Sor-hoon Tan – L’autorevole Confucio in un’età autoritaria


Il confucianesimo è stato spesso considerato come una filosofia autoritaria che esalta l’autorità dei sovrani sui sudditi, dei padri sui figli e dei mariti sulle mogli. Secondo questa interpretazione, esso sarebbe responsabile  dell’arretratezza della Cina – la stessa arretratezza che ha portato a molte umilianti sconfitte nei suoi confronti con la modernità occidentale. In un precedente lavoro sulla possibilità filosofica della democrazia confuciana, sostengo che le interpretazioni autoritarie del confucianesimo fraintendono la natura dell’autorità negli insegnamenti di Confucio. Utilizzando il contrasto tra “autoritario” e “autorevole”, ho cercato di mostrare come l’ideale di autorità nel confucianesimo non sia di tipo coercitivo: “La coercizione è un fallimento dell’autorità intesa come autorevole” (Tan 2004: 194). Al contrario, l’autoritario è intrinsecamente coercitivo. Il paradigma dell’autorevolezza, nei Dialoghi, è rappresentato dalla figura del maestro che incarna la tradizione, mentre il despota che esercita il potere assoluto sopra gli altri è autoritario. La critica che Henry Rosemont, nel suo recente volume Confucian Cultures of Authority, ha mosso verso il liberalismo occidentale per il suo fallimento nel fornire un’adeguata risposta all’ingiustizia sociale, implica una distinzione tra l’autoritario – coercizione o minacce basate sulla forza o il potere – e l’autorevole – persuasione basata sulla conoscenza e sulla ragione (Hershock, Roger 2006: 1).

Nello scritto Authority and Democracy, pubblicato molto prima, April Carter presenta un’analisi molto dettagliata riguardo l’ambiguità e la complessità della natura dell’autorità in questi due aggettivi. Per Carter, l’autoritario descrive l’autorità gerarchica. Quest’ultima “comporta la credenza nel diritto di coloro che sono in posizioni superiori a dare ordini a coloro che stanno loro al di sotto, un diritto intrinseco alla stessa gerarchia sociale, sebbene possa essere giustificato anche appellandosi alla tradizione, alla religione o all’ordine dell’universo” (Carter 1979: 6). Queste relazioni di stampo autoritario riscontrabili nelle società gerarchiche tradizionali, come le società aristocratiche, “sono basate necessariamente sulla coercizione sociale ed economica e spesso comportano l’uso di una forza considerevole” (ibidem). In ogni caso, anche il modello alternativo di autorità, l’autorevolezza, è rintracciabile nelle società aristocratiche. Qui diventa però “l’autorità della saggezza, dell’apprendimento e dell’abilità” (ivi: 6-7) volontariamente obbedita e liberamente accettata. Carter definisce l’autorità “in contrapposizione alla forza”, mentre riconosce che “essere in posizione di autorità comporta due differenti tipi di relazione: un’autorità pura che può dar luogo alla conformità del volere e un potere per comandare e imporre obbedienza” (ivi: 14). Carter sostiene che, sebbene una qualche forma di autorità sia necessaria nella relazione tra adulto e bambino, insegnante e studente, professionista e principiante, questa corre il rischio di essere abusata oppure, all’opposto, di passare come insufficientemente autorevole. Il governo autocratico, cioè il modello autoritario di autorità, non è necessario né all’economia né alla politica della società. Nonostante l’anarchismo e la democrazia diretta possano essere incompatibili anche con l’autorevole, Carter, nel suo approccio alla democrazia, ritiene possibile l’esercizio dell’autorità professionale.

Molti qui noterebbero che la Cina, per gran parte della sua storia, ha rappresentato il modello della società aristocratica, e anche l’ordine sociale delle tre dinastie XiaShang e Zhou, che Confucio elogiava, era intrinsecamente gerarchico. I Dialoghi confrontano spesso le posizioni sociopolitiche in termini di shang e xia, cioè di sopra e sotto, più alto e più basso, superiore e inferiore. “Il Maestro You disse: ”Pochi sono coloro che, dotati delle virtù dell’amore filiale e del rispetto per i fratelli maggiori, abbiano la tendenza a contrastare i propri superiori; e non vi è alcuno che, privo della tendenza a contrastare i propri superiori, inciti alla ribellione!” (Dialoghi I. 2).

Ciò che sopra viene tradotto con “contrastare i propri superiori”, fanshang, potrebbe essere reso anche come “trasgredire i superiori”. Secondo Confucio, l’uomo nobile di animo (junzi) detesta “chi, in una posizione subalterna, diffama i propri superiori” (Dialoghi XVII. 24). Tali insegnamenti potrebbero essere letti come acquiescenti verso una forma di autorità gerarchica, cosa che supporterebbe un’interpretazione autoritaria del confucianesimo. Io sostengo invece che, sebbene Confucio abbia vissuto in un’epoca autoritaria, dove prevalsero i modelli dell’autorità gerarchica (modelli che tuttora prevalgono in molte società dell’Asia orientale che rivendicano un’eredità confuciana), gli insegnamenti e la condotta di Confucio, nei Dialoghi, offrono un modello alternativo di autorevolezza proprio come critica all’autoritarismo. Paragoni che utilizzano shang e xia per indicare l’ineguaglianza tra le persone non sempre si riferiscono alle società gerarchiche esistenti. Per esempio, potrebbero essere utilizzati in riferimento a differenti capacità dell’uomo: “Confucio disse: “Coloro che sin dalla nascita sono dotati di sapienza (zhi) sono uomini superiori; seguono quelli che acquistano la sapienza con lo studio, poi quelli che pur versando nelle difficoltà si sono applicati allo studio e infine, ultimi tra gli uomini, coloro che, versando nelle difficoltà, non sono riusciti ad applicarvisi” (Dialoghi XVI. 9).

Ci sono momenti storici in cui la superiorità e l’inferiorità appartengono a distinzioni etiche piuttosto che alla gerarchia sociale: “L’uomo nobile di animo è proteso verso l’alto (shangda), l’uomo dappoco verso il basso (xiada)” (Dialoghi XIV. 23). L’autorità inerente a questa superiorità etica è ciò che Carter chiama “l’autorità della saggezza”, la quale è autorevole, non autoritaria. L’autoritario e l’autorevole non sono sempre separati chiaramente nelle società aristocratiche: “l’ordine sociale ha teso ad assimilare i due tipi di autorità in un singolo ruolo” (Carter 1979: 7). Nella misura in cui l’autorità, intesa come autorevolezza, è distinta dal mero potere da qualche concezione di legittimità, cioè per esempio dalla saggezza o da altre eccellenze morali, l’autorità, che sembra intrinseca alle strutture gerarchiche, potrebbe anche dipendere da coloro che in questa gerarchia occupano le posizioni superiori e si comportano da “superiori” in modi che legittimano le loro posizioni e giustificano il potere vigente. Un concetto simile di legittimità è evidente non solo nell’uso sopra menzionato di shang e xia per fare dei paragoni sui traguardi etici, ma anche negli insegnamenti che Confucio ha elaborato per coloro che occupano posizioni superiori: “Il Maestro disse: “Come potrei ammirare chi, occupando una posizione di prestigio (shang), non sia indulgente, non osservi le antiche norme rituali (li) con il dovuto rispetto e nell’onorare i defunti non sia addolorato?” (Dialoghi III. 26).

Una cattiva condotta in posizione di prestigio è molto più da biasimare rispetto a un qualsiasi crollo di autorità e di ordine sociale. Se chi occupa una posizione di prestigio in una gerarchia non dà il buon esempio, allora chi occupa posizioni inferiori non può essere biasimato per essersi comportato male o anche per essersi ribellato. Quando il più importante membro della famiglia Meng nominò Yang Fu magistrato, questi si consultò con il Maestro Zeng, che disse: “Da tempo immemore i governanti hanno smarrito la Via (dao) e il popolo è diviso. Quando ne avrete appurate le cause, anziché provare compiacimento per voi stesso, abbiate compassione di loro!” (Dialoghi XIX. 19).

Nel criticare l’ambizione meschina di Fan Chi, il quale voleva apprendere le tecniche dell’agricoltura e del giardinaggio, Confucio osservò: “Se il sovrano ama le antiche norme rituali nessuno oserà essere irriverente; se ama la giustizia nessuno oserà disobbedire, se ama la sincerità (xin), nessuno oserà essere ipocrita” (Dialoghi XIII. 4). Le persone smetterebbero di obbedire a coloro che gli sono superiori, in una data gerarchia, qualora i “superiori” perdessero la legittimità per condotta inappropriata. Questo implica che l’obbedienza non è incondizionata, ma anzi è dipendente dalla condotta di chi si aspetta o pretende tale obbedienza. Posizioni prestigiose da sole non autorizzano nessuno all’autorità; è la condotta morale eccellente (de) che sta alla base degli insegnamenti di Confucio. Altre occorrenze del concetto di fu nei Dialoghi, tradotto nel passaggio citato poco sopra con il termine “obbedienza”, confermano il requisito del rispetto volontario come base della vera autorità. Viene inoltre utilizzato con il significato di spronare figli e fratelli minori “a condividere le proprie energie quando c’è del lavoro da fare”, ciò che comunemente è accettato come condotta filiale, ma considerato inadeguato secondo la valutazione di Confucio, per il quale il vero amore filiale risiede nel “mostrare il rispetto adeguato”. Nel più largo contesto politico, Confucio ha elogiato la “sottomissione” della dinastia Zhou: “Pur controllando i due terzi dell’impero, i Zhou continuarono a servire (yi) la dinastia Yin. Si può affermare che la potenza morale dei Zhou era davvero eccelsa!” (Dialoghi VIII. 20).

La “sottomissione” della dinastia Zhou è chiaramente volontaria, visto che essa è poi divenuta molto più potente rispetto alla dinastia Yin. Alcuni critici potrebbero affermare che Confucio sembra considerare la sottomissione una virtù in sé, dato che questi due passaggi non indicano chiaramente che l’obbedienza volontaria era basata sul riconoscimento dell’eccellenza morale nei confronti di chi è in una posizione d’autorità (fratelli maggiori, padri e feudatari). La mancanza di tale giustificazione implicherebbe l’autorità gerarchica e supporterebbe l’interpretazione autoritaria di Confucio. Altri passaggi mostrano che, quando si ha a che fare con la vera autorità, non solo l’obbedienza dovrebbe essere volontaria, ma dovrebbe anche essere accompagnata da una condotta virtuosa. “Il duca Ai domandò: “Come ci si deve comportare affinché il popolo si sottometta (fu) spontaneamente?” Confucio rispose: “Se elevate quel che è diritto al di sopra di quello che è storto, il popolo spontaneamente si sottometterà. Se invece elevate quel che è storto al di sopra del diritto, il popolo non si sottometterà spontaneamente” (DialoghiII. 19). Confucio sottolineò il modo corretto affinché coloro che sono in una posizione di autorità ottengano obbedienza o sottomissione: “In simili circostanze, se i popoli lontani non si saranno ancora sottomessi, li indurranno a unirsi a loro spontaneamente grazie all’opera di civilizzazione (wen) e all’eccellenza morale così, se i popoli lontani si saranno spontaneamente uniti a loro, la pace trionferà” (Dialoghi XVI. 1).

Agli occhi di Confucio, era sbagliato che la famiglia Ji costringesse anche i propri vassalli alla sottomissione. La disapprovazione che egli provava sull’uso della forza o delle minacce, nei Dialoghi, supporta la tesi che definisce l’autorità così come la definisce Carter “in contrapposizione alla forza” e ciò non è l’autoritario bensì l’autorevole. “Il Maestro disse: “Se si governa con le leggi (zheng) e si mantiene l’ordine infliggendo punizioni (xing), il popolo cercherà di evitarle ma non proverà alcun senso di vergogna. Ma se si governa con l’eccellenza morale e si mantiene l’ordine mediante l’osservanza delle norme rituali, allora nel popolo si radicheranno senso di vergogna e disciplina” (Dialoghi II. 3). “Ji Kangzi interrogò Confucio sull’arte del governo: “Se uccidessi quelli che hanno abbandonato la Via per promuovere quelli che la seguono, cosa pensereste?” Confucio rispose: “Voi governate, perché mai dovreste uccidere? Desiderate il bene e il popolo sarà buono. L’eccellenza morale dell’uomo nobile di animo è simile al vento, quella dell’uomo dappoco all’erba. Quando il vento spira, l’erba inevitabilmente si flette” (Dialoghi XII. 19).

Un altro concetto dei Dialoghi associato all’obbedienza è “cong”, spesso tradotto come “seguire” nel senso di “seguire gli ordini”. “Ji Ziran domandò: “Zhongyu e Ranyou possono essere reputati grandi ministri?” Il Maestro rispose: “Da te mi sarei aspettato un altro genere di quesito, e invece mi chiedi di Zhongyu e Ranyou. Si dicono grandi ministri quelli che servono il proprio signore conformemente alla Via e quando non è possibile si dimettono. Ora, Zhongyu e Ranyou possono essere reputati bravi ministri”. Ji Ziran allora domandò: “Vuol dire che obbedirebbero a ogni ordine?” Confucio replicò: “No, all’ordine di uccidere il padre o il sovrano non obbedirebbero” (Dialoghi XIII. 6). La vera autorità è accettata liberamente e porta alla volontaria conformità con gli ordini. Il termine “cong” ha un uno spazio concettuale più ampio rispetto a “fu”. Può riferirsi ad un evento cui ne segue un altro (Dialoghi II. 13, III. 23); “seguire” i desideri o le preferenze di qualcuno (Dialoghi 2. 4, 7. 12); seguire o fare attenzioni ai consigli o alle parole di qualcuno (Dialoghi IV. 18, IX. 24). Spesso è accompagnato da “congzheng” con il significato di unirsi e prendere parte alla politica e al governo (Dialoghi IV. 13, VI. 8, XIII. 13, XIII. 20, XVIII. 5, XX. 2). Rispetto a fucong è anche meno gerarchico – alcune volte significa “aderire” oppure “accompagnare” qualcuno che non occupa necessariamente una posizione di prestigio. Per esempio i seguaci di un maestro seguono qualcuno al di sopra di loro in una gerarchia di discepoli e maestri. Comunque, Confucio non era l’unico maestro possibile, come chiarificato nel consiglio che Zilu ricevette: “Anziché seguire un maestro che rifugge da alcuni uomini, non faresti meglio a seguirne uno che rifugga dal mondo intero?” (Dialoghi XVIII. 6). I discepoli di Confucio lo seguivano poiché lo ritenevano un maestro superiore agli altri. Lui era “superiore” a loro perché era riuscito a stabilire la propria autorità come un modello autorevole attraverso la sua eccellenza morale; di per sé la sua posizione di maestro non costringeva i discepoli a seguirlo.

Confucio non era un maestro autoritario che pretendeva obbedienza e accordo incondizionati dai suoi discepoli. Invece di essere soddisfatto del fatto che Yan Hui non avesse mai obiettato (wei) niente a quello che diceva, era preoccupato che il suo discepolo fosse “stupido (yu)” (DialoghiII. 9). L’unica volta che rimproverò il suo discepolo prediletto, che considerava superiore a lui stesso in saggezza (Dialoghi V. 9), fu quando disse, “Yan Hui non mi è certo di aiuto. Non vi è nulla che io dica che egli non approvi” (Dialoghi XI. 4). Nel modello autorevole di autorità, un consiglio è da accettare o da seguire solo dopo la dovuta considerazione, e deve essere considerato efficace solo se contribuisce alla coltivazione del sé e alla crescita di tutti coloro che ne sono coinvolti. “Il Maestro disse: “La Via non prevale nel mondo, sarò costretto ad avventurarmi in mezzo al mare a bordo di una zattera. Chi mi seguirà non sarà forse Zilu?” Udendo queste parole Zilu ne fu fiero e allora il maestro commentò: “La tua audacia, Zilu, è di certo superiore alla mia, tuttavia non ne riceverai alcunché” (Dialoghi V. 7).

Quello che Confucio cercava nei suoi discepoli era l’apprendimento che permetteva loro di crescere nell’eccellenza morale e dunque contribuire al progetto cooperativo del vivere etico, in cui maestri e studenti sono impegnati. La traduzione di D.C. Lau è leggermente differente in quanto qui Confucio rimprovera a Zilu una “mancanza di giudizio” (Lau 1979: 77). Ciò significa che un discepolo che vuole seguire il suo maestro senza nulla da obiettare non è  per questo necessariamente encomiabile. Anche nel caso in cui il maestro non stia guidando il discepolo fuori strada, quel discepolo dovrebbe agire solo con la consapevolezza del perché segue il maestro, considerando come e in che modo adempiere il suo ruolo nel percorso di crescita spirituale.  Confucio non sostenne mai di seguire ciecamente qualcuno, indipendentemente dalle posizioni che questi aveva. Insegnò ai suoi discepoli solo a seguire le forze degli altri ma non le loro debolezze; d’altro canto uno dovrebbe identificare le debolezze degli altri per emendare se stesso (Dialoghi VII. 22). Confucio stesso “seguì Zhou” solo dopo aver ponderato a lungo il giudizio sulla superiorità della dinastia Zhou rispetto alle dinastie precedenti da cui i Zhou stessi avevano imparato (Dialoghi III. 14). Nei suoi insegnamenti, Confucio non seguiva le norme del passato ciecamente, né d’altra parte era schiavo della novità. Non seguiva senza porre questioni, ma selettivamente, soltanto dopo un’attenta valutazione critica. “Il Maestro disse: “L’uso del copricapo di lino è prescritto dalle antiche norme rituali. Oggi è però invalso l’uso del copricapo di seta: è più frugale e io mi adeguo all’uso comune. L’inchino prima di salire verso la sala delle udienze è prescritto dalle antiche norme rituali. Oggi è però invalso l’uso di inchinarsi soltanto nella sala delle udienze; è un atteggiamento arrogante e io, seppure contro la prassi comune, seguo l’antica norma di inchinarsi anche prima di salire verso la sala delle udienze” (Dialoghi IX. 3).

In due dei passaggi citati precedentemente, “seguire o obbedire (cong)” appare come il contrario di andare “contro a (wei)”. Quest’ultimo è presente anche in un altro passaggio in cui Confucio non solo non difende l’obbedienza incondizionata ai superiori, ma considera i sovrani che desiderano e si compiacciono dell’obbedienza incondizionata tra i più pericolosi. “…si dice comunemente: ”Non proverei alcun piacere nell’essere un sovrano se non fosse per il fatto che nessuno osa contraddirmi”. Se il sovrano è un buon sovrano e nessuno osa contraddirlo, benissimo! Ma se non lo è e nessuno osa contraddirlo, non è forse questo un adagio che potrebbe condurre alla rovina del regno?” (Dialoghi XIII. 15). Questo significa che, per contribuire al buon governo e alla ricchezza dello stato, uno dovrebbe opporsi o disobbedire a ciò che ritiene immorale, anche se fosse compiuto da coloro che si trovano in una posizione di autorità.

Potrebbe sembrare che Confucio avesse invece un atteggiamento differente verso chi contesta l’autorità genitoriale. “Il Maestro disse: “Nel servire i genitori è consentita una tenue contestazione; ma se vi accorgete che non accettano i vostri consigli, continuate a essere rispettosi e a non opporvi a loro. Anche se ne siete feriti, non serbate loro rancore” (DialoghiIV. 18). C’è motivo di credere che qui si stia difendendo l’obbedienza assoluta. In primo luogo, la necessità di “contestare” implica già che l’obbedienza non è incondizionata; non è chiaro se “non opporsi a loro” significa “non disobbedire nemmeno se i genitori sbagliano”. Ciò a cui il figlio non dovrebbe opporsi potrebbero essere degli standard etici indipendenti da e più elevati rispetto ai desideri fallibili dei suoi genitori. “Meng Yizi domandò in che cosa consistesse l’amore filiale. Il Maestro disse: “Non trasgredire (wuwei)”. Fan Chi stava conducendo il carro del Maestro quando questi lo informò: “Meng Yizi mi ha domandato in che cosa consiste l’amore filiale e io ho risposto: “Non trasgredire”. Fan Chi allora domandò: “Cosa intendete?” e il Maestro disse: “Finché i genitori sono in vita, si servano secondo le antiche norme rituali, e alla loro morte si provveda alla sepoltura e alle dovute cerimonie secondo le antiche norme rituali” (Dialoghi II. 5).

Così, anche nel caso dell’autorità genitoriale, troviamo il modello dell’autorevole da cui si dischiudono obbedienza e rispetto volontari, nonché l’eccellenza morale delle norme rituali. Il modello della condotta etica esemplare è molto lontano dal concetto di autoritario. Quest’ultimo richiede obbedienza incondizionata a coloro che occupano posizioni di autorità nella gerarchia anche quando questi si comportano in modo immorale. La responsabilità filiale di cui parla Confucio chiede ai figli di seguire la Via dei loro padri anche dopo la morte di questi ultimi, il che implica un forte conservatorismo. Un figlio che “per tre anni non abbandona (gai) la Via del padre, potrà essere considerato filiale (xiao)” (Dialoghi I. 11). Secondo alcuni traduttori questo passaggio implica l’adesione alla Via del defunto padre anche per più di tre anni – sarebbe improbabile per un figlio che non ha abbandonato la Via del padre nei primi tre anni deviare rotta da allora in poi. D’altra parte, Roger Ames e Henry Rosemont non sono d’accordo su quest’ultima considerazione. Questi intendono con il passaggio precedente che un figlio “deve onorare le norme rituali seriamente, ma dopo deve riappropriarsene, al fine di armonizzarle per renderle adatte alle proprie circostanze particolari.” (Ames-Rosemont 1998: 280-81). I tre anni dopo la morte del padre, piuttosto che impostare un modello di cieca obbedienza per il futuro, permettono un giudizio e una pratica attenti per guidare il cambiamento. Questo passaggio è più in sintonia con la raccomandazione di “seguire le norme rituali ed emendarsi”. “Il Maestro disse: “Come non seguire gli adagi? Tuttavia quel che conta è emendarsi. Come non essere lusingati da parole gentili? Tuttavia quel che conta è comprenderne il significato. Cosa potrei farmene di chi è sedotto da parole gentili ma non ne comprende il significato, di chi segue gli adagi ma non rettifica la propria condotta?” (Dialoghi IX. 24). Anche quando si segue ciò che è esemplare, il valore dell’obbedienza o del rispetto risiede nell’appropriarsi del modello adatto a una situazione particolare al fine di emendarsi, e con ciò incarnare unicamente quello che è stato tramandato per rivitalizzarne l’eredità. Solo dopo questo l’autorità dei padri è veramente autorevole. Non solo nella volontarietà del rispetto dei propri figli ma anche nella contribuzione alla coltivazione del sé dei figli stessi.

Mi sono soffermata attorno ai concetti di obbedienza e disobbedienza nei Dialoghi al fine di comprendere l’atteggiamento di Confucio verso l’autorità. Questa autorità è mai discussa esplicitamente? Nel cinese mandarino moderno, “autorità” è spessa tradotta in più modi: quanliquanwei o weiquan. Il termine “quanli” è usato sia per “potenza” sia per “autorità”, e il secondo carattere “li”, che significa “sforzo”, “forza” o “vigore”, gli dà quella particolare connotazione  di autorità che deriva da tali significati. L’“autorevole”, inteso come “in autorità” o esperto riguardo alcune discipline, è solitamente tradotto con “quanwei”, sebbene quest’ultimo traduca anche l’“autorità” in generale, mentre l’“autoritarismo” è tradotto con “quanwei zhuyi”. Invertendo i due caratteri, “weiquan” enfatizza l’aspetto di potenza e di dominio dell’autorità dal momento che “wei”, che di per sé può significare “potenza e forza”, significa anche “incutere timore e comandare”.

Mentre non c’è una discussione esplicita dei termini “quanli”, “quanwei”, o “weiquan” nei Dialoghi, i caratteri che compongono questi termini appaiono separatamente nel testo. C’è scritto che “Il Maestro non parlava mai di eventi straordinari, dell’uso della forza, di disordini e di divinità” (Dialoghi VII. 21). Confucio considerava wei una qualità desiderabile che l’uomo nobile di animo avrebbe dovuto acquisire. “Il Maestro disse: “L’uomo nobile di animo se non è severo non sarà autorevole (wei)” (Dialoghi I. 8). È degno di nota che egli opponeva “wei” a “meng”, che significa “ferocia o severità”; la natura non desiderabile di “meng” è indicata dalle sue associazioni con la bestialità o la brutalità, per via del suo uso in descrizioni come “bestie feroci (mengshou)”. Quel tipo di autorità che comanda timore e rispetto volontario attraverso l’apprezzamento dell’eccellenza morale deve essere distinta dalla paura di ciò che non è riconducibile alla ragione, come la forza bruta. Nei primi testi, il significato principale di “quan” è “peso” (come di una bilancia) o “pesare”. È utilizzato metaforicamente nel senso di “misurare le cose” nell’esercizio del giudizio e del discernimento. All’opposto, tradurre “autoritarismo” con “quanwei zhuyi” gli dà una connotazione che ispira timore e autorità, da cui nasce forza e potere – questo è non poco differente dall’“autoritarismo” nel discorso politico occidentale moderno, dove figura come illimitato e spesso ingiustificato esercizio del potere da parte del governo, solitamente attraverso mezzi coercitivi. Ciò può spiegare in parte perché l’“autoritarismo” non incontra consensi unanimi tra gli intellettuali cinesi contemporanei.

Se il modello di autorità degli insegnamenti di Confucio fu l’autorevole, come ha potuto la filosofia occidentale concludere che esso rappresentasse l’autocrazia e l’autoritarismo dell’Asia orientale? Il problema non è soltanto la questione se la pratica riesca a sopravvivere alla teoria o all’ideale filosofico. Esso è radicato nelle necessità impellenti dei membri di una tradizione di avere un impatto a livello pratico nei propri rispettivi momenti storici. Gli ideali di Confucio non sono facili da realizzare; i suoi stessi tentativi gli valsero la reputazione di essere “colui che persevera nella sua missione pur sapendo che è vano” (Dialoghi XIV. 38). Confucio era completamente libero dalla pressione di voler fare una differenza a livello pratico, e in almeno un’occasione si è esposto alla disapprovazione del suo studente Zilu con la volontà di aiutare qualcuno nei suoi dubbi etici, se ciò avesse significato mettere in pratica i suoi ideali (Dialoghi XVII. 5)

In un mondo imperfetto, l’eccellenza morale dell’autorevole non è sempre apprezzata e il rispetto volontario potrebbe non essere imminente. Questa è la problematica nel contesto politico, come osserva Carter: “Il concetto dell’effettualità è indispensabile all’autorità politica, che per sua natura non può essere dimostrata unicamente dal valore oggettivo delle sue decisioni, a meno che anche le persone vi aderiscano” (Carter 1979: 48). Sotto circostanze mutevoli, è sempre allettante per il governo, anche quando professa ideali confuciani, impiegare la coercizione “per il bene” degli altri, e quindi cadere nella trappola del credere che “il fine giustifica i mezzi”. Per la maggior parte, i Dialoghi mostrano che Confucio stesso è riuscito a resistere a questa trappola, e anche quando concedeva per necessità i mezzi non desiderabili, come leggi punitive per risolvere i problemi sociali (Dialoghi XII. 13), ha sempre chiarito che ogni uso della coercizione è un fallimento dell’autorità.

Mentre il caos politico cresceva dopo la morte di Confucio (479 a.C), è diventato man mano più difficile per i suoi seguaci non compromettersi in nome del realismo politico. La chiave di transizione nella tradizione avvenne con Xunzi (298-238 a.C.), la cui pessimistica visione della natura umana lo ha portato ad enfatizzare il ruolo della coercizione nel mantenimento dell’ordine sociale. “Incoraggiate loro con encomi e ricompense; castigateli con rimproveri e punizioni…Coloro che impiegano i propri talenti in atteggiamenti opposti a ciò che è opportuno all’occasione dovranno essere condannati a morte senza pietà” (Kniblock 1990: p. 94). Non solo Xunzi era in disaccordo con Confucio riguardo le sentenze di morte da parte del governo, egli andò oltre difendendo ciò come “un male necessario” e lo descrisse come “il potere (de) del cielo – tale è il regno del vero re” (ivi: 95). Xunzi enfatizzava la necessità per un buon governo di “arricchire il paese” e “rinforzare le truppe” per la sicurezza e il benessere delle persone – i mezzi coercitivi erano giustificati nella ricerca di questi fini. Michael Twohey sostiene che, “se una strategia di sviluppo in Asia viene proposta come ispirata al confucianesimo, solo lo Xunzi, tra gli antichi testi confuciani, propone un sistema di governo autoritario affiancabile a quella strategia che è stata applicata a Singapore, Taiwan, e forse nella Cina dopo Mao” (Twohey 1999: 27).

È interessante e molto persuasiva la tesi di Twohey secondo cui “la prospettiva di Xunzi fu centrale per i riformatori della Cina moderna, quando essi giustificavano la necessità di una strategia di sviluppo guidata da una forte leadership autoritaria” (ivi: 28). Comunque egli tralascia il modello differente di autorità come autorevolezza implicito nei Dialoghiquando include Confucio tra i difensori di un sistema di governo basato su di un’etica autoritaria avente come fine il benessere e la sicurezza sociali. In aggiunta, la legittimazione del sistema di governo autoritario che egli discute è solo superficialmente confuciana. È vero che Confucio credeva che un buon governo dovesse garantire la sicurezza e il benessere di base delle persone (Dialoghi XIII. 9), in ogni caso il suo ideale di “governo virtuoso” non finisce con questo, ma richiede anche l’educazione e la trasformazione morale delle persone, una volta che la pace minima e i mezzi di sussistenza sono stati ottenuti. La domanda che un confuciano dovrebbe porre è se un sistema autoritario legittimato soltanto dalla sicurezza fisica e dalla prosperità economica possa dar luogo alle condizioni per cui i cittadini riescono a coltivare loro stessi secondo gli insegnamenti di Confucio. Io sostengo che la sottomissione a un sistema del genere sia motivata dall’interesse personale in un modo che incoraggia l’allontanamento dalla virtù (de) e dalla Via di Confucio; esso incoraggia il rispetto non per l’autorità, il quale risiede nell’eticamente autorevole, ma per la forza e l’effettualità nell’ottenere risultati militari, economici e politici, cosa molto lontana dallo spirito confuciano. In un’età autoritaria, è fin troppo comune per qualsiasi insegnamento che valorizza l’autorità essere pervertito in difesa dell’autoritarismo. È di importanza vitale per il futuro del confucianesimo salvare gli insegnamenti di Confucio sull’autorevole da tale perversione.

di Sor-hoon Tan

(Traduzione dall’inglese di Enea Bianchi)

 

Riferimenti bibliografici

Ames, Roger T. e Henry Rosemont, Jr, 1998, The Analects of Confucius: A Philosophical Translation, New York, Ballantine.

Carter, April, 1979, Authority and Democracy, London: Routledge and Kegan Paul.

D.C. Lau, 1979, Confucius: The Analects, Harmondsworth, Penguin.

Hershock, Peter D. and Roger T. Ames, 2006, Confucian Cultures of Authority, Albany, State University of New York Press.

Knoblock, John, 1990, Xunzi: A Translation and Study of the Complete Works, Stanford, Stanford University Press, 3 volumes.

Tan, Sor-hoon, 2004, Confucian Democracy: A Deweyan Reconstruction, Albany, State University of New York Press.

Twohey, Michael, 1999, Authority and Welfare in China, London, Macmillan.

 

Nota del traduttore

I passi tratti dai Dialoghi sono stati lasciati nella traduzione pubblicata nel volume “Confucio, 2006, Dialoghi, a cura di T. Lippiello, Torino, Einaudi”.