Serge Moscovici – Alla ricerca del riconoscimento sociale


La prospettiva non è poi tanto tetra per una minoranza. Essere in disparte non è necessariamente uno svantaggio, anche se non è sempre una posizione comoda. Esser detestato non è neppure un ostacolo all’esercizio dell’influenza. Ma la cosa più importante, è di conoscere le forze che spingono la minoranza ad assumere il rischio di essere detestata, rifiutata, e di sapere ciò che ci guadagna. Per trovare la risposta, occorre ancora una volta considerare la natura dei rapporti sociali. Il primo punto è che, per essere amati, occorre “esistere” ed essere percepiti in quanto esistenti. Ottenere il riconoscimento della propria esistenza costituisce un problema serio per molta gente. Gruppi etnici e sociali, nazioni, individui creativi, bambini ecc., tutti si augurano e sperano di vedere riconosciuta la propria esistenza e i propri meriti.

Indubbiamente siamo circondati da persone che si sforzano di essere amate e approvate, e che a seconda dei casi troviamo provviste o sprovviste di attrazione. Ma queste persone, secondo le quali ci modelliamo e ci definiamo, e i cui giudizi c’importano, sono tutte persone “visibili”. Fuori si stende, indistinta, una zona popolata di creature e di gruppi “invisibili” che superano raramente il limite della nostra visuale e di cui trascuriamo totalmente i sentimenti e gli impegni. Essi esistono ben poco ai nostri occhi, salvo occasionalmente, e tutt’al più in ragione dell’uso impersonale e strumentale che possiamo farne. Non li vediamo, non li sentiamo, non parliamo loro. Sono i vecchi agli occhi di molti giovani, i poveri agli occhi dei ricchi, i neri per i bianchi, i selvaggi per i civilizzati, i principianti per gli scienziati o gli artisti affermati: tanti individui o gruppi che sono, in molti modi, ridotti all’invisibilità agli occhi degli altri individui o degli altri gruppi. Ci sono, in ogni relazione interpersonale e sociale, due aspetti, la visibilità e l’attrazione, la prima quale condizione preliminare della seconda.

Chiunque cerca di essere amato, di essere scelto come modello di confronto sociale, o di allinearsi fra la gente che dà l’approvazione sociale deve, agli occhi degli individui o dei gruppi che regolano la selezione, raggiungere i ranghi di coloro che sono in vista. In realtà, la gente spende una quantità enorme di energia per diventare elemento di confronto sociale o dispensatore di approvazione sociale. Non si tratta di una necessità vitale per le minoranze marginali, devianti ma attive. Qualunque sia il sacrificio che ciò comporta, la loro prima preoccupazione è di fatto di diventare visibili, dunque di ottenere il pieno riconoscimento della propria esistenza agli occhi della maggioranza e nell’animo di coloro che la compongono. I risultati dei nostri esperimenti mostrano proprio questo sforzo che mira a far prendere in considerazione dalla maggioranza le qualità di un individuo o di un sottogruppo deviante.

Siamo dunque portati a ricercare il reale significato di “visibilità”, dal punto di vista psicologico, e ciò che essa comprende qui. Quali sono i processi psicologici e sociali legati alla ricerca della visibilità? Immaginiamo, per cominciare, questo processo dal punto di vista di qualche individuo o sottogruppo ipotetico, in situazione periferica, che starebbe a rappresentare coloro che abbiamo descritti in precedenza come coerenti. Costui ha fiducia nelle sue opinioni e nelle sue credenze, e ha l’impressione di aver ragione. E? un essere umano come gli altri, ha prodotto qualcosa di valido nel campo politico, scientifico o sociale, e difende determinate e ben precise posizioni. Ai suoi occhi, è come se egli tesorizzasse un’eccedenza di risorse personali o collettive (sia intellettuali, che materiali). Si nota un tale atteggiamento da parte di gente “impegnata” e convinta di approfittare di “privilegi”, quando sorge un disaccordo (sia oggettivo che soggettivo) fra le loro valutazioni e le valutazioni che fanno gli altri delle stesse risorse.

Quasi sempre, questa frattura nasce dal fatto che, a causa dei pregiudizi radicati nella gente e della loro inerzia, dei loro diritti individuali o collettivi, i nuovi successi passano inosservati a livello del giudizio sugli altri, e delle realizzazioni nuove vengono giudicate con criteri superati. Ne consegue allora l’invisibilità e nello stesso tempo il bisogno di vincere. Così, i genitori sono sempre stupefatti quando devono constatare che i loro figli sono cresciuti; un professore rimane sempre confuso quando uno studente che aveva sottovalutato riesce, nel campo sociale e professionale; le maggioranze si mettono in allarme quando delle minoranze etniche acquisiscono importanza in una sfera per la quale non eran giudicate qualificate. Tali sorprese non sono del tutto casuali: esse sembrano invece il punto culminante di lunghi sforzi perseguiti con ostinazione per provocarle e renderle percettibili a coloro che rifiutavano di vederle fino allora. Questi sforzi sono particolarmente accentuati in coloro che credono di possedere le risorse che abbiamo descritte in precedenza, e la cui sola possibilità di salvaguardia consiste nella possibilità di interagire con altri individui o altri gruppi e influenzare il loro comportamento, le loro credenze e il loro modo di pensare. La loro validità, e la validità di ciò che hanno prodotto, si trovano così ad essere attestate e confermate dalla loro attitudine ad agire e a fare qualcosa rispetto agli altri; in una parola, a “contare qualcosa” e a “esser presi in considerazione”. In questo modo, viene realizzato un obiettivo comune: quello di essere identificati, ascoltati e individualizzati.

E’ nel campo interpersonale e sociale che si diventa visibili e riconosciuti. Il bisogno che corrisponde a questo processo di valutazione delle proprie risorse o del proprio diritto ad agire e ad avviare un cambiamento nel proprio ambiente sociale e materiale, è il bisogno di riconoscimento sociale. Le minoranze dei nostri esperimenti hanno proprio acquisito questo riconoscimento. La maggior parte delle lotte economiche, sociali, politiche e scientifiche mirano anche, come sappiamo, a ottenere un tale riconoscimento. La prima preoccupazione di una nazione che nasce, di una classe che si sveglia alla coscienza, di uno scienziato che ha appena fatto una scoperta o di un artista che dà l’ultimo tocco a una scultura, non è di esistere de facto, ma di esser riconosciuto con le sue qualità specifiche dalle altre nazioni, dalle altre classi, dagli altri scienziati o artisti. Ogni rappresentante di questi gruppi ha la sensazione di esser stato riconosciuto quando, e solamente quando, ha motivi di ritenere che lui e i suoi pari sono stati all’origine di un cambiamento che si produce in altre nazioni o altre classi, e, per uno scienziato o un artista, quando la sua opera esercita un’influenza sui lavori di altri scienziati o altri artisti. Numerosi rituali, simboli, onori, titoli, cerimonie e complimenti di tutti i generi hanno essenzialmente per scopo, nella maggior parte delle società, di facilitare la valutazione di una simile influenza.

Riassumendo: il bisogno di riconoscimento sociale ha come origine il presupposto che l’individuo o il sottogruppo disponga di un’eccedenza di risorse intellettuali o materiali e si esprima attraverso la sensazione provata soggettivamente di sicurezza e di legittimità circa la capacità dell’individuo o del sottogruppo di influenzare gli altri secondo le proprie tendenze e aspirazioni. Questo bisogno raggiunge il suo apice presso le minoranze; il loro comportamento e le loro strategie mirano essenzialmente a soddisfarlo. Ottenere la visibilità, conservarla o accrescerla, è dunque un indice del mutamento che si è prodotto. Si possono dedurre, a titolo di esempio, partendo da quest’analisi ipotetica, alcune proposizioni semplici riguardanti la dinamica delle relazioni interpersonali e sociali. Possiamo supporre che il bisogno di riconoscimento sociale comporti alcune conseguenze.

1) L’alzarsi del livello generale di tutte le attività e iniziative che mirano a influire sulle credenze o sulle opinioni altrui. Questo si verificherà particolarmente nei gruppi e negli individui nomici, più particolarmente nei soggetti che hanno fiducia in sè stessi e sostengono posizioni precise nelle quali si sono impegnati.

Bass (1961) ha notato che la frequenza dei tentativi fatti per raggiungere la leadership è legata alla stima che si ha di sè stessi e allo status che uno si attribuisce, come pure alla capacità di fronteggiare i problemi del gruppo. Fouriezos, Hutt e Gruetzkow (1950) hanno notato una maggior partecipazione alla realizzazione degli obiettivi presso coloro che hanno una maggior fiducia nelle loro opinioni. Veroff (1957) ha misurato la motivazione al potere e al riconoscimento in un test di proiezione, e si è accorto che le persone che ottenevano un punteggio elevato venivano giudicate dai loro professori individui appassionati nella loro argomentazione e nel loro tentativo di influire sul comportamento altrui. Strickland (1965) ha stabilito che le persone orientate verso il controllo interno hanno maggiori possibilità di impegnarsi in azioni riguardanti i diritti civili di quelle orientate verso il controllo esterno. In un interessante esperimento, Levinger (1959) riunì dei gruppi di due soggetti che non si conoscevano per intraprendere un compito che richiedeva una serie di decisioni da prendere in comune. Prima di prender la decisione, uno dei soggetti di ogni gruppo veniva portato a credere che le sue informazioni circa il compito erano superiori o inferiori a quelle del suo partner. I soggetti che ritenevano di disporre di informazioni superiori erano più perentori e facevano più tentativi per influenzare. Altri studi di Lindskold e Tedeschi (1970), Gore e Rotter (1963), Lippit, Polansky, Redl e Rosen (1952) indicano, in individui che hanno fiducia nelle loro attitudini, nel loro valore o nel loro sapere, la stessa tendenza a prender l’iniziativa dell’azione e a tentare con maggior frequenza d’influenzare gli altri individui del gruppo.

Correlativamente, una persona o un gruppo che non si sente capace di influire sugli altri o di produrre un mutamento e che, per questo motivo, può non voler subire l’influenza o il mutamento, cercherà di aver contatti con una persona o un gruppo che gli somigli, per sentirsi a un tempo rassicurato e protetto. Byrne e Close (1967) hanno dimostrato che, man mano che aumentava la sensazione di incertezza generale, aumentava contemporaneamente, almeno fino a un certo punto, anche la tendenza a simpatizzare con persone che avevano atteggiamenti simili. In uno studio di Shrauger e Jones (1968) i soggetti, quando non erano in grado di avere informazioni riguardanti l’esattezza delle loro opinioni, erano chiaramente attratti da coloro che erano in armonia con loro più che da coloro che non lo erano. Quando invece disponevano di opinioni di gente qualificata, questa preferenza differenziale per gli altri non esisteva. Inoltre, Singer e Schokley (1965) hanno stabilito che i soggetti avevano più probabilità di associarsi coi loro simili, per valutare con esattezza le loro capacità, in mancanza di norme oggettive sulla capacità piuttosto che in presenza di tali norme.

2) La ricerca del contatto con persone differenti da sè: questo avviene nella misura in cui l’adesione oppure la conversione altrui alle proprie idee e alle proprie concezioni della realtà sono i soli modi possibili di riconoscimento favorevole.

3) La preferenza per il contatto con gruppi e individui dai quali si è molto lontani o coi quali si è in disaccordo: numerosi esperimenti hanno dimostrato che questo avviene spesso. Hare e Bales (1965) e Cohen (citato in Strodtbeck e Hook 1961) hanno dimostrato che se cinque soggetti, ai quali è stato assegnato un compito che esige un’intesa comune, sono seduti intorno a un tavolo rettangolare secondo la disposizione 1-3-1-0 (con un lato riservato allo sperimentatore), è più probabile che i soggetti si rivolgano a persone che sono più lontane da loro. Tuttavia, negli intervalli fra le sedute sperimentali, si rivolgeranno probabilmente ai loro vicini prossimi. Inoltre, più in relazione col nostro argomento, Sigall (1970) ha dimostrato che gli individui molto presi da un argomento preferiscono parlare con qualcuno che è in disaccordo con loro piuttosto che con qualcuno che è in armonia. Essi hanno infatti delle probabilità di convertire il primo al loro punto di vista. Un altro modo di esprimere le cose è dire che si preferiscono i convertiti ai membri fedeli del proprio gruppo.

4) La volontà di misurarsi con gli altri, specialmente quando sorgono problemi difficili, che esigono risorse fuori dal comune o soluzioni originali. Quando al contrario i problemi sono resolubili da chiunque, e le risorse sono facilmente disponibili e lo svolgimento dell’azione ben stabilito, non c’è occasione di dare una dimostrazione delle proprie capacità e dunque non c’è modo di ottenere riconoscimento. Ecco perchè gli scienziati tentano di fare previsioni originali, gli artisti si sforzano di realizzare cose eccezionali, i gruppi minoritari eseguono azioni sconvolgenti e scandalose e i fondatori di religioni si basano su miracoli che “diventano” sempre meno frequenti man mano che la religione è più stabile.

5) La ricerca del conflitto più intenso per dare la dimostrazione dei propri meriti e delle proprie concezioni, e infine realizzare i propri traguardi.

6) La percezione dell’interazione sociale in una prospettiva a lungo termine.

Queste proposizioni spiegano in gran parte perchè le minoranze, alla ricerca del riconoscimento sociale per la loro esistenza e le loro capacità, son pronte ad assumere rischi, a perseverare per lunghi periodi in situazioni di disagio e a sopportare l’impopolarità.

Consideriamo ora il punto di vista della persona che accorda il riconoscimento a coloro che lo cercano. Indubbiamente, questa persona ha coscienza di essere oggetto di forti sollecitazioni e sa anche che l’autore di queste sollecitazioni è molto diverso. Che si tratti di un individuo o di un gruppo, il suo comportamento verrà accuratamente e minuziosamente esaminato, specialmente a livello dell’investimento che mette nel suo lavoro e della sua volontà di sacrificio al fine di esser reintegrato nel campo sociale dal quale era stato precedentemente escluso, o per mutare quel campo. Individuo o gruppo che sia, viene dunque sorvegliato e giudicato a distanza, come oggetto d’interesse più che per simpatia, e solamente col passar del tempo gli altri possono considerarlo loro simile, benchè per certi aspetti ancora diverso. Il rispetto e l’interesse a distanza che suscita in partenza aumenterà poi per una valutazione positiva delle sue capacità e delle sue opinioni, per un apprezzamento delle difficoltà che gli causa la sua posizione di deviante e del suo coraggio a difenderla. Così a poco a poco si avvia l’ammirazione per i devianti. Per tutto questo tempo, la minoranza si comporta in modo fermo e coerente e viene percepita come sicura e fiduciosa. Questo genera a sua volta la fiducia in seno al gruppo che l’accoglie, e infine le viene concesso il riconoscimento sociale, il che non significa necessariamente che si conceda l’approvazione sociale alla minoranza. Come abbiamo visto, i suoi membri continueranno talvolta ad esser giudicati, in un certo senso, meno competenti, meno giusti (più parziali) o meno desiderati. Pur rispettando la minoranza, si può non auspicare di vedere i suoi membri occupare delle posizioni di leader, il che significa che una minoranza che tenta attivamente di acquisire influenza ha maggiori possibilità di ottenere il riconoscimento sociale, in caso di smacco, che l’approvazione sociale. La sua influenza ha più probabilità di venire associata al primo che alla seconda.

Si è portati in questo modo a vedere i rapporti fra individui sotto una luce un po’ differente, perlomeno i rapporti che, nascendo dalla reciproca interazione, portano alla scoperta di una persona o di un gruppo fino allora sconosciuto o ignorato; tali rapporti danno una nuova visibilità e una nuova identità alla persona o al gruppo che intraprende il tentativo di farsi scoprire e che viene finalmente scoperto. Somiglianze e dissomiglianze sembrano allora subordinate all’attività o alla passività dei partner in giuoco. Per veder le cose con maggior chiarezza, val la pena di prendere come punto di partenza un principio generale che Tajfel (1972) ha espresso chiaramente, cioè che “la classificazione sociale ha per scopo e funzione di ordinare sistematicamente l’ambiente sociale; essa è una guida dell’azione” (p. 298). Le categorie “simile” e “dissimile” non fanno eccezione alla regola; esse non fluttuano da sole nè sono le copie di un individuo o di un gruppo. Sono situate là dove si trovano, per sottolineare la relazione fra il “medesimo” e l’“altro”, cioè i comportamenti reciproci nei rapporti degli agenti sociali. Se isoliamo le categorie dal loro contesto, esse non appaiono più come “guide dell’azione”, ma diventano assai ingannatrici e poco attendibili.

L’importante non è il carattere simile o dissimile di una persona o di un gruppo, ma il modo in cui l’altro è implicato in un comportamento o in una possibile interazione. Questo significa, per esempio, che i fenomeni psicosociologici possono essere intensificati quando, invece di essere il riflesso di ciò che noi siamo, il risultato della nostra reazione ai desideri e ai giudizi degli altri, sono considerati l’effetto di ciò che facciamo, il risultato della nostra azione sui desideri e i giudizi degli altri. In altri termini, siamo molto più sensibili al nostro lavoro, che esige uno sforzo corrispondente da parte di un partner sociale, che a ciò che ci viene presentato o a ciò che è presente in noi come un dato e che non richiede alcun mutamento da parte di alcuno, nè alcun particolare impegno.

Certo, è piacevole essere ammirati e amati da qualcuno che ci somigli. Ma è ancor meglio essere amati e ammirati da un diverso. Tutti sanno intuitivamente che nel simile si ama e si è attirati, in definitiva, da sè stessi attraverso il riflesso rimandato dall’altro. Nessuno dei partner è responsabile dell’incontro nè si è impegnato per realizzarlo: semplicemente ci si ama e ci si sente reciprocamente attratti; non si ha bisogno di farsi amare nè di rendersi attraenti. Al contrario, quando una persona diversa ha dei sentimenti positivi, si sa intuitivamente di essere amati per sè stessi, per l’impressione che si è potuta produrre su di essa. Il suo amore, la sua attrazione sono considerati conseguenze di un’azione specifica, di un cambiamento di cui si è responsabili, e come il risultato di uno sforzo che la persona ha dovuto fare per superare le resistenze interne e la distanza esterna. E? dunque normale essere ancor più sensibili e rispondere ancor più favorevolmente che in circostanze ordinarie. Questo avviene anche in laboratorio. Jones e collaboratori (1971) hanno invitato gli studenti ad avere una breve conversazione a quattr’occhi.

Durante questa conversazione, ogni soggetto era in accordo o in disaccordo colla sua partner su un certo numero di problemi. In seguito, i soggetti ebbero l’opportunità di ascoltare in segreto la conversazione di un’altra studentessa (compare) e di una terza persona, in cui la studentessa compare esprimeva le sue opinioni nei loro riguardi: in una delle situazioni, sembrava aver simpatia per il soggetto, mentre nell’altra sembrava al contrario non averne. Qual è stato l’effetto prodotto da questa seconda conversazione, ascoltata di nascosto, sulle opinioni dei soggetti nei riguardi della persona con la quale avevano all’inizio scambiato le loro opinioni I soggetti hanno dimostrato una preferenza per le persone con le quali erano stati in disaccordo, e che, malgrado tutto, avevano simpatia per loro. Così, la simpatia aumentava quando corrispondeva alla simpatia di una persona che aveva atteggiamenti dissimili. E’ probabilmente per questo che i soggetti di questo esperimento hanno tendenza a pensare, come tutti noi, che dev’esserci in loro qualcosa di speciale e di unico, poiché qualcuno li ha trovati attraenti, benché non avessero niente o quasi niente in comune.

Altri esperimenti, specialmente quello di Aronson e Linder (1965), dimostrano che preferiamo una persona la cui simpatia verso di noi aumenta progressivamente, a un’altra che ne ha sempre avuta. Correlativamente, siamo portati a detestare più fortemente una persona la cui simpatia nei nostri riguardi diminuisce progressivamente, che non una che non ne ha mai avuta. Inutile dire che, in entrambi i casi, quando la simpatia o l’antipatia si sviluppa col tempo, occorre far fronte alle conseguenze della nostra azione, all’effetto che abbiamo prodotto sull’altro, e questo spiega il rafforzarsi dei sentimenti.

Dobbiamo qui sviluppare un altro aspetto dei legami associativi fra le persone. Non escludiamo necessariamente una certa distanza nei riguardi di un’altra persona, segno di autonomia affettiva e intellettuale, d’individualità e di stima reciproca, che può coesistere perfettamente con una grande comunione di pensiero, di azione e d’interessi. Così, nelle relazioni, la differenza che consente una simile distanza sarebbe preferita, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, alla similitudine che può sopprimerla e spesso la sopprime. Non è un’ipotesi che si possa scartare senza una più ampia riflessione. Dopotutto, la possibilità di vivere in stretto contatto con altri individui o altri gruppi – famiglie e comunità ne sono buoni esempi – senza perdere la propria identità, non solo è una delle maggiori difficoltà delle relazioni personali e sociali, ma anche una delle esigenze fondamentali per la loro sopravvivenza. Sembra che questa possibilità esista quando il rispetto e il riconoscimento sono reciproci, e che lo sviluppo di uno dei partner è considerato un vantaggio per l’altro e non un ostacolo al proprio sviluppo. Solo quando i devianti e gli eccentrici vengono accettati per ciò che sono, come aventi un contributo potenziale da apportare, piuttosto che quando vengono considerati delle minacce, è possibile l’instaurarsi di relazioni vitali relativamente armoniose, benchè distanti. Poter essere ammirati e ammirare di rimando, senza imbarazzo o risentimento, è un grande vantaggio, proprio come il poter essere amati e amare senza gelosia.

 

* Il presente testo è un paragrafo del capitolo 9 del volume di Serge Moscovici, Psicologia delle minoranze attive, Torino, Boringhieri, 1981.

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