Ágalma 22 – Divismo/Antidivismo Torna al sommario del numero

Veronica Pravadelli – Dive al lavoro: working girls e donne forti nel cinema muto americano. Il caso di Clara Bow, the “It Girl” 


La diva e le teorie del divismo, in breve

Nella prima metà del Novecento il divismo cinematografico è stato un fenomeno di enorme importanza. Com’è noto sono state soprattutto le dive e i divi del cinema americano, incluse attrici e attori europei emigrati a Hollywood, ad avere occupato l’immaginario di generazioni di spettatori e spettatrici. Ancora oggi, in Italia e in altri paesi europei, il fenomeno del divismo è guardato con sospetto, sia in ambito accademico che critico: si tende a pensare che sia qualcosa di superficiale, semplice, se non stupido, buono per la massa non pensante; al massimo gli si concede di essere il prodotto di dinamiche produttive e commerciali. Anche in questo caso però lo si riduce a poca cosa: l’industria ha bisogno dei divi per vendere i propri film e a tale scopo investe risorse umane e finanziarie; quando la diva funziona la casa di produzione ottiene un ritorno economico dei propri investimenti. Questa prospettiva apocalittica e semplificata attribuisce il successo del divismo “alla manipolazione del mercato in analogia con la ‘manipolazione’ della pubblicità”, considera il divismo un puro meccanismo, e la star un prodotto (Dyer 2003: 18-19).

A difendere questa posizione troviamo pensatori di grande calibro come Edgar Morin, Herbert Marcuse e lo storico americano Daniel Boorstin, meno noto forse, ma autore, nel 1961, di un volume importante, The Image: A Guide to Pseudo-Events in America, che anticipa alcune teorie sull’iperrealismo e il postmoderno elaborate più tardi da Baudrillard e Debord. Secondo Boorstin le star, come molti eventi della cultura contemporanea, “sono pseudo-eventi: sembrano densi di significato ma in realtà ne sono privi […] Sono un esempio di ‘celebrità’ che si afferma in forza di insignificanti differenze di aspetto” (Dyer 2003: 20). Riprendendo le obiezioni di Richard Dyer, autore dello studio più importante sul divismo cinematografico, possiamo sottoporre questa posizione a molteplici critiche. Da un lato, non tutte le manipolazioni, non tutte le star, hanno successo, nonostante il meccanismo utilizzato sia lo stesso. Forse il pubblico ha una coscienza, un certo grado di consapevolezza, un certo gusto: in ogni modo, non reagisce ciecamente, come l’industria pensava di stabilire a tavolino. Ma l’obiezione decisiva riguarda il contenuto dell’immagine della star: il divismo può essere anche un meccanismo, ma ogni star è unica e dunque mobilita in modo diverso desideri, aspirazioni, paure del pubblico. La star incarna in modo più intenso stili di vita, sogni, valori diffusi e, in virtù della diffusione capillare del cinema, intreccia le traiettorie e i destini di milioni di spettatrici e spettatori. Solo se siamo disposti a considerare il divismo e la star come un dispositivo dotato di senso, e l’immagine divistica un segno che, semioticamente, attiva strutture di significato per chi guarda, possiamo coglierne la rilevanza e il fascino.

L’identificazione o l’empatia del pubblico con la star può avvenire se la diva fonde elementi eccezionali con tratti ordinari, quotidiani. Questo secondo aspetto è spesso sottolineato nei materiali pubblicitari, nelle fan magazines o in pubblicazioni dell’industria cinematografica, attraverso foto, interviste e servizi che mostrano la star al di fuori dal set mentre compie gesti quotidiani, azioni e attività che qualsiasi persona deve fare. Ma l’aspetto ordinario si scontra con il suo opposto. E’ indubbio infatti che le star sono state, e sono tuttora, anche se meno, un esempio del sogno americano organizzato attorno alle immagini del consumo e del successo. Lo stile di vita glamour, il “consumo vistoso”, per riprendere il noto concetto di Veblen ne La teoria della classe agiata (1899), connotano in modo palese stili di vita e ambientazioni, soprattutto nel cinema degli anni ’20 e ’30.

In questa prospettiva sono le donne a costituire un veicolo privilegiato. Secondo Veblen il modo migliore per un ricco di mostrare la sua ricchezza, il suo accesso illimitato ai beni di lusso e ai canoni del gusto è di avere una moglie che non lavora e che esprime con le sue abitudini costose la ricchezza del marito. Basti pensare come a inizio anni ’30 Paramount e MGM scelgano l’eleganza e la ricchezza come studio style, come tratti distintivi delle loro politiche produttive. Ricordiamo, per esempio, le commedie di Lubitsch per Paramount e gli all-star film di MGM, come Grand Hotel (1932) e Pranzo alle otto (1933).  In un ambito strettamente cinematografico Molly Haskell ha rilevato come, più degli uomini, nel cinema hollywoodiano erano le dive “i veicoli della fantasia di uomini e donne e i termometri dei cambiamenti della moda. Come uno specchio a due facce che lega il passato prossimo e il futuro prossimo, le dive riflettono, perpetuano e, da un certo punto di vista rinnovano i ruoli delle donne nella società” (Haskell 1974: 12).

E tuttavia, l’idea che Hollywood fosse la fabbrica dei sogni e che le dive abbiano dato forma a stili di vita troppo eleganti e troppo  ricchi, all’insegna del divertimento, del tempo libero e del consumo, ovvero stili inarrivabili per le spettatrici è solo metà (o forse anche meno) della storia. Il cinema degli anni ’20 e ’30 è infatti popolato da attrici che, sistematicamente, interpretano ruoli di ragazza dalle origini umili che trova un riscatto sociale attraverso il lavoro nella metropoli. La working girl è una figura del tutto tipica del cinema americano dei primi decenni così come l’emancipazione femminile attraverso la mobilità sociale è il tipo di storia che tra gli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 Hollywood ama raccontare forse più di ogni altra storia (Pravadelli 2007). Joan Crawford è “the queen of the working girls”, ma molte star in realtà hanno costruito la loro immagine divistica attorno al lavoro, alla forza e alla determinazione. Tuttavia se consideriamo gli studi critici, e i commenti dei media di grande diffusione a proposito delle dive non possiamo non notare un sessismo di fondo. Nonostante il cinema americano abbia realizzato moltissimi film incentrati su donne lavoratrici si è preferito spostare l’attenzione sulla bellezza o meglio la desiderabilità del corpo femminile. Richard Dyer ha definito l’immagine divistica una “polisemia strutturata”, ovvero un insieme di tratti e significati, anche contraddittori, che si presentano come una “totalità espressiva”, unica per ogni star (Dyer 2003: 152). A mio avviso il cinema hollywoodiano ha declinato in modo diverso questa strategia, lavorando più profondamente sulle contraddizioni nel caso delle immagini femminili rispetto a quelle maschili. Attraverso le dicotomie lavoro/sesso, azione/corpo, attività/passività l’immaginario cinematografico ci ha restituito una serie di figure femminili, forti, autonome e al tempo stesso eccitanti, un vero spettacolo, anche erotico, per lo sguardo di chi sta in sala. Questo binomio è inscindibile e costituisce la peculiarità della diva rispetto al divo.

Visto in quest’ottica il fenomeno stesso del divismo femminile potrebbe mettere in discussione l’idea di partenza della Feminist Film Theory, elaborata da Laura Mulvey nel suo famosissimo saggio Piacere visivo e cinema narrativo (Mulvey 1978). Secondo Mulvey nel cinema americano classico il piacere del guardare è stato scisso in attivo/maschile e passivo/femminile: la donna è l’oggetto passivo dello sguardo dell’uomo e ha la mera funzione di sostenere il desiderio maschile. La differenza sessuale è iscritta sia nel registro narrativo, con l’uomo che porta attivamente avanti l’azione, che in quello retorico: attraverso una figura come la soggettiva, e più in generale la messa in scena degli sguardi, la dicotomia maschile/femminile è stata codificata dal linguaggio cinematografico attraverso modi standardizzati di articolare inquadrature, spazi e rapporti intersoggettivi. In verità il modello di Piacere visivo non caratterizza il cinema hollywoodiano nel suo complesso, ma costituisce una tendenza all’interno di uno scenario ben più complesso e vario, che spesso appare in aperta contraddizione con la posizione di Mulvey.

Se consideriamo le immagini divistiche più importanti notiamo innanzitutto una fusione tra dinamiche attive e passive, con una prevalenza delle prime sulle seconde. D’altro canto, l’immagine potente e carismatica della diva, fusione perfetta di dinamismo, forza e bellezza, è ontologicamente attiva, non può essere ascritta al registro della passività. La diva interpreta per definizione un ruolo centrale e dominando lo schermo non può mai essere ridotta a un ruolo subordinato. Pertanto il fenomeno del divismo femminile hollywoodiano è un dispositivo che, anche in virtù di una determinata congiuntura storica, l’emancipazione femminile di inizio Novecento, afferma, di per sé, la forza del soggetto femminile. Questa forza non può evidentemente prescindere dalla questione sessuale: il cinema hollywoodiano contribuisce in maniera decisiva “all’esplosione discorsiva”, “all’incitazione istituzionale” a parlare di sesso teorizzata da Foucault ne La volontà di sapere (Foucault 1978, 19-20).

Le star, tuttavia, non sono semplicemente uniche, ma sono correlate a tipi sociali, pena l’incapacità di intercettare il desiderio del pubblico. Secondo il sociologo Orrin Klapp nel cinema e nella cultura americana vi sono tre tipi sociali dominanti, che incarnano cioè i valori accettati: il brav’uomo, il duro e la pin-up. Ancora una volta troviamo confermati i nostri sospetti: l’unica figura femminile di rilievo ha come tratto distintivo l’eroticità. Esistono poi tipi alternativi o sovversivi che rifiutano l’ordine stabilito, come il ribelle e la donna indipendente (Dyer 2003: 61-70). Molly Haskell ha analizzato la figura della donna indipendente proponendo la distinzione tra superfemmina e superdonna. La superfemmina è una donna molto femminile, ma anche intelligente e ambiziosa che rifiuta il ruolo subalterno che le compete. Non potendo però agire al di fuori dell’ambito domestico si rivolge alle persone intorno a lei con risultati demoniaci. L’esempio fondamentale di questa categoria sarebbe la Bette Davis di film come La figlia del vento Piccole volpi. Si deve obiettare che, in molti altri film Bette Davis interpreta personaggi ben diversi, forti e autonomi ma non malvagi. La superdonna invece non sfrutta la propria femminilità: mette a frutto la sua intelligenza adottando tratti maschili. Haskell cita a questo riguardo il personaggio di Joan Crawford in Johnny Guitar (1954) e di Katharine Hepburn in Sylvia Scarlett (1935) (Haskell 1974: 214). Come suggestione la distinzione proposta dalla femminista americana può essere utile. Ma non spiega la produzione complessiva di una star, nè di un periodo, ma semmai solo alcuni film. L’esempio di Joan Crawford è eclatante: è vero che nel western-melodramma di Nicholas Ray il personaggio di Vienna è mascolinizzato. Ma questo non è abitualmente un elemento dell’immagine di Crawford che è sempre sia femminile che forte ed autonoma. Appare necessario, dunque, pensare alla diva come ad un’immagine complessa che fonde elementi antitetici, riconducibili sia alla mascolinità che alla femminilità. La figura della working girl, personaggio e tipo sociale al tempo stesso, ci aiuta in modo decisivo a interpretare lo statuto dell’immagine e del divismo femminile nel cinema  americano classico.

New Women, cinema e modernità urbana

La figura della New Woman invade gli schermi cinematografici americani sin dagli anni ’10. Negli Stati Uniti è una figura sociale di indubbia centralità emersa, come il cinema stesso, in relazione alla modernità. Nei primi decenni del Novecento si consolida la trasformazione della condizione femminile iniziata a cavallo tra i due secoli quando molte giovani si spostano nelle aree urbane in cerca di lavoro. Le donne lasciano le zone rurali in numero superiore rispetto agli uomini in cerca non solo di autonomia economica, ma anche attirate dallo stile di vita libero della metropoli, dalle nuove forme dell’intrattenimento e del consumo. Nel 1929 “più della metà delle donne single avevano un impiego remunerato” e nelle grandi città sino ad “un terzo delle lavoratrici adulte vivevano sole in appartamenti privati o a pensione” in assenza di figure parentali (Zeitz 2006: 29-31). Lo stile di vita moderno della New Woman comprendeva, oltre all’indipendenza economica, una relazione completamente nuova rispetto al lavoro, al tempo libero e al sesso. Da un lato nuovi lavori nei grandi magazzini, nei ristoranti e negli uffici rappresentavano un’alternativa al servizio domestico e alla fabbrica. Dall’altro emerge un’idea “del tempo libero come una sfera indipendente separata” dal lavoro e in cui domina il divertimento, il piacere e il consumo (Peiss 1986). Oramai l’esperienza femminile non è più relegata alla sfera domestica e privata: le donne invadono lo spazio pubblico maschile sia nel contesto lavorativo che del tempo libero. Finisce la “segregazione degli spazi” che aveva diviso secondo parametri di genere l’esperienza quotidiana di uomini e donne. In questo scenario, è la condizione femminile a cambiare in modo radicale. Con la modernità la donna si appropria di alcuni elementi prettamente mascolini senza per questo perdere i tratti della femminilità. Ma la femminilità della New Woman è completamente diversa da quella della donna vittoriana. Mentre quest’ultima si era sviluppata attorno ai tratti della domesticità, della purezza, della religiosità e della subordinazione al maschile (Welter 1966), la New Womanhood costituisce un’immagine alternativa sotto ogni aspetto.

Il film seriale degli anni ’10 è la forma cinematografica che per prima dà piena visibilità a questa nuova figura femminile e rappresenta in modo assai efficace il nuovo statuto della donna. Attraverso una rielaborazione di topoi della letteratura popolare del tardo Ottocento, il genere delle serial queen si incarica di rappresentare questa nuova figura sociale, figura con cui una parte importante dell’audience cinematografica può identificarsi. I serial queen sono film a episodi in cui una eroina giovane, intraprendente e dinamica vive una serie di avventure e sfida pericoli di ogni sorta sfruttando le proprie abilità ginniche e la nuova libertà di movimento resa possibile da una nuova concezione dell’abbigliamento. Queste eroine intrepide fanno ciò che gli uomini hanno sempre fatto. “Anche se la materia prima delle loro avventure – infarcite di motivi polizieschi, esotici, spionistici, fantascientifici, western – proviene dal repertorio già mille volte saccheggiato della letteratura popolare, essa comporta almeno una novità di tutto rilievo”, la presenza di giovani donne come protagoniste in luogo dei tradizionali eroi maschili (Dall’Asta 2009: 149). Benché siano presenti tematiche e motivi del melodramma sensazionale ottocentesco, come il conflitto tra la giovane e il suo tutore, l’assenza della figura materna, le origini misteriose della protagonista, l’eroina non è più, come nel melodramma, una giovane indifesa la cui virtù va salvata, ma una ragazza forte che si difende da sola e che spesso è in grado di salvare gli altri. Ma le serial queen esprimono anche un preciso paradigma di classe: narrano le avventure di eroine di estrazione popolare, la classe sociale dell’audience cui sono primariamente destinate (Singer 2001). I tratti più significativi della serial queen risiedono dunque in una particolare combinazione tra lo statuto di genere e di classe: la protagonista è un’eroina “del popolo” mascolinizzata.

La New Woman rimane una figura centrale nel cinema degli anni ’20 anche se l’immagine assume connotati diversi rispetto al decennio precedente. Negli anni ’20 la configurazione dominante della New Woman si sviluppa in particolare attorno alle tematiche legate alla sfera sessuale e ai comportamenti morali. Anche se spesso la libertà e l’autonomia femminili si scontrano con forme residuali della morale vittoriana, il cinema del decennio, sino a inizio anni ’30, rappresenta in modo positivo questa figura sociale. In questo periodo le donne rappresentano la maggioranza dell’audience (Stokes 1999) e Hollywood si adegua sfornando un gran numero di film con protagoniste femminili, spesso scritti da sceneggiatrici donne. Del resto, in questo periodo il divismo femminile sovrasta in modo inequivocabile quello maschile. Non mancano i divi, ovviamente, ma il ruolo e l’impatto al box-office delle donne è di gran lunga superiore. In questi anni la flapper rappresenta la figura più popolare di New Woman. La flapper fonde tratti fisici e comportamentali particolari: porta i capelli a caschetto e ha gonne più corte, beve molto, ama divertirsi e ha una sessualità piuttosto libera. Come nel caso di Clara Bow in It (1927) – l’esempio su cui ci soffermeremo – la flapper è spesso una giovane lavoratrice di estrazione popolare. Ma la chiave del suo successo è lo statuto contraddittorio della sua immagine: la flapper è dolce e al tempo stesso ribelle, innocente e sexy, giovanile e mondana (Ross 2000).

Se la flapper diventa una figura fondamentale in tutti gli ambiti della cultura americana, dalla moda alla letteratura, dalla stampa popolare alla pubblicità (Zeitz 2006), è il cinema a decretarne lo statuto mitico. Il genere “flapper film”, che si sviluppa all’incirca dal 1920, con il film The Flapper interpretato da Olive Thomas, sino al 1929 quando Clara Bow interpreta il suo ultimo ruolo flapper nel film di Dorothy Arzner The Wild Party (Ross 2000), testimonia la pervasività di questa figura nell’immaginario dell’epoca.

Ma alcune dive hanno incarnano meglio di altre questa figura e hanno rivestito un ruolo più importante nell’affermarsi di questa immagine. Colleen Moore ha dominato gli schermi nella prima metà del decennio, ma la sua figura, solo recentemente rivalutata dalle storiche del cinema (Hastie 2007), è stata oscurata dal tempo o è rimasta, al meglio, un ricordo di cinefili e appassionati. Al contrario, Clara Bow non è mai uscita dall’immaginario culturale americano e occidentale: anzi, è forse la diva che più di ogni altra ha decretato l’eterno fascino della flapper. Colleen Moore stessa sembra essersi accorta del pericolo che rappresentava la sua più giovane collega quando durante le riprese di Painted People (1923) si oppose alla decisione del regista di far girare alcuni primi piani di Clara Bow. Nel film Moore è la star e Bow ha un ruolo secondario, ma nel momento in cui le due attrici devono girare una scena insieme, Colleen evidentemente intuisce che la sconosciuta Clara le può rubare la scena. In effetti, Moore, star del film e moglie del produttore, ha la meglio. Secondo David Stenn, biografo di Bow, Clara non capì il comportamento di Moore e la supplicò di non opporsi poiché, in quella fase della carriera, “ogni primo piano poteva aiutarla”. L’esito negativo della discussione spinse la giovane attrice a una soluzione radicale. Quella sera stessa andò a farsi operare per una sinusite che la affliggeva da tempo e per la quale non vi era alcuna fretta. Tornò a casa col volto gonfio e fasciato di bende: ovviamente Clara non poté continuare a lavorare al film e dovette essere sostituita. La produzione fu costretta a rigirare tre settimane di riprese e il film naturalmente finì per essere in ritardo (Stenn 1988: 40).

Anche se nei primi anni della sua carriera Clara Bow gira film a basso budget, la sua presenza scenica e le sue qualità attoriali sono subito evidenti agli addetti ai lavori, oltre che alla critica specializzata e al pubblico. Se in ruoli minori riesce a farsi notare, spesso a scapito degli interpreti principali, nei film in cui è protagonista contribuisce a elevare la qualità del film, spesso non eccelsa, e a rimanere così nella testa di critici e spettatrici. Dopo essere diventata, in soli due anni una “minor star”, nel 1925 la carriera di Clara Bow sembra essere a una svolta. Nel giugno di quell’anno il Motion Picture Classic le dedica la copertina e un articolo che ne analizza l’appeal. L’intervento giunge alla conclusione che “la piccola Clara Bow mostra sintomi allarmanti che sta per diventare la sensazione dell’anno a Hollywood. C’è qualcosa di vitale che conquista nella sua presenza. E’ lo spirito della giovinezza. E’ una rampante Giovane Americana, il simbolo stesso dell’essere flapper” (Stenn 1988: 48). E in effetti, a lei più che a ogni altra diva, si addice una celebre frase di Francis Scott Fitzgerald secondo cui la flapper ideale “era adorabile, costosa ed aveva circa diciannove anni”.

Dopo aver raggiunto una visibilità più marcata con film come The Plastic Age (1925) e Dancing Mothers (1926), con It (C. Badger, 1927) Clara Bow raggiunge una fama straordinaria surclassando in popolarità qualsiasi altra star di Hollywood del momento. Come ricorda anche Louise Brooks nelle sue memorie dopo quel film gli incassi del box-office fecero di Clara la star numero 1 di Hollywood (Brooks 1974), mentre ricerche storiche sull’audience hanno rilevato che all’epoca Clara Bow riceveva dai fan il doppio di lettere rispetto a ogni altra star con un picco di 45.000 lettere la settimana (Orgeron 2003: 77). Partendo dall’omonimo racconto di Elinor Glyn, pubblicato in due puntate su Cosmopolitan nel febbraio e marzo del 1927, il film riesce a condensare in modo mirabile l’immagine della rivoluzione sessuale del decennio e della figura femminile che più di qualsiasi altra cosa ha incarnato tale rivoluzione. Mentre Bow diventa, nelle parole di Fitzgerald, “la quintessenza di ciò che il termine flapper significa”, “una cosa giovane con uno splendido talento per la vita”, il pronome “It” riassume in una sola sillaba l’immaginario di tutta un’epoca. Per Glyn le persone, uomini e donne allo stesso modo, si distinguono tra coloro che hanno o non hanno “it”. Avere “it” significa possedere un sex-appeal naturale, una forza magnetica vitale che attira le persone: con “it” conquisti tutti gli uomini se sei una donna e tutte le donne se sei un uomo. Nel film di Badger i personaggi fanno riferimenti espliciti al racconto di Glyn e la scrittrice, che appare in un cameo nella scena al Ritz, fu accreditata nei titoli di testa per la storia. In realtà il film è basato su un soggetto originale, pensato appositamente per Clara, che incorpora semplicemente il concetto di “it.” La forza del film, oltre naturalmente la sua star, sta nell’aver fuso gli elementi più significativi del rapporto tra New Woman e modernità con un ritmo narrativo incalzante e un’articolazione dello sguardo efficace e innovativa.

Betty Lou è una commessa nei grandi magazzini Maltham di New York che cerca di attirare l’attenzione del nuovo manager, figlio del proprietario. Fingendo di accettare le avances di Monty, amico e collaboratore dell’uomo, durante una cena nell’elegante ristorante del Ritz riesce finalmente a farsi notare: mentre Cyrus Waltman/Antonio Moreno sta cenando noiosamente con la fidanzata e la madre di lei in un tavolo adiacente, Betty Lou attira il suo sguardo. A fine serata con un altro stratagemma la giovane riesce a parlare a Cyrus: i due si danno appuntamento per il giorno successivo. Ma la relazione subisce un arresto quasi immediato quando Cyrus e l’amico sono portati a credere che Betty Lou abbia un figlio. In realtà il bambino è figlio dell’amica con cui la protagonista vive e Betty Lou ha reclamato la maternità solo per impedire che i servizi sociali tolgano l’affidamento del bimbo alla madre disoccupata. Quando Monty informa Cyrus della condizione di Betty Lou, l’uomo le offre di fare l’amante: incredula, la giovane si licenzia. Quando a Natale Monty va a salutare la ragazza e capisce di aver frainteso la situazione, confessa a Betty Lou il motivo del comportamento di Cyrus. Ma la giovane non giustifica l’amato e prepara la sua vendetta. Convince l’amico a portarla sotto falsa identità nella barca di Cyrus, in procinto di salpare per una crociera. Dopo una serie di alterchi verbali e peripezie – tra cui il coraggioso salvataggio della fidanzata di Cyrus, in cui Betty Lou dà prova di essere una nuotatrice esperta  – alla fine i due dichiarano di amarsi.

Il fascino di Clara Bow emerge anche in opposizione alla fidanzata ufficiale di Cyrus, una giovane dell’upper class newyorkese che non riesce mai a incuriosire e attrarre veramente l’uomo. Il loro è un rapporto combinato che già all’inizio del film – nell’episodio del Ritz – mostra evidenti segni di stanchezza. Nell’immaginario sulla New Woman questo tratto è fondamentale e certamente il cinema trasferisce sullo schermo alcuni elementi della reale condizione femminile nello scenario urbano americano di quegli anni. La New Woman è, in primo luogo, una working girl, una giovane che proviene da un ambiente popolare e povero – come del resto la stessa Clara Bow – e che lavorando ambisce a migliorare la propria condizione. Naturalmente anche le donne di classi sociali più elevate in questi anni possono acquisire una maggiore libertà sessuale e abitare gli spazi pubblici, soprattutto i luoghi del divertimento, ma di norma non lavorano. Se la mobilità sociale, legata ad una forte libertà sessuale, non può che essere prerogativa delle giovani proletarie, il cinema rappresenta la differenza di classe in modo piuttosto audace. Mentre alle giovani lavoratrici energiche, autonome, ed attraenti il cinema riserva un trattamento di favore, le donne altolocate sono rappresentate in due modi: nella gran parte dei casi sono noiose, composte, passive e languide, prive sia di erotismo che di vitalità, quando invece si dedicano al piacere sono eccessive, smodate e decadenti. La vera flapper ama flirtare, anche con più di un uomo, ma raramente il suo atteggiamento è accompagnato da una sessualità estrema. Anche se, come si vede in It, la flapper ambisce più spesso ad un uomo ricco che ad uno della sua classe, l’interesse non è rivolto semplicemente ai soldi, come per certe femmes fatales: si tratta sempre e comunque di una relazione d’amore. Quando Cyrus offre a Betty Lou di riempirla di gioielli e vestiti, di diventare cioè una kept woman, la giovane rifiuta perché è innamorata dell’uomo.

L’estrazione popolare di Betty Lou può essere rintracciata in ogni azione e spazio del film e sembra essere legata all’energia e alla capacità d’iniziativa della protagonista. Quando alla fine del turno di lavoro esce da Waltman, la giovane si precipita correndo su un tram pieno di gente, rifiutando l’auto con chauffeur che Monty le offre, quindi arriva nel piccolo appartamento, in un quartiere popolare alla periferia di New York, che condivide con l’amica e il bambino. Betty Lou è eccitata, perché spera di conoscere Cyrus. Al fine di essere sexy e attraente con alcuni ritocchi trasforma il vestito che ha indossato al lavoro in un abito da sera. Ma gli episodi più significativi a questo riguardo sono quelli di Coney Island e del salvataggio finale in mare. Quando Cyrus chiede a Betty di uscire insieme la ragazza non gli propone un posto elegante e costoso: anzi gli chiede di portarla alla spiaggia, ovvero al grande parco dei divertimenti di Coney Island. Dopo essersi incontrati al Ritz, luogo elegante per eccellenza, dove il menu è solo in francese, la sera successiva i due si trovano a mangiare hot dogs in piedi, poi provano, una dopo l’altra, tutte le attrazioni del luna-park. A Coney Island, luogo di divertimento popolare tra i più frequentati e affollati, i due si divertono enormemente. Alla staticità e sobrietà eccessive del Ritz si oppone il dinamismo, la velocità e l’eccitazione fisica di Coney Island. Le sensazioni di estrema eccitazione – gli shock  di Simmel e Benjamin – sono trasmesse allo spettatore e alla spettatrice ponendo la macchina da presa nello spazio occupato dai protagonisti: così nel movimento veloce verso il basso delle montagne russe o di altre giostre riviviamo l’impressione fisica, l’ebbrezza provata da coloro che siedono nelle automobiline in movimento. La velocità è dunque il tratto tipico di questo episodio, a fronte della lentezza e della staticità dell’episodio del Ritz. Il rapporto tra i due ambienti, quello popolare e quello altolocato, è altresì articolato nell’opposizione tra divertimento e noia.

I tratti della velocità e del dinamismo tornano a dominare l’immagine nell’episodio finale che sancisce la ricostituzione della coppia Betty Lou-Cyrus. Come la scena di Coney Island, il finale tradisce la filiazione del film con la cultura popolare. Quando Betty Lou e la fidanzata di Cyrus finiscono in mare, dopo che la nave si è scontrata con un’altra imbarcazione, la protagonista non si perde d’animo e nuota con grande energia verso la rivale che sta annegando. L’iconografia dell’episodio è un chiaro richiamo alle avventure sportive delle eroine dei serial queen: anche se Clara Bow è una giovane commessa e le serial queen sono sparite da tempo dagli schermi, questa citazione, forse involontaria, appare significativa. Nell’istituire una relazione tra la protagonista di It e le eroine degli anni ’10, il film rimarca ancora una volta il suo legame sia con la cultura popolare che con la figura della New Woman di inizio secolo. Le qualità ginniche della New Woman sono un ulteriore elemento distintivo rispetto alla donna delle classi più abbienti, la cui compostezza morale e fisica sconfina nell’apatia. E certo non è un caso che le maniere chic e un po’ decadenti dei ricchi e delle ricche newyorkesi siano legate all’Europa, e in particolare la Francia, mentre Betty Lou, una ragazza comune e di umili origini, ha la forza e l’energia dei modi yankee.

La soggettività attiva di Betty Lou è espressa anche attraverso una particolare articolazione dello sguardo. In It, ma anche in molti altri film di Clara Bow, il rapporto di desiderio tra maschile e femminile emerge in primo luogo attraverso l’azione della donna. Grazie e movenze particolari, l’attrice attira l’attenzione e lo sguardo dell’uomo che vuole conoscere. Questa dinamica comprende posture e spostamenti dinamici del corpo, ma anche espressioni del volto specifici, inclusi movimenti e roteazioni particolari degli occhi e delle sopracciglia. In It lo stile performativo di Clara Bow si avvale in modo del tutto speciale delle movenze degli occhi e della qualità del suo sguardo. Nella scena del Ritz, per esempio, l’uso dello zoom e della soggettiva distorce il tempo e lo spazio: così la forza del desiderio di Betty Lou si esprime attraverso uno sguardo veloce e dinamico e il film concentra sugli occhi della donna tutta la carica energetica del dinamismo e del cambiamento della modernità (Landay 2002: 237-8). Il movimento vertiginoso provocato dallo sguardo di Clara costringe il sobrio e compito Cyrus a posare il suo sguardo sulla donna. Da quel momento, il desiderio dell’uomo sarà inestricabilmente agganciato a quello della giovane commessa.

Anche se in It queste dinamiche sono più efficaci ed articolate, lo stile performativo di Clara Bow mostra gli stessi tratti anche in film e/o ruoli minori. Al tempo stesso, il desiderio della diva di stare con l’uomo che ama può condurla ad azioni spregiudicate e pericolose e a travestimenti continui come in Parisian Love (1925), dove l’unione finale arriva solo dopo una serie di peripezie senza fine, compreso il ferimento quasi mortale della protagonista. In confronto a Clara Bow il protagonista maschile appare passivo e privo di iniziativa, a conferma che nel cinema della Jazz Age l’opposizione tra attività e passività non rispecchiava affatto il paradigma che in quegli stessi anni Freud formulava nelle sue teorie della sessualità. Com’è noto, in una serie di saggi degli anni ’20 e inizio anni ‘30 Freud polarizza il conflitto di genere nei termini della dicotomia tra attività e passività. Semplificando, se la “corretta femminilità” prescrive l’accettazione da parte della donna della posizione passiva, la mascolinità si definisce secondo il tratto dell’attività. In Piacere visivo e cinema narrativo Laura Mulvey parte esplicitamente dalle teorie freudiane sulla sessualità e sulla pulsione scopica rielaborandole in modo originale al fine di spiegare il funzionamento del dispositivo narrativo del cinema hollywoodiano (e non solo). In realtà sia la posizione di Freud che quella di Mulvey vanno relativizzate: lo scenario sociale e cinematografico americano degli anni ’20 mostra che le rigide strutture binarie che oppongono maschile e femminile  funzionano come paradigmi teorici, ma non descrivono i soggetti sociali implicati, nè quelli rappresentati sullo schermo. Mascolinità e femminilità sono posizioni discorsive che possono essere assunte indipendentemente da uomini e donne. Nel contesto della modernità di inizio Novecento il fenomeno del divismo femminile, e dive come Clara Bow, contribuiscono in modo fondamentale a ridefinire i contorni della soggettività femminile decostruendo e, in definitiva, rifiutando le dicotomie di genere consolidate.

 

di Veronica Pravadelli

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