Esistono ancora gli outsiders? È intorno a tale domanda che ruota questo numero di «Ágalma». Se si guarda alle arti, non vi è dubbio che la figura dell’outsider è stata già da molto tempo istituzionalizzata sotto varie etichette dall’Art Brut alla Folk Art, dall’Insane Art alla Visionary Art: un volume di orientamento generale sull’argomento, Raw Vision (a cura di John Maizels, Radlett, 2002), individuando cinquanta Classic Outsidersglobali (tra cui un solo italiano, Carlo Zinelli), stabilisce addirittura un canone dell’Outsider Art, il che da un punto di vista logico sembra una contraddizione in termini. E anche estendendo questa problematica ad altri campi della cultura, la situazione non cambia sostanzialmente. Ai loro tempi Kierkegaard e Nietzsche sono stati degli outsiders della filosofia, non meno che Rimbaud e Campana della letteratura. Tuttavia non è mettendola sul piano del riconoscimento postumo della genialità, che in questa intricata questione si possano fare molti progressi.
Forse è più proficuo interrogarsi su quelle figure che sembrano, a prima vista, prossime all’outsider, la prima delle quali è quella del dilettante. La parola è nata in Italia nel Rinascimento e si è poi estesa alle altre lingue europee senza variazioni, dando luogo a quegli “intraducibili” che sembrano inseparabili dallo spirito di una cultura nazionale. All’inizio è connessa con l’affermazione dell’autonomia dell’arte, in contrapposizione alla condizione artigianale, dipendente dalle commissioni esterne, da cui appunto l’artista rinascimentale vuole emanciparsi. Si dice, per esempio, che questo o quell’artista famosissimo abbia iniziato la sua opera solo “per dilettazione e passar il tempo”, e “per propria soddisfazione”. Solo più tardi con la nascita delle Accademie, sorge la distinzione tra “professori” e “dilettanti” e l’accento è posto da un lato sull’idea dell’artista sapiente, dall’altro sul piacere che ricava chi pratica un’attività culturale non per guadagno, ma per il godimento estetico che ne trae. Da ciò deriva il grande successo che la nozione di dilettantismo incontra nel neoclassicismo tedesco e nel decadentismo europeo. Il dilettantismo diventa una parte essenziale della formazione dell’uomo moderno: come dice Burckhardt, bisogna essere almeno un po’ dilettanti in molte cose; altrimenti si rimarrà ignoranti, e nell’insieme persone rozze.
Tuttavia un outsider non è affatto un dilettante, ma qualcuno che impegna se stesso in modo totale in un’attività da cui dipende il senso della sua vita, per lo più completamente al di fuori di un campo professionale e istituzionale, talora in concorrenza con questo, ma più spesso restando estraneo alle sue dinamiche concorrenziali ed escluso da un riconoscimento legittimante. Mentre il professionista distingue tra lavoro e tempo libero, tra job e hobby, l’outsider è una specie di ultraprofessionista, perché mette nella sua attività una passione che prescinde dal vantaggio utilitario. La sua attività assume il carattere della vocazione, secondo il significato etimologico della parola tedesca Beruf,che vuol dire appunto chiamata: anche in italiano il termine professione significa innanzitutto aperta dedizione ad un ideale, come nell’espressione “professione di fede”, prima che attività intellettuale esercitata a scopo di guadagno per la quale è necessaria una particolare abilitazione. A partire dal momento in cui anche l’outsider viene solennizzato, vale a dire considerato come il detentore di un capitale culturale non dissimile da quello di un professionista o di un artista, si allontana sempre più dalla figura del dilettante. Ciò che sembra caratterizzarlo è proprio al contrario un’ostinazione e una perseveranza nello svolgimento del suo lavoro che va molto aldilà del comune esercizio di un lavoro professionale.
L’eclisse della figura dell’outsider è segnata dalla società dei consumi, nella quale l’acquisto di un bene culturale conta di più della sua fruizione, secondo il noto fenomeno dell’interpassività che è stato analizzato nel numero 7-8 di questa rivista. Non solo l’outsider, ma neanche colui che opera in modo organico all’interno di un campo socio-culturale può sperare di avere una effettiva influenza. Anzi è più facile per un outsider culturale trovare dei fans di quanto non lo sia per un pensatore o un artista integrato. Tuttavia il fan non è un discepolo, né un seguace, ma la cassa di risonanza acritica di una star dello spettacolo mediatico.
Nel frattempo col diffondersi della tecnologia informatica, è nata una nuova figura, quella del prosumer. Con questo neologismo, nato dalla contrazione delle parole producer e consumer, introdotto da Marshall McLuhan e Barrington Nevitt nel 1972, s’intende qualcuno che assume nei confronti dei materiali forniti dal mercato e dalla rete una condotta attiva, inserendoli in un contesto proprio ed anche trasformandoli, senza tuttavia plagiarli. In questo senso l’attività di un prosumer sarebbe prossima al détournement situazionista, che consisteva appunto nell’integrazione di produzioni attuali o passate in un nuova costruzione autonoma. Sotto questo aspetto, il prosumer sarebbe la figura dell’intellettuale organico al World Wide Web.