quegli artisti autodidatti che non sono mai stati istituzionalizzati, che hanno avuto pochissimi o nessun contatto con le principali istituzioni che regolano e ruotano intorno al mondo dell’arte; la loro attività è il risultato di motivazioni intrinseche, come anche la scelta di materiali e di tecniche. Nonostante molti outsider artists mostrino condizioni mentali estreme, come nei celebri casi di Adolf Wölfli, Aloïse Corbaz, Madge Gill e Henry Darger, la maggior parte si dedica ad un’attività frenetica, documentando vaste realtà immaginarie dense di significati personali.

Rizzoli tuttavia costituisce un caso peculiare di outsider artist, sia per la sua preparazione artistica sia per la sua condizione sociale. Nato nel 1896 vicino a Port Reyes a nord di San Francisco nel 1896, Achilles fu il quarto di cinque figli nati da Innocente e Emma, due emigrati italo-svizzeri arrivati in California nel 1880 (Hernandez 1997, pp. 14 sgg.). Dopo un’infanzia quasi priva di nota, nel 1912 si trasferì ad Oakland per seguire gli studi presso l’istituto politecnico di ingegneria. Dotato di ottimo talento per la meccanica, la geometria e l’ingegneria elettrica, dimostrò un notevole interesse anche per l’architettura, la costruzione, il disegno e l’invenzione. È proprio questa preparazione formale a contraddistinguere Rizzoli dalla maggior parte degli outsider artists. Il giovane Achilles tuttavia vedrà distrutta la propria carriera scolastica da una serie di eventi nefasti che nel giro di pochi anni cambieranno radicalmente la sua vita. Il 1915 fu un anno cruciale in senso positivo e negativo. A diciannove anni Achilles perse il padre, che sparì misteriosamente. Soltanto ventun anni più tardi il cadavere fu ritrovato e si scoprì la causa della morte avvenuta per suicidio. La sparizione del padre si aggiunse ad altri tragici eventi familiari, quali una gravidanza inattesa da parte della sorella maggiore e la scomparsa del fratello. Ma il 1915 fu anche l’anno che illuminò Rizzoli. Trasferitosi definitivamente a San Francisco, Achilles partecipò alla frenesia che investiva la città dove aveva luogo l’Esposizione internazionale del Panama-Pacifico, un evento avveniristico e utopico che voleva celebrare la rinascita della metropoli californiana dopo il catastrofico terremoto del 1906. Sarà proprio questo evento celebrativo ad avere profonde ripercussioni sugli ideali del giovane artista e sulle sue concezioni architettoniche.

Nel 1916 Rizzoli divenne membro del «San Francisco Architectural Club», un’alternativa ai limitati corsi universitari disponibili, dove rimase fino al 1922. Durante questi anni ebbe l’opportunità di continuare i suoi studi artistici e tecnici: frequentò i corsi di preparazione professionale come il disegno meccanico e il disegno in prospettiva. Fu introdotto anche alle teorie classiche sulle relazioni proporzionali tra l’architettura e il corpo umano. In questo periodo, Achilles approfondì le sue conoscenze dell’architettura civile, che aveva iniziato nel politecnico di Oakland. Risale infatti al 1915 l’opera City Hall (realizzata per la fine del corso all’istituto), un disegno architettonico accuratamente eseguito che raffigura un monumento neoclassico con una cupola, portici e colonne. Con la frequentazione dei corsi al «San Francisco Club» Rizzoli avrebbe consolidato le sue conoscenze del neoclassicismo accademico e la sua preparazione tecnica.

La formazione di Rizzoli fu basata sui principi dell’Ecole des Beaux-Art di Parigi, che divenne lo standard per l’istruzione architettonica negli Stati Uniti nelle prime decadi nel Novecento (Beardsley 1997, pp. 70-1). Il Beaux-Art avrebbe fornito a Rizzoli un ampio repertorio di forme storicistiche attinte soprattutto all’architettura classica antica e rinascimentale, senza trascurare quella gotica e romanica. Avrebbe appreso i principi di composizione basati sull’unità e sull’ordine, la progettazione assiale e radiale, la simmetrica disposizione delle forme, le proporzioni dell’ordine classico e gli schemi decorativi armonici. Altrettanto importante secondo i criteri del Beaux-Art, era il disegno di presentazione (il projet rendu), che avrebbe fornito al nostro i metodi per la realizzazione del disegno in prospettiva, su cui avrebbe basato la maggior parte della sua produzione artista, raggiungendo un eccezionale e originalissimo livello di espressività. I projets rendus generalmente rappresentavano progetti architettonici ipotetici con l’intento di dimostrare che lo studente aveva appreso le idee e le forme di progettazione. Questi erano dei bozzetti che dovevano essere realizzati nei minimi dettagli. I disegni finali erano eseguiti in inchiostro, erano di grandi dimensioni (potevano arrivare ad un metro di lunghezza), estremamente dettagliati, e richiedevano moltissimo tempo per la loro realizzazione (anche tre mesi di impegno costante). I disegni dovevano essere conformi all’istruzione architettonica ricevuta e venivano sottoposti ai giudici che, nei concorsi prestabiliti, esaminavano il progresso degli studenti. Questi disegni presentavano progetti, elevazioni, sezioni e dettagli di schemi decorativi.

Le elevazioni generalmente mostravano la facciata principale senza alcun riferimento al contesto urbano o al paesaggio. Erano inoltre rese senza prospettiva e si utilizzavano le ombre per dare profondità all’immagine. Nei livelli superiori di studio – e soprattutto per coloro che concorrevano per il Gran Prix di Roma – si richiedeva il disegno di una megastruttura civile o religiosa, come ad esempio un palazzo o una cattedrale, di terme pubbliche, una scuola, una biblioteca, un monumento o un cenotafio (erano quasi del tutto assenti progetti commerciali o industriali). Nel corso degli anni, queste strutture ipotetiche divennero così elaborate e i disegni così enfatici, che finirono per risultare del tutto estranei all’architettura vera e propria; erano degli esercizi di stile che si trasformarono in opere artistiche “per sé”, del tutto indipendenti dalla loro realizzazione.

Questa formazione costituirà la base del lavoro artistico e creativo di Rizzoli, distinguendolo dalla maggior parte degli outsider artists. Nonostante tutte le sue idiosincrasie, il Nostro si affiderà sempre a questo background per realizzare quella che lui stesso definirà “la più magnifica architettura mai realizzata”, la sua città ideale (Y.T.T.E.), le simbolizzazioni di persone a lui care, nonché la terza parte della Bibbia.

 

“Madre simbolicamente rappresentata”

Nel 1935 Rizzoli s’imbarca in uno dei progetti visionari più originali mai eseguiti. Si tratta di disegni prospettici in cui magnifici edifici pubblici, civili e religiosi, non sono altro che la “simbolizzazione” o la “rappresentazione” di persone ed eventi cari all’artista.
Queste “simbolizzazioni”, tuttavia, non si limitano a rendere omaggio alle persone vicine a Rizzoli, ma testimoniano la sua outsiderness psicologica e sociale. In queste rappresentazioni avvertiamo le difficoltà caratteriali di Rizzoli, la sua componente psico-patologica, il suo profondo disagio sociale, nonché la sua grande frustrazione sessuale. Ai tragici eventi familiari e al rapporto morboso con la madre (su cui torneremo tra breve) si aggiunge un enorme senso di impotenza e di incapacità di relazionarsi con gli altri. Già agli inizi degli anni Venti, Rizzoli si rende conto che la vita non sarà affatto come se l’aspettava. I piccoli impieghi che trova non sono molto gratificanti. Probabilmente è disoccupato durante gli anni della Depressione.

Si lamenta, in una lettera, che deve lavorare fino ad otto-dieci ore al giorno per riuscire a coprire le spese mensili della casa, che comprendeva anche il mantenimento della madre (Hernandez 1997, p. 17). È un uomo deluso, che si sente ingiustamente privato delle opportunità di inserimento e di riconoscimento sociale che avrebbe invece desiderato. La dimensione psico-patologica non lo aiuta ad inserirsi: non ha amici, conduce una vita solitaria, ha pochissimi contatti sociali, e rimane vergine per tutta la vita. Tuttavia, come Pat Ferrero ha messo in evidenza nel suo raffinato film-documentario, Rizzoli fu un uomo sensibile e mite, dai gusti fini e con uno spiccato senso dell’umorismo, che amava fare i giochi di parole e comporre poesie. Uno dei pochi conforti lo trova nella religione cattolica e nella ossessiva frequentazione della chiesa parrocchiale locale (andava a messa anche cinque volte al giorno).
Nel 1936 riesce finalmente a trovare un lavoro stabile come bozzettista presso il piccolo studio architettonico di Otto A. Deichman, al quale sarà sempre molto grato. Qui lavorerà in maniera ineccepibile per quasi quarant’anni, tenendo a bada i suoi disagi psicologici. Infatti un collega lo descrive come coscienzioso e diligente, sebbene silenzioso e non-comunicativo. Violetta Autumn, un architetto in pensione che lavorò nello studio di Deichmann per alcuni mesi nel 1954, lo descrive in maniera più equivoca: “pensavo che fosse un po’ pazzo. Aveva una propria realtà: aveva due vite” (Beardsley 1997, p. 98). Introverso, isolato ed emarginato (nella profondità dell’animo di sentirà sempre “il piccolino”), Rizzoli finirà per condurre una doppia esistenza (fino al 1977 quando viene colto da un colpo apoplettico che lo obbliga a ritirarsi in una casa di cura): di giorno è un introverso, ma zelante impiegato; nel tempo libero invece può dare libero sfogo ai suoi sogni. Le “simbolizzazioni” fanno parte di un mondo utopico e meraviglioso, dove non c’è spazio per il dolore e la solitudine, ma finalmente esistono solo la gioia, la bellezza e la magnifica architettura eseguita per conto di Dio.

Sono state ritrovate all’incirca due dozzine di queste “simbolizzazioni”, che costituiscono, come è stato accennato, uno degli aspetti più innovativi dell’immensa opera di Rizzoli. Sono enormi disegni prospettici eseguiti con inchiostro di vari tipi di edifici e monumenti realizzati in vari stili e con una quantità impressionante di dettagli. Si tratta di una trasformazione attraverso cui una persona è, secondo le stesse parole dell’artista, “simbolicamente disegnato”, “rappresentato” o “reso”, ossia emblematizzato in un esempio di architettura visionaria (4). Con questi ritratti “simbolici” Rizzoli voleva glorificare parenti e conoscenti a lui particolarmente affezionati o che erano stati gentili e riguardevoli nei suoi confronti, e condurli in un mondo paradisiaco da lui stesso creato.

Tra i primi disegni ad essere realizzati in questa serie, non potevano mancare quelli dedicati alla madre, a cui l’artista dedica un intero ciclo noto come “Kathedral” (5), in cui la Signora Rizzoli è rappresentata come l’edificio religioso per eccellenza, ossia la cattedrale. La prima opera, che s’intitola Mother Symbolically Represented/The Kathedral fu realizzata nel 1935. Ci troviamo dinanzi ad una sorta di magnifico ed enorme biglietto di compleanno (il quadro misura 85,7 x 55,6 cm), che raffigura una splendida cattedrale, in stile neo-gotico e riccamente ornata, con cui Rizzoli vuole onorare e simbolizzare la forza, la bellezza e la profondità spirituale della madre, nonché trasformarla in uno dei monumenti principali di Y.T.T.E., ossia la sua città immaginaria.
Rizzoli ebbe un rapporto molto particolare con la madre e i drammatici eventi della sua famiglia non gli permisero di staccarsene. A metà del 1933, Achilles e sua madre si stabilirono in una modesta casetta di quattro camere in un quartiere operaio di San Francisco, dove sarebbe rimasto per il resto della sua vita. Questa casa è stata anche raffigurata nell’opera A.T.E. Portfolio A-13 (1940), la cui modestia contrasta enormemente con le stupende raffigurazioni a cui l’artista ci ha abituati (Hernandez 1997, pp. 24-25). L’esistenza di Rizzoli era così dipendente dalla madre, che quando quest’ultima morì nel gennaio del 1937 a sessantré anni, a causa del diabete che le aveva provocato l’amputazione di una gamba andata in cancrena, non riuscì mai a superare lo shock. Dopo la sua perdita, Achilles non fece alcun tipo di cambiamento nella casa: conservò tutti gli abiti e gli oggetti della madre; dormì nel lettino ai piedi di quello materno come aveva fatto quando lei era viva, e continuò a farlo per i successivi trent’anni. La famiglia si ricordava che Rizzoli andò a pezzi dopo la morte della madre.

Si ritirò sempre di più in un’esistenza ascetica, attenendosi ad una rigida routine quotidiana, dalla quale non si scostava mai, persino consumando sempre gli stessi cibi. Spendeva pochissimi soldi per gli alimenti e ancor meno per i vestiti, preferendo utilizzarli per acquistare materiali per realizzare le sue opere. Lasciò che la casa andasse a pezzi; non riparò il tetto quando si formò un buco; e la pianta di vite prese il sopravvento, coprendo la facciata della casa ed addirittura invadendola. Proprio a causa di questa vite, i vicini non videro mai la luce accesa di notte e i bambini del vicinato erano convinti che la casa fosse abitata dagli spiriti! La sua vita intima si popolava sempre di più di visioni di edifici immaginari e dei suoi sforzi per realizzarli.

La perdita della madre, che si sommava al trauma in seguito al ritrovamento del padre avvenuto l’anno precendente, fu un colpo durissimo. Dopo la prima “simbolizzazione” della madre ne seguirono varie altre, che venivano eseguite ogni anno per commemorarne il compleanno. Ciascuna rappresentava una differente elevazione della Kathedral. Ogni anno diventavano sempre più complesse, raggiungendo la massima eloquenza con Mother Symbolically Recaptured (che misura cm 76,5 x 127,6) eseguita subito dopo la sua morte nel 1937. Nella prima cattedrale del 1935, che rappresenta l’elevazione meridionale, abbiamo due torri diseguali al fianco dell’ingresso principale. Nella Kathedral del 1937, che presenta una straordinaria somiglianza col Duomo di Milano, non solo vengono aggiunte altre due, ma vi sono una tale quantità di campate, speroni, guglie, passerelle, ponti, statue, vetrate, intagli e fiori da dar lavoro ad un esercito di artisti, carpentieri e quant’altri per secoli! Nonostante la ricchissima ornamentazione gotica, Rizzoli non manca di aggiungervi elementi moderni. Nel giardino acquatico che la circonda, vediamo laghetti con fontane e luci elettriche. La raffigurazione ha inoltre un non so che di hollywoodiano con un’ambientazione attinta dal mondo cinematografico e pubblicitario, a cui Rizzoli non era del tutto indifferente. E, come se non bastasse, vi è una piccola figura maschile vestita di bianco che vigila il portone dell’ingresso principale, che raffigura lo stesso Rizzoli come guardiano della cattedrale. Questa architettura è visionaria fino al punto di prescindere da qualsiasi possibilità di realizzazione materiale. Ed è la manifestazione di un amore filiale portato all’estremo (Cardinal 1997, p. 102).

Il concetto di metamorfosi di esseri umani che vengono trasformati in pietra o in altri materiali ha molti precedenti nella tradizione letteraria e nelle tradizioni orali. Medusa e re Mida nei miti greci, principesse e cavalieri nelle favole sono solo alcuni degli elementi più lampanti. Jo Hernandez (1997, p. 22), nel suo preziosissimo saggio biografico su Rizzoli che fa parte del catalogo realizzato per la prima mostra sull’artista nel 1997 e nel 1998, sottolinea giustamente come le metamorfosi di Rizzoli non sono basate sulla paura, sulla punizione o sull’assoggettamento, bensì sull’ammirazione e sull’amore. John Bearsdley (1997, pp. 90 sgg.) a cui dobbiamo il bellissimo articolo sulla formazione architettonica dell’artista, contenuto sempre nello stesso catalogo, propone un’interessante interpretazione su queste simbolizzazioni: Rizzoli si collocherebbe nella corrente dell’”architettura parlante”, cioè di quel filone, sviluppatosi nel Settecento in Francia, secondo cui ogni edificio deve intrattenere una stretta relazione estetico-psicologica con il suo “carattere”, facendo in modo che dalla stessa costruzione sia esplicito il proposito della stessa (6). Secondo Jacques-François Blondel per esempio, a cui si deve il particolare rilievo dato alla nozione di “carattere”, nella costruzione di templi, basiliche, edifici pubblici e tombe di grandi uomini bisogna utilizzare un “carattere” sublime, saldando una stretta relazione tra l’esterno e l’interno degli edifici (Szambien 1986, p. 49).

Rizzoli quindi, secondo Beardsley, potrebbe inserirsi in questa “fisionomizzazione” dell’architettura che ha avuto illustri precedenti nelle opere di Claude-Nicholas Ledoux (1736-1806), Etienne-Louis Boullée (1728-1799) e Jean-Jacques Lequeu (1757-ca. 1825). Rizzoli infatti cercava nelle regole delle forme architettoniche il modo di trasformare quei “caratteri” che lui trovava nelle persone. Questo intento sarebbe ulteriormente avvalorato dal fatto che Rizzoli sceglieva una specifica tipologia di edifici a seconda del sesso della persona che voleva rappresentare (cattedrali e chiese per il sesso femminile; torri per quello maschile) (Beardsley 1997, p. 92). Tuttavia il nostro artista avrebbe seguito questa strada in modo del tutto inconsapevole (7). È molto più probabile che fosse rimasto influenzato dagli edifici costruiti nell’Esposizione di San Francisco del 1915, dove vi erano anche delle costruzioni che impiegavano alcune forme di “psicologizzazione”.

Nonostante l’interpretazione di Beardsley sia molto interessante, a noi sembra un poco fuorviante, perché tende ad accentuare il lato convenzionale e formale di Rizzoli, senza tenere in considerazione la sua dimensione fortemente visionaria (8). Con Rizzoli infatti ci troviamo dinanzi ad un mitografo ossessivo che ha passato decadi a documentare una realtà immaginaria densa di significati personali. Come rileva Roger Cardinal (1997, p. 120), il nostro artista si diverte quando può dare libero sfogo alla sua assoluta potenza immaginaria, sia quando raffigura una torre con evidenti richiami fallici sia quando riempie tutti gli spazi vuoti dei suoi disegni con assurdi testi, sonetti e informazioni. Questi erano evidentemente dei meccanismi che consentivano a Rizzoli, come a molti altri artisti outsiders, di tenere il mondo esterno a bada e di evitarne il sopravvento. La trasformazione di corpi in magnifici edifici a noi ricorda quel processo di reificazione che Mario Perniola (2004) ha descritto come il “sex appeal dell’inorganico” e in particolare nella sua teoria del “quarto corpo”.

Infatti attingendo ad un’analisi effettuata dallo psichiatra francese Gaëtan Gatian de Clérambault, noto per essere stato il maestro di Jacques Lacan, sulla reificazione dei corpi attraverso la stoffa, Perniola ipotizza l’esistenza di una dimensione “inorganica” e neutrale dell’esperienza sessuale, che fa saltare le tradizionali separazioni. Tra i molti casi clinici che seguiva, Clérambault aveva trovato che molte donne avevano una sorta di attrazione sessuale verso la stoffa e in particolar modo verso la seta. L’esperienza sensoriale che queste donne provavano costituiva un tipo di esperienza neutrale causata dal contatto con la stoffa. Un analogo tipo di esperienza inorganica è suscitata guardando le numerose fotografie etnografiche che Clérambault fece in Marocco dal 1912 in poi. Queste raffigurano corpi di donne, di uomini e di bambini interamente avvolti in enormi drappi dai quali non si intravede alcuna parte del corpo all’infuori delle mani. L’immagine del corpo è completamente sostituito e cancellato dalla stoffa. Questi “nuovi” corpi non hanno più niente di organico; sembrano completamente indipendenti dai corpi in carne e ossa che sono nascosti.

Le “simbolizzazioni” di Rizzoli potrebbero quindi rappresentare un’ulteriore dimensione dell’esperienza inorganica, in cui abbiamo a che fare con monumenti architettonici, anziché ampi drappeggi. Infatti le cattedrali e le altre rappresentazioni non lasciano intravedere una forma umana; ogni parte degli edifici è ricoperta fino all’inverosimile di ornamenti, statue, luci, che possono essere addirittura irritanti. Questo aspetto inorganico sembra essere avvalorato anche dalla teoria formalista dell’arte dei folli avanzata da Hans Prinzhorn nella sua opera fondamentale Bildnerei der Geisteskranken (1922). Nell’opera di Rizzoli troviamo una combinazione significativa di alcuni degli “impulsi” creativi individuati da Prinzhorn, come quello ornamentale, simbolico, giocoso e formale: infatti i suoi quadri sono composti da costruzioni e altre forme rese con infiniti dettagli e ornamenti, con trasfigurazioni simboliche, giustapposizioni ironiche, testi e poesie, nonché la necessità di riempire l’intero foglio, affinché neanche il minimo spazio rimanga vuoto (Bowler 1997, p. 16). Anche i testi che accompagnano le costruzioni sembrano generati da una forma di automatismo mentale, poiché sono completamente indipendenti dal soggetto. Queste reificazioni sono molto probabilmente provocate dalla forte frustrazione sessuale di Rizzoli.

Questa frustrazione diventa ancora più evidente in altre “simbolizzazioni” dedicate soprattutto alle bambine che visitavano le mostre personali, chiamate Achilles Tectonic Exhibit, che Rizzoli organizzava nella propria casa ogni anno in agosto a partire dal 1935. Shirley Jean Bersie, che aveva appena sei anni quando vide la mostra di Rizzoli, viene “simbolizzata” in uno splendido tempio nel 1939 (si tratta di Shirley Jean Bersie Symbolically Sketched). Nel quadro l’artista si premura di informarci di aver raffigurato la bambina “in profonda gratitudine per il premuroso interesse che lei ha mostrato per l’A.T.E.” (Hernandez 1997, p. 35). Nell’elaborato disegno si può individuare una giustapposizione tra la concezione dell’arte “alta” e evidenti richiami ad effetti cinematografici; anche la scelta del nome e la canzone contenuta nel quadro ci ricordano la famosa bambina-attrice Shirley Temple. L’anno prima aveva realizzato Grace M. Popich Symbolically Sketched, che raffigura un assurdo edificio ibrido tra la Torre di Londra e il Colosseo di Roma, perché la bambina aveva dimostrato “buon gusto… mentre visitava l’A.T.E. con un gruppo di amiche”.

Ma la sublimazione di questa sessualità “altra” viene raggiunta in The Primalglimse At Forty (1940; cm 137,2 x 67,6). Questa volta non ci troviamo più di fronte alla “simbolizzazione” di una persona, bensì di un evento. L’enorme torre, con espliciti richiami sessuali, raffigura gli effetti dell’epifania erotica che Rizzoli ebbe il 12 aprile 1936, quando vide per la prima volta una bambina di tre anni mentre giocava nuda. Nel quadro viene indicato quando l’artista ebbe questa visione – tra le 2 e le 4 del pomeriggio – e che la torre vuole rappresentare “le reazioni provate durante quel momento incomparabile”. Anche l’opera The Veeaye/The Ornament (1940) testimonia le sue difficoltà sessuali. Nel 1938 realizzò The Bluesea House, in cui simbolizza il rapporto sessuale in maniera piuttosto ingenua, con una grande varietà di misurazioni, di grafici, di diagrammi, nonché di commenti allo stesso tempo seri e spiritosi. Ma nonostante l’artista provasse una profonda frustrazione sessuale, questa non lo portò mai ad importunare le bambine, né tantomeno incrinò la sua mitezza e il suo senso dell’umorismo.

 

 “Yield To Total Elation”: l’esposizione della magnitudine, magnificenza e manifestazione

Alcune “simbolizzazioni”, come quelle della madre, sono monumenti di Y.T.T.E. (pronunciato /itti/), la meravigliosa città utopica che Rizzoli progetta e su cui lavora intensamente dal 1935.
Si tratta di una città dove finalmente l’artista può realizzare i suoi magnifici progetti architettonici, dove tutto è stato pensato nei minimi dettagli, dove persino il dolore è stato eliminato, in modo che ci si possa abbandonare ad una gioiosa, se non addirittura giubilante, esistenza.
Y.T.T.E. è una città immaginaria progettata su un’isola utopica (seguendo una lunga tradizione che va da Thomas Moore a Giorgio De Chirico e Arata Isozaki), fondata da un architetto fittizio tale Vincent Argent Reamer. La forma dell’isola, se invertita, assomiglia molto alla punta meridionale di Marin County, a nord di San Francisco, dove i genitori di Rizzoli si sistemarono dopo il loro arrivo dalla Svizzera meridionale e dove nacquero l’artista e i suoi fratelli (9).

In questo fantastico progetto possiamo vedere come l’Esposizione internazionale di Panama e del Pacifico di San Francisco del 1915 abbia influenzato fortemente il nostro artista. Costruita nel giro di pochissimi mesi sulla baia dell’omonima città, per celebrare l’apertura del canale di Panama, l’esposizione era anche un tributo al processo tecnologico e alla rinascita di San Francisco dopo il terribile terremoto e l’incendio che l’avevano devastata nel 1906. Oltre allo stile Beaux-Arts, l’Esposizione era ispirata a The City Beautiful (Beardsley 1997, p. 75). Quest’ultimo era un movimento etico-architettonico, culturale, ambientale, estetico e politico, le cui origini appartengono ai progetti di miglioramento civico sviluppatisi nella metà dell’Ottocento, che mirava a controllare la crescita sostenibile della città con una combinazione di architettura neo-classica, piazze solenni, edifici pubblici, parchi urbani e un design paesaggistico naturalistico. Questo movimento sembra avere dei punti di coincidenza con l’idea di “magnificenza pubblica” (Maclaren 2005), ossia con un’idea di architettura pubblica dotata di eccellenza artistica, estesa ad ogni sorta di edifici e di costruzioni. Infatti le ambizioni di questa corrente andavano ben oltre il miglioramento urbano e sembrano ispirarsi a quell’idea di magnificenza moderna messa in atto da Ledoux quando realizzò la salina di Chaux nella Francia Contea dal 1773 al 1778 (Maclaren 2005, pp. 101 sgg.; Vidler 1990, pp. 229 sgg.).

Le ambizioni dei teorici e degli architetti, tra i quali Daniel Burnham, Warren Manning e Charles Mulford Robinson, non si fermavano alla mera progettazione: credevano che un ambiente salubre potesse avere notevoli effetti sulla popolazione, creando cittadini migliori, lavoratori più efficienti, nonché un migliore clima economico. In seguito questo movimento fu fortemente criticato per avere adottato stili retrò e progetti estremamente costosi. Tuttavia The City Beautiful ha lasciato un patrimonio di edifici e monumenti pubblici realizzati con grande competenza tecnica combinati ad un elevato senso estetico, insieme a bellissimi parchi urbani, strade radiali e boulevard, che a tutt’oggi costituiscono ancora i migliori esempi architettonici nelle città in cui sono stati realizzati.
L’Esposizione quindi fu realizzata unendo i principi del programma del City Beautiful e quelli del Beaux-Arts. Fu progettata con piante razionali, coordinati stili architettonici, nonché un programma unificato di ornamento scultureo. Fu organizzata intorno a spazi con nomi fortemente evocativi come la Corte dell’universo, la Corte delle epoche (Ages), la Corte delle quattro stagioni; l’Expo era inoltre dotata di otto grandi palazzi dedicati a temi quali l’agricoltura, il trasporto, la produzione industriale e le arti liberali. Una delle attrazioni principali era il Palazzo delle Belle Arti, collocato presso una laguna. Questo costituisce l’unico edificio che non fu demolito e che oggi è l’Exploratorium. Questo palazzo fu creato per evocare una rovina greca o romana; si sostiene che riprenda il Tempio di Minerva Medica, così come fu riprodotto da Piranesi nelle sue Antichità Romane (Beardsley 1997, p. 74).

Ma l’Esposizione era anche piena di effetti speciali e moderni, utilizzando stratagemmi tipici del cinema hollywoodiano e della pubblicità. Di notte, i palazzi erano illuminati; vi era un’installazione speciale, chiamata Scintillator, realizzata con quarantotto fari che illuminavano il cielo con aurore artificiali. Luci rossi e gialle rischiaravano le fontane e le nuvole di vapore; la vetrata verde del Palazzo dell’Agricoltura era internamente illuminata, creando l’impressione di essere un opale gigantesco. E poi, la più spettacolare di tutte era la Torre dei Gioielli, la costruzione più alta dell’esposizione; ricoperta di vetrate artistiche e contornata di specchi, luccicava di giorno e di notte. Se l’Esposizione doveva stupire e meravigliare come un film, non doveva venir meno nei suoi intenti morali: essa infatti stimolava il miglioramento educativo e culturale dei suoi visitatori, secondo i principi avvalorati dal City Beautiful Movement.
L’Esposizione tuttavia comprendeva anche una zona di divertimento, nominata The Joy Zone. Seguendo le istanze moralistiche del City Beautiful, quest’area era rigorosamente separata dalla parte principale dell’Expo. Si caratterizzava per la varietà e per il disordine: al posto dell’educazione vi era il divertimento, e la leggerezza si sostituiva alla sobrietà. Sebbene la replica del canale di Panama ne fosse la maggiore attrazione, in questa zona si potevano vedere un’enorme varietà di cose: da persone deformi, a curiosità mediche ed etnografiche, e spettacoli con signorine succinte. Vi erano inoltre le ricostruzioni di scene naturalistiche (come il parco nazionale di Yellowstone) e di progressi scientifici e tecnologici (come una strada ferrata e incubatrici con bambini prematuri).

Rizzoli doveva essere rimasto talmente colpito dall’Esposizione da considerarla come un punto di riferimento essenziale per la realizzazione della sua città utopica. Se guardiamo le piante progettuali del sito (plot plans), di cui Rizzoli realizzò almeno una mezza dozzina, troviamo una dettagliatissima pianificazione urbana, corredata di disposizioni radiali, di forme simmetriche, di un coordinato sistema compositivo, nonché di una composizione ossessiva dei dettagli. Come l’esposizione, anche l’Y.T.T.E. è organizzata intorno a corti e a spazi cerimoniali. Una di queste corti è dedicata alle quattro stagioni, che Rizzoli, con il suo solito umorismo, chiama Eagerray (primavera), Nevermine (estate), Roomiroll (autunno) e Tootlewoo (inverno). Rizzoli vi trova altri spunti come ad esempio la divisione delle zone (separando le aree cerimoniali da quelle industriali ed agricole), e anche la scelta di nomi altamente retorici per i suoi monumenti (come la Torre della Cultura, la Torre della Pace, la Corte di Giustizia).

Rizzoli tuttavia non si limita a “copiare” l’esposizione, ma trasforma la sua Y.T.T.E. in The Expeau of Magnitudine, Magnificence and Manifestation: dichiara infatti che “sembra la creazione della capitale del mondo” e che “nulla di simile è mai stato tentato prima” (A.T.E. Portfolio 1940). Rizzoli attinge ad una concezione rinascimentale dell’architettura, intesa come massima espressione della cultura e delle arti; ricorre frequentemente nelle sue opere l’acronimo AMOTA, che sta per “Architecture Mother of The Arts”. Anche l’architetto è concepito come un umanista che pratica le arti liberali e come un portatore di civiltà. Non a caso, i suoi primi sforzi artistici, avvenuti tra il 1927 e il 1933, consistevano in una serie di novelle e brevi racconti che descrivevano i tentativi utopici di un gruppo di architetti idealisti (Hernandez 1997 p. 17). Dopo aver tentato invano di trovare un editore per i suoi scritti, nel 1933 Rizzoli decise di auto-pubblicare il testo The Colonnade con lo pseudonimo di Peter Metermaid. Il romanzo ruota intorno all’architetto Vincent Reamer (lo stesso che ha fondato Y.T.T.E.), che cerca di far colpo sulla sua innamorata costruendo un monumento con un’infinità di colonne. Reamer è molto probabilmente l’alter ego di Rizzoli: emblematica è la descrizione di Reamer “che ha paura delle fanciulle, ma non delle colonne”! Non riuscì a vendere neanche una copia del libro; le tremila copie furono trovate perfettamente imballate nella sua casa. Nonostante la delusione, Rizzoli continuerà a riempire tutti i suoi disegni con testi, poesie, descrizioni, rime, acronimi e quant’altro, dominato da un horror vacui condiviso da molti altri outsider artists.

Rizzoli potrebbe inserirsi in quella corrente plurisecolare di architetti, animati da volontà di potenza, che ritenevano di avere il mondo nelle proprie mani, di poter realizzare un nuovo universo e addirittura di sfidare Dio. Claude-Nicholas Ledoux, forse il più grande architetto del Settecento francese, che assimilò e applicò all’architettura il messaggio dell’Encyclopédie (Vidler 1990, p. 13), definiva l’architetto “il rivale di Dio” (Bloch 1959, vol. 2, p. 857). E anche l’italiano Giovanni Battista Piranesi, nonostante non avesse avuto la medesima fortuna di Ledoux (l’unica opera che riuscì realizzare fu il rifacimento della chiesa di Santa Maria del Priorato sull’Aventino a Roma nel 1764), nutriva simili ambizioni nei confronti dell’architettura. Racconta Legrand (1799, in Erouart e Mosser 1978, p. 248), il biografo di Piranesi, che quest’ultimo un giorno dichiarò: “ho bisogno di produrre delle grandi idee, e credo che se mi si ordinasse il piano di un nuovo universo, avrei la follia di intraprenderlo”.
Tuttavia, anziché “sfidare Dio”, Rizzoli si vede come “l’architetto di Dio”: la sua dedizione all’architettura dimostra il suo amore per Dio. L’architettura di Rizzoli non è altro che una manifestazione della “magnificenza” divina (Maclaren 2005, p. 13). Per l’artista Dio è l’origine di tutta la creazione; e l’architetto non fa altro che realizzare e “lasciarsi guidare dalla divina provvidenza”: Rizzoli si considerava “l’amanuense architettonico di Dio”. La religione cattolica è un punto di riferimento fondamentale per il nostro artista. Con il passare degli anni la sua devozione aumenta e culmina con il suo battesimo tenutosi l’8 marzo 1952 all’età di cinquantacinque anni. La religione è probabilmente l’ancoraggio che gli consente di condurre un’esistenza relativamente “normale” nella sua vita lavorativa e sociale (per quanto quest’ultima sia estremamente limitata).

Ma questa gli offre anche la sponda per realizzare le sue fantastiche creazioni artistiche, gli fornisce un universo visionario e onirico, e gli fa credere che la sua missione sia creare un mondo bellissimo e giubilante pieno della manifestazione divina. La plot plan di Y.T.T.E è infatti simile a quella di una cattedrale; la stessa città è piena di “architettura paradisiaca” (“heavenly pieces of architecture”), le “simbolizzazioni” sono “case paradisiache” o “eredità paradisiache” (Hernandez 1997, p. 19) e gli edifici sono raffigurati secondo gli ideali conferiti da Dio, rappresentati come Rizzoli immaginava che fossero in paradiso. L’architettura è “fatta per far gioire” (A.M.T.E.Architecture Made to Entertain); è una “stravaganza celestiale”. E lo stesso nome che Rizzoli sceglie per la sua magnifica città suona come un messaggio estatico ispirato da Dio: “Yield To Total Elation”, una città in cui ci si può abbandonare, soccombere al totale giubilo!
La Joy Zone di Rizzoli è una bellissima città progettata su schemi neoclassici e circondata da mura, spianate, moli, belvederi e terrazze panoramiche. Si dispiega da nord a sud con il lato occidentale che costeggia il mare. L’ingresso principale per il pubblico si trova sul versante orientale. Attraverso l’imponente porta si accede ad un bellissimo viale che conduce alla torre della vita e alla corte centrale; quest’ultima è suddivisa nei quadranti che indicano le quattro stagioni (che Rizzoli rinomina con gli epiteti spiritosi che abbiamo visto), disposte secondo i punti cardinali: primavera (est), estate (sud), autunno (ovest) e inverno (nord). Nonostante esistano varie rielaborazioni della pianta, possiamo individuare una certa costanza per quanto riguarda l’organizzazione generale della città e la suddivisione delle diverse aree. Nella zona sud-orientale troviamo alcune costruzioni monumentali, come la Kathedral, il teatro dell’opera, e la corte cerimoniale dove si accolgono gli illustri ospiti stranieri (che accedono alla città dalla grandiosa porta meridionale). Qui sono situati anche un’area di divertimento per i bambini e la torre del fallismo. Il quadrante settentrionale è suddivisa in due zone.

La prima, che si dipana dalla corte delle quattro stagioni, si presenta come un’enorme struttura radiale che rammenta la monumentale rappresentazione degli Orti Domiziani, collocati vicini al mausoleo di Adriano, raffigurati da Piranesi nel frontespizio italiano de Il Campo Marzio dell’Antica Roma (1762). Qui incontriamo la casa della fama, il laboratorio di chimica e il tempio dell’architettura e, più avanti, la fortezza, oltre la quale sono collocati i negozi e i magazzini. Lo zoo e l’uccelleria ci introducono nella zona più settentrionale, debitamente separata dal resto della città; qui ci sono le basi dell’esercito e della marina con le caserme, oltre le quali si spiegano i pascoli per il bestiame, l’aeroporto e la stazione ferroviaria. Nella zona sud-occidentale, invece, troviamo uno stranissimo edificio a forma di scarafaggio: si tratta della fossa della dissolutezza “in cui si vedono entrare a centinaia e ben pochi ad uscirne vivi” (Beardsley 1997, p. 77).

Nella progettazione della sua città, Rizzoli ha cercato di pensare proprio a tutto. Vi sono strutture per l’orientamento in Y.T.T.E., come il Temple of Welcome e l’Y.T.T.E. Information Bureau, localizzati lungo l’asse principale nord/sud, che dirigono i visitatori verso le proprie destinazioni. Vengono inoltre dedicati monumenti al lavoro, alla vita, alla poesia, alla felicità, alla cultura, alla pace e al matrimonio. Se si ha bisogno della toilette, ci si reca all’Acme Sitting Station; se si cerca il divertimento, si può visitare lo Shrine of Make Believe. All’occorrenza, i visitatori possono andare allo Shaft of Ascension, dove si pratica l’eutanasia, per coloro che desiderano avere un indolore dipartita dalla vita terrena. Ciò che sorprende è che questa città non è stata progettata né per abitarvi né per soffrire! Rizzoli infatti non ha previsto né ospedali né prigioni e neppure tutte le altre strutture che erano previste per le classi meno abbienti. Colpisce infine una considerazione che Rizzoli fa a proposito della sua città. Questa, realizzata secondo il volere divino, non solo assicura la bellezza, la felicità e la gioia, ma elimina anche una delle cose per le quali probabilmente Rizzoli soffrì più di ogni altra, ossia una profondissima solitudine. Non sembra casuale infatti che in varie rappresentazioni di Y.T.T.E. e di A.T.E. torni sovente l’esclamazione: “non esiste più nessun motivo per sentirsi soli”.

 

Rizzoli, l’architetto e poeta di Dio

Il 9 febbraio 1958, Rizzoli avviò un nuovo progetto che l’avrebbe occupato per il resto della sua vita. Si tratta dell’A.C.E., ossia dell’AMTE’s Celestial Extravag(r)anza, una compilazione di oltre trecentoventique fogli (che misurano cm 61 x 91.4) di grafite su pergamena. All’inizio Rizzoli intendeva riprodurre poeticamente le sue visioni, unendo la poesia all’architettura. Successivamente tuttavia questo progetto divenne ben più ambizioso, trasformandosi nella terza, e ultima, fase della Bibbia. A.M.T.E.fu presentata ai lettori nella prima poesia dell’A.C.E., come la consorte casta di Cristo, nonché la guida e la principale collaboratrice di Rizzoli. Come fece Beatrice per Dante, Miss A.M.T.E. (come l’artista si rivolgeva a lei formalmente) accompagnò il nostro per le 2600 pagine di poesia, prosa e disegni immaginari dell’A.C.E., mentre costui cercava di riprodurre le parole e le visioni dei santi, degli eroi storici, dei parenti defunti e anche dello stesso Cristo.

Ciascun foglio fu suddiviso in otto sezioni che misuravano 22 cm per 28, pronte per essere tagliate e rilegate in un libro. Ben presto Rizzoli si rese conto che si era imbarcato in un’impresa tutt’altro che semplice; nei suoi appunti commenta come la creazione dell’A.C.E. “implicava vivere con un piede sulla terra e l’altro in paradiso, ossia allargare l’immaginazione fino al suo punto di rottura – un’attività non raccomandabile quando vi sono bollette da pagare” (Hernandez 1997, p. 53). La scelta della pergamena era dovuta sia al fatto che era stata usata dagli antichi scrivani sia alla sua luminosità. Non meno importante era il fatto che la pergamena risultava particolarmente adatta per la riproduzione in stampa. Probabilmente questo fu anche il motivo per cui decise, a malincuore, di usare la grafite al posto del colore.

Rizzoli sottolineava come il suo lavoro era guidato da collaboratori spirituali. Questi comprendevano supplicanti, cantanti di serenate, partecipanti e testimoni immaginari che lo aiutavano a trasformare le sue visioni in testi che fossero comprensibili a chiunque. Tutti questi collaboratori erano indicati come co-autori; nonostante fossero divisi dalle professioni, dai paesi di provenienza e dal periodo storico, tutti collaboravano, affinché ogni poesia fosse portata a termine con successo.
Rizzoli scriveva i suoi versi in brutta copia prima di trascriverli sulla pergamena. Mentre durante i primi tempi riusciva a ricopiarli il giorno stesso, con il passare degli anni gli intervalli si allungarono, provocandogli un’enorme angoscia. Ad un certo momento pensò di ricorrere alla macchina da scrivere per ridurre i tempi, ma abbandonò l’idea perché lo considerava un mezzo poco artistico. Le poesie e i disegni dell’A.C.E. sono accompagnati da liste che includono informazioni riguardo la data, il ritmo o il nome delle poesie, l’argomento delle stesse e così via. Queste liste erano intese come una sorta di inventario, che consentisse di organizzare il materiale in modo da renderlo più accessibile quando sarebbe stato pubblicato. In effetti Rizzoli continuò sempre a sperare di diventare uno scrittore apprezzato e di successo.

Nonostante prendesse la poesia molto sul serio, si rese conto che era estremamente difficile comunicare le sue visioni attraverso le costrizioni tipiche del linguaggio poetico. E per quanto s’impegnasse, i suoi risultati furono estremamente deludenti: le sue poesie erano infantili, pedanti e quasi del tutto illeggibili. Né acquistò maggior talento con il passare degli anni. A volte, i titoli indicavano temi che venivano trattati solo marginalmente nel testo, se non addirittura non trattati affatto. E poi Rizzoli mischiava eventi quotidiani con le sue esperienze spirituali, al punto tale che il lettore non riesce a discernere di quale tipo di esperienza stia trattando. Se all’inizio del progetto Rizzoli si concentrò sulla poesia, successivamente ricorse sempre più spesso ai disegni, con i quali riusciva ad esprimere le sue visioni in maniera più efficace delle parole. Si rese conto infatti che i due generi potevano essere entrambi utilizzati e di conseguenza aumentò il numero dei disegni architettonici che accompagnarono le poesie. In alcuni fogli questa combinazione è stata così efficace da ricordare gli antichi manoscritti medievali.

Dopo quasi sette anni, Rizzoli ebbe l’illuminazione che il progetto al quale lavorava non era altro che il terzo testamento della Bibbia. Da quel momento in poi quest’opera divenne la ragion d’essere dell’artista, dei suoi sforzi, della sua interpretazione della fonte divina delle sue visioni e della giustificazione del suo ruolo come trascrittore di Dio. I soggetti delle poesie divennero più cupi, le apparizioni religiose più marcate. Rizzoli divenne sempre più ossessionato dalla morte, dedicandosi con maggiore energia a coloro che erano venuti a mancare, dalla madre e dai parenti al presidente Kennedy assassinato al vescovo della sua diocesi. Egli inoltre credeva fermamente che doveva la sua creatività al suo ascetismo e al suo amore per Dio, e disprezzava coloro che si appellavano all’intelletto come fonte della loro ispirazione artistica. I santi e le guide spirituali non solo lo consigliavano, lo appoggiavano e lo ispiravano, ma lo incoraggiavano a migliorare il suo talento, arrivando addirittura a minacciarlo quando non riusciva a trascrivere le sue visioni oppure lo faceva in modo del tutto insoddisfacente. In un’occasione, scendono in campo niente di meno che gli architetti François Mansard e Antonio Sangallo, che lo redarguiscono perché le sue esecuzioni sono ben al di sotto delle aspettattive!

Rizzoli si lamenta infinitamente delle difficoltà della realizzazione della sua opera e delle pressioni cui è sottoposto. A differenza di molti artisti che lavorano in condizione di passione e di dolore, Rizzoli riesce a descrivere lucidamente e candidamente il suo malessere, registrando la data e documentando ciascuna esperienza visionaria che ha avuto nei vari decenni. Con il passare degli anni, lo sforzo creativo diventa sempre più impegnativo. Rizzoli diventa sempre più angosciato dal fatto che non riesce a riprodurre graficamente quello che vede con “l’occhio della mente, la sua forma e magnitudine e il suo colore in continua trasformazione” (Hernandez 1997, p. 63). Lo scopo di Rizzoli infatti era di riprodurre accuratamente le sue visioni e il non riuscirci era una grande fonte di angoscia. Con l’avanzare dell’età, l’artista si lamenta del fatto che il tempo passa troppo in fretta e lui non riesce a concludere la sua missione. Continuò a lavorare all’A.C.E. fino al 23 febbraio 1977, quando fu colto da un colpo apoplettico che gli fece perdere la parola e la capacità di movimento. Fu poi ricoverato in una casa di riposo dove rimase fino alla sua morte avvenuta il 18 novembre 1981 all’età di ottantacinque anni.

Grazie alla sua arte visionaria e alla sua ironia, Rizzoli trasforma la sua modesta esistenza, quale figlio di immigrati poveri, costretto a lavorare per tutta la vita come disegnatore tecnico per un architetto di San Francisco, in un mondo meraviglioso di cui si proclama l’esecutore (“Master Architect” e “High Prince”) al servizio di Dio.
A conclusione di questo saggio vorrei tuttavia spendere qualche parola su due aspetti che caratterizzano Rizzoli e la sua opera. Il primo riguarda la richiesta di riconoscimento e di apprezzamento. Fin dagli esordi letterari, egli sperò sempre di diventare un artista pubblicamente apprezzato. Le lettere che ricevette dagli editori che rifiutarono di pubblicare i suoi libri non lo scoraggiarono dall’inseguire la richiesta di riconoscimento. Infatti dal 1935, Rizzoli organizzò una mostra personale nella sua casa ogni prima domenica di agosto. Queste mostre, che seguirono per vari anni, furono chiamate Achilles Tectonic Exhibit; l’artista le organizzava nei minimi dettagli, con poster che indicavano l’orario di apertura e il prezzo del biglietto, accompagnati da slogan pubblicitari quali “niente di simile è mai stato tentato prima d’ora”! Nonostante affiggesse i volantini in tutto il vicinato, solo due colleghi, pochissimi parenti e i bambini del quartiere visitavano questi eventi annuali. E quelli che vi partecipavano erano poi ricompensati dall’artista che li trasformava nelle ben note “simbolizzazioni”.

Rizzoli soffrì moltissimo per il mancato riconoscimento pubblico; tale mancanza accresceva la sua vergogna di provenire da una famiglia modesta, di non avere la capacità di sfondare, di non riuscire a vincere la sua frustrazione sessuale né incrementare la fiducia in se stesso. Di conseguenza, anziché aiutarlo ad integrarsi e ad essere apprezzato, Rizzoli, con la sua opera, non fece altro che aumentare il suo isolamento, distaccarsi dalla realtà e creare una seconda vita che non poteva condividere con nessuno. Sebbene i suoi disegni rappresentino luoghi pubblici, in verità essi designano santuari privati. Rizzoli non pensò che gli edifici che lui progettava potessero mai essere realizzati. A questo proposito vi è un elemento estremamente significativo che confermerebbe la profonda insoddisfazione dell’artista. Si tratta del disegno A.T.E. Portfolio (foglio A-13) del 1940, in cui Rizzoli rappresenta la sua modesta casa situata in Alabama Street, dove teneva le sue mostre annuali. In fortissimo contrasto con le magnifiche cattedrali, Rizzoli ci mostra la sua casetta di un solo piano. L’artista la chiama addirittura “the Shanty” (la catapecchia).

Da questo disegno possiamo vedere le camere, il letto della madre (morta da più di tre anni), il lettino ai piedi di quello della madre dove egli dormiva, la fotografia della sorella, la tavola da stiro, il filo per appendere i panni, la stradina che conduce al garage e il castagno nel giardino. Sembra proprio che Rizzoli si sia rassegnato a non avere quel riconoscimento che tanto aveva desiderato.
Questa ricerca di riconoscimento pubblico ci conduce al secondo aspetto che vorrei sottolineare, e cioè il fatto che Rizzoli costituisca un esempio insolito di outsider artist. Nel film-documentario Yield To Total Elation: The Life & Art of Achilles Rizzoli (2000), frutto di una ricerca durata più di cinque anni (10), Pat Ferrero ricostruisce la vita e l’attività artistica di Rizzoli e sottolinea come quest’ultimo fu profondamente influenzato dallo splendore visuale della giovane California, dai suoi nuovi monumenti civici, dall’epica visione di Hollywood e dal romantico trasporto del romanzo moderno. La regista inoltre mette in evidenza che sebbene Rizzoli fosse un uomo di umili origini, fu dotato di una straordinaria sensibilità estetica e di forte senso dell’umorismo. Egli inoltre nutrì degli ideali elevatissimi per l’architettura e per la sua stessa arte.

Nonostante fosse certo che nessuno dei suoi progetti architettonici sarebbe mai stato realizzato, ciò non gli impedì di concepire l’architettura come la più elevata delle arti e l’architetto come il più completo degli artisti. Eppure la consapevolezza che non sarebbe riuscito ad emergere né come architetto né come scrittore non precluse a Rizzoli la possibilità di affrontare la vita con un notevole controllo e con un forte senso del dovere, condiviso da pochi outsider artists estremi. Ferrero è riuscita brillantemente a contestualizzare l’ispirazione artistica di Rizzoli nell’epoca in cui visse e a far emergere la sua “doppia” identità. Nonostante presenti alcuni tratti comuni a disturbi psicopatologici, Rizzoli rimase più obiettivo e coerente nella sua attività creativa della maggior parte degli artisti affetti da gravi disturbi mentali. Inoltre il suo spiccato senso dell’umorismo dimostra come avesse un controllo totale sul suo materiale. Non dimentichiamoci poi che Rizzoli condusse un’esistenza di tutto rispetto, seppure modesta: riuscì a mantenere un impiego a tempo pieno per quarant’anni, fu sempre scrupoloso nel pagamento delle bollette, e, quando si ammalò, i proventi della vendita della sua casa, gli consentirono di coprire le spese della casa di riposo. Riuscì infine a esprimere magistralmente sia il suo senso di potenza che la sua vulnerabilità: il suo lavoro è allo stesso tempo passivo e attivo, urgente e lirico, ispirato e assurdo. Rizzoli quindi pone una sfida nella definizione di outsider art e di outsider artist, e mostra come ci troviamo di fronte a categorie quanto mai labili e soggette ad ogni sorta di interpretazione.

 

di Sarah F. Maclaren

Note

1 Dopo la prima mostra organizzata nel 1997 al San Diego Museum of Art, California, le opere di Rizzoli sono ormai esposte nei maggiori musei e gallerie statunitensi dell’outsider art. Il film di Pat Ferrero s’intitola Yield To Total Elation: Life and Art of Achilles Rizzoli.
2 La letteratura sull’arte dei folli è vastissima. Ci limitiamo a segnalare alcuni studi: Lombroso (1864), Réja (1907), Morgenthaler (1921), Prinzhorn (1922), Navratil (1965), MacGregor (1989).
3 Cfr. Thévot (1975), Hall & Metcalfe (1994), Maizels (1993 e 1996) e Zolberg & Cherbo (1997).
4 Rizzoli usa le espressioni “symbolically sketched”, “represented” e “recaputured”.
5 Rizzoli adopera kathedral, anziché la parola corretta cathedral. Il saggio di Roger Cardinal (1997) su Rizzoli esamina proprio l’aspetto testuale delle sue opere, il suo amore per i giochi di parole, gli acronimi, gli anagrammi, i neologismi e le poesie.
6 Sulla nozione di “carattere” nell’architettura cfr. Blondel, Cours d’architecture (1771-77). Cfr. inoltre Szambien (1986) e Vidler (1994 it.); quest’ultimo sull’opera di Claude-Nicholas Ledoux.
7 Ledoux e Lequeu cominciarono ad essere analizzati seriamente negli Stati Uniti solo in seguito all’uscita della fondamentale opera di Kaufman (1952).
8 MacGregor (1992) è arrivato addirittura a considerare Rizzoli schizofrenico.
9 Cardinal invece evidenzia che l’isola assomiglia all’apparato genitale maschile, confermando il profondo disagio sessuale dell’artista, che emerge anche in molte altre costruzioni di Y.T.T.E. (1997, p. 113).
10 Communicazione personale della regista.

 

 

Filmografia

Pat Ferrero, Yield to Total Elation. The Life and Art of Achilles Rizzoli, film-documentario sulla vita dell’artista (50 min.), 2000.

 

 

 

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