Articoli
Miki Okubo, La fine del diario intimo. Dall’antico Giappone a Twitter
Fabrizio Scrivano, Ossessione di esserci. Gli autoinganni nell’autofinzione
Sergio Benvenuto, Una sindrome neuropsicologica di autoinganno: la negligenza spaziale unilaterale
Paolo Bartoloni, Autobiografia della disunità: Svevo tra vita e letteratura
Antonio Romano, Dalla mancanza all’invenzione di sé
Marco Viscomi, Decostruzione dell’autoinganno collettivo. Falsità e illusione nella Storia vera di Luciano
Cristina Formenti, Sbarchi alieni tra piante di spaghetti: l’hoax come specchio del realismo
Testi
Serge Doubrovsky, L‘origine della categoria letteraria di autofinzione
Vincent Colonna, Autofinzioni, affabulazioni e istinti
Saggi
Enea Bianchi, George Kubler o l’arte perenne
Recensioni
Mauro Dorato, Che cos’è il tempo? Einstein, Gödel e l’esperienza comune(Loredana Di Adamo)
Massimo Recalcati, Il Complesso di Telemaco (Milosh Fascetti)
Marco Vozza, Il nuovo infinito di Nietzsche – La futura obiettività tra arte e scienza (Enea Bianchi)
Marco Maria Gazzano, Kinēma. Il cinema sulle tracce del cinema: dal film alle arti elettroniche, andata e ritorno (Simone Villani)
Schede
Laure, Les Cris de Laure (Aldo Marroni)
Alessandro Delcò, Merleau-Ponty und die Erfahrung der Schöpfung (Ipazia Höhenflug)
Le nozioni di autoinganno e di autofinzione appartengono a campi concettuali differenti. Il primo è un termine della psicologia e della neurologia, il secondo della teoria della letteratura e dell’estetica. Questo numero di “Ágalma” fornisce contributi molto diversi tra loro; essi mostrano come le due prospettive possono intrecciarsi e confondersi l’una con l’altra.
L’autoinganno, traduzione del termine inglese self-deception, è un processo psicologico che induce l’individuo a negare una realtà evidente agli altri senza avere nessuna consapevolezza di questo occultamento. Come scrive Patrizia Pedrini nel suo libro dedicato a questo argomento (L’autoinganno. Che cos’è e come funziona, Bari, Laterza, 2013), esso si configura come un fenomeno che appartiene alla più ampia famiglia dei casi della cosiddetta “irrazionalità motivata”, come l’akrasia (debolezza della volontà) o il wishful thinking (pensiero illusorio che induce il soggetto a credere e a prendere delle decisioni sulla base dei propri desideri, prescindendo dalla realtà). L’autoinganno consiste nella formazione e nel mantenimento di una credenza falsa ignorando completamente l’evidenza contraria. Tale fenomeno è stato oggetto di un serrato dibattito nella filosofia analitica anglosassone, del quale Patrizia Pedrini fornisce un resoconto scrupoloso e dettagliato. Vi sono due teorie opposte: la prima “intenzionalistica”, secondo la quale l’autoinganno si fonda su una intenzione, collocata a un qualche livello di consapevolezza. La seconda “anti-intenzionalistica” ritiene al contrario che spinte di carattere emozionale siano decisive nell’occultare completamente il lavoro epistemico che ci porterebbe a sapere come effettivamente stanno le cose.
Un approccio teorico completamente diverso da quello della filosofia analitica è quello che Sergio Benvenuto ci offre nel saggio qui riprodotto Una sindrome neuropsicologica di autoinganno: la negligenza spaziale unilaterale. Questa è una patologia, riscontrata dopo un danno cerebrale, che si manifesta nell’incapacità di orientare l’attenzione in direzione opposta alla lesione: chi ne è affetto rileva solo una parte del suo campo visivo e “non vede” l’altra parte, quasi sempre la sinistra. Tuttavia non è per nulla consapevole di questa sua menomazione! Benvenuto fornisce una interpretazione filosofico-sociologica di questa sindrome e la inserisce in un contesto più ampio che mostra uno stretto rapporto con la nozione lacaniana di Reale. Si tratta di un tipo assai singolare di autoinganno: in che misura il paziente (e più in generale l’essere umano) è consapevole di non vedere una parte essenziale di se stesso? È questa forse, se mi è concesso un ossimoro, “una conoscenza inconscia”? Attraverso un cammino che passa attraverso la neurologia, Benvenuto si pone lo stesso problema della Pedrini.
La questione dell’autoinganno costituisce il tema del volume dello psicoanalista francese Henry Rey-Flaud, Je ne comprends pas de quoi vous me parlez (Paris, Aubier, 2014), che è focalizzato sulla domanda: perché spesso rifiutiamo di riconoscere la realtà? La sua ricerca mira ad andare oltre i concetti di rimozione (Verdrängung), di diniego (Verleugnung), di denegazione (Verneinung) di Freud e di forclusion di Lacan. Esisterebbero dei conflitti inconsci per la spiegazione dei quali la nozione di cripta, già adoperata da Nicholas Abraham e Maria Torok e da Jacques Derrida, sarebbe la più adeguata. Nel libro di Rey-Flaud avviene un passaggio significativo dalla descrizione di un fenomeno psicologico alla sua esemplificazione letteraria (don Chisciotte e Sancho Panza).
Col saggio di Marco Viscomi sul primo esempio letterario di autofinzione, il romanzo di Luciano, Una storia vera, entriamo nelle pieghe più recondite dell’enigma letterario. Non solo viene demolito il valore della forma letteraria su cui si fonda la cultura greca antica, il mito, ma ci si avventura nel famoso “paradosso del mentitore”, in un orizzonte che è al di là del vero e del falso. Luciano infatti dichiara ad alta voce che mente, che racconta cose che non gli sono capitate, perché a lui non è mai successo niente che valga la pena di essere raccontato! In tal modo ritiene di essere molto più onesto dei suoi predecessori, perché almeno in una cosa è sincero, nel riconoscere la falsità di ciò che scrive. Nasce così con Luciano la differenza tra linguaggio e metalinguaggio. Francamente penso che se non ci si confronta con questo problema, che costituisce il carattere paradossale di ogni discorso su se stessi, si resta prigionieri di una ingenuità patetica oppure si è conniventi con l’ipocrisia collettiva. Qui sta forse il punto discriminante tra scrittori e scriventi (vedi “Ágalma” n. 23).
Il saggio di Paolo Bartoloni su Svevo salda completamente la questione psicologica dell’autoinganno con quella letteraria dell’autofinzione. Il paradosso della scrittura autobiografica si articola in un complicato rapporto tra l’autore e il personaggio. Bartoloni analizza dettagliatamente le contraddittorie pulsioni che agitano il signor Aron Hector Schmitz e mette in evidenza con molta efficacia la ricchezza della sua avventura umana e del suo lavoro letterario, arrivando alla conclusione che l’autobiografia per essere “vera” deve essere bugiarda!
Il saggio di Antonio Romano svolge alcune considerazioni generali sull’autoinganno e l’autofinzione per poi concentrasi su una lettura mediata da molti riferimenti filosofici del romanzo di Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel.
Con i testi di Serge Doubrovsky e di Vincent Colonna si entra nel vivo della questione teorica dell’autofinzione. Doubrovsky, che alla fine degli anni Sessanta pubblicò un libro molto influente di teoria della critica letteraria, Pourquoi la nouvelle critique: critique et objectivité (Paris, Mercure de France; trad. it. Padova, Marsilio 1969) fu il primo ad introdurre nel 1977 questa espressione, a proposito del suo libro Fils (1977), titolo ambiguo che vuol dire insieme “figlio” e “fili”. Nel corso degli ultimi anni la nozione è tornata di attualità. Esistono due siti dedicati a questo tema: http://www.autopacte.org/ (promossa da Philippe Lejeune, l’autore di tanti importanti volumi sul “patto autobiografico” e le scritture dell’io), e http://www.autofiction.org/. In Italia Emanuele Trevi ha pubblicato un bell’articolo “Autofiction”, confessioni di un genere, (“Corriere della Sera”, 12 febbraio 2013) sull’argomento. Il testo di Doubrovsky qui riprodotto è sotto diversi aspetti sorprendente. Se per Maurice Blanchot scrivere è morire, Doubrovsky pensa esattamente il contrario: egli afferma di scrivere, per morire meno e vede nelle Confessioni di Rousseau il punto di riferimento fondamentale della sua esistenza.
Vincent Colonna, autore di una tesi monumentale L’autofiction (essai sur la fictionalisation de soi en littérature, (1989) disponibile in Internet al sito https://tel.archives-ouvertes.fr/tel-00006609/document ripercorre il cammino che lo ha condotto ad occuparsi di questo tema, chiarendo la differenza tra patto autobiografico (che implica una dichiarazione di veridicità e la confusione tra l’autore e il personaggio) e il patto autoriale(che comporta l’attestazione del carattere fittizio di ciò che è scritto e l’assenza del romanziere nella storia). Nel libro Autofiction & autres mythomanies littéraires (2004), distingue quattro tipi di autofinzioni: biografica (uno sviluppo del romanzo personale), fantastica (che immagina situazioni impossibili), speculare (in cui lo scrittore si pone in posizione marginale) e intrusiva (nella quale il narratore commenta il proprio racconto). A ciò si aggiungono due altri fattori molto importanti: l’ingresso dall’antropologia (il “viaggio sciamanico”) e le finzioni audio-visuali.
Il saggio di Cristina Formenti, autrice del libro Il mockumentary: La fiction si maschera da documentario (2013) tratta del fenomeno dell’hoax(bufala, burla). Il tema implica perciò una forte affermazione della differenza tra vero e falso, che sembra erede della tradizione neo-realistica del cinema italiano.
La nozione psicologica di autoinganno e quella letteraria di autofinzione si saldano nel saggio di Fabrizio Scrivano, che partendo dall’analisi della moda del selfie, vale a dire l’autoritratto fotografico realizzato per essere condiviso attraverso i social network, si interroga sul significato di tale pratica, la quale rivela una insicurezza ontologica riguardo la propria identità e addirittura la propria stessa esistenza. Successivamente affronta il problema della “cura di sé” e dell’ “amor proprio”, facendo riferimento agli scritti di Witold Gombrowicz, di Michel Foucault e di Giacomo Leopardi. Il selfie sarebbe dunque la distorsione patologica dell’”amor proprio” (ciò che Bernard Mandeville chiamava pride), che non deve essere confuso con l’egoismo, ma costituisce un aspetto essenziale della fiducia in se stessi: chi infatti è indifferente a se stesso, nutre lo stesso atteggiamento anche verso gli altri. Si può aggiungere che le radici dell’attuale patologia erano già state colte nel 1925 dal poeta inglese Thomas Stearns Eliot nel poema The hollow men (Gli uomini vuoti), che inizia con i versi: “ We are the hollow men / we are the stuffed men / leaning together / Headpiece filled with straw” (“Siamo gli uomini vuoti / siamo gli uomini impagliat i/ che appoggiano l’un l’altro / la testa piena di paglia”). La conclusione di questo testo anticipa profeticamente lo stato d’animo attuale della società italiana: “This is the way the world ends / This the way the word ends / This the way ends / Not with a bang but a whimper” (È questo il modo in cui finisce il mondo/ È questo il modo in cui finisce il mondo/ È questo il modo in cui finisce il mondo / non con un’esplosione ma con un lamento”).
Infine, last but not least, Miki Okubo destabilizza tutta la problematica occidentale dell’autoinganno e della finzione autobiografica, mostrando che la scrittura veloce, corta e frammentata dei social networks in generale (e di Twitter in particolare) implica non l’affermazione del soggetto, ma il suo dissolvimento in un flusso impersonale di appunti, di resoconti, di note, di brevi considerazioni che vengono rapidamente dimenticati dai loro stessi autori e vagano nella World Wide Web senza un destinatario preciso. Questo fenomeno è in stretta consonanza con la cultura giapponese, in cui la nozione stessa dell’io è molto debole. Infatti esso ha un precedente sia nei diari femminili di mille anni fa, sia nell’esercizio scolastico tuttora praticato del “diario incrociato” compilato alternativamente da più allievi.
Concludendo si può ben dire io non so chi sono io sia perché la scrittura soggettiva solleva questioni troppo complicate e porta ad esiti paradossali, sia perché il soggetto stesso non ha nessuna importanza! Tuttavia resta aperta la questione fondamentale: il confronto tra l’opinione che io ho di me stesso e quella che ne hanno gli altri, nonché il continuo feedback tra questi due termini. Ma questo è un problema strategico da risolvere caso per caso, tenendo conto di una molteplicità di fattori della più varia natura.
C’era una giostra che si chiamava Labirinto; era formata da vetri e specchi. Risultava molto facile perdersi, confondersi, ma l’importante era non smarrire mai il senso dell’identità e, alla fine del percorso, ritrovarsi.
Quando la frequentavo, da bambina, non avevo ancora letto i romanzi di Italo Calvino e, probabilmente il suo nome non mi era così familiare, al più mi sarà capitata tra le mani la sua raccolta delle Fiabe italiane, ma il mio percorso era forse inconsapevolmente lo stesso una “sfida al labirinto”, la ricerca di una via d’uscita, benché gli specchi avessero da sempre un grande potere seduttivo e poteva essere pure piacevole indugiare all’interno rapiti dalla malia del luogo. Non tanto tuttavia da individuare soluzioni alla Borges o grovigli alla Gadda, ma anche di costoro non mi erano pervenute notizie certe, mentre forse i nomi di Butor, Queneau o di Robbe-Grillet, che insieme agli altri probabilmente avevo captato ascoltando i discorsi dei grandi, mi erano rimasti più infissi nella mente per il suono armonico che la lingua francese sa conferire alle parole. Fatto sta che la “resa al labirinto” non è mai avvenuta e riuscivo sempre a “riveder le stelle”.
La letteratura è ritenuta il luogo privilegiato della fiction, ma anche nel percorso apparentemente più romanzesco si è sempre se stessi; già nei primi componimenti letterari a cui si collega il termine roman era sovente implicito il carattere fantastico, la narrazione di episodi immaginari; pur tuttavia raccontare è, nel migliore dei casi, sempre raccontarsi, anche quando si parla di altro, si parla di sé; anche l’auto-fiction quel genere che mescola autobiografia e finzioni su piani narrativi diversi, è in definitiva un volersi nascondere e svelare contemporaneamente.
E questo avviene sia quando si imposta una narrazione diegetica, cosa apparentemente propria dell’io narrante, sia quando ci si esprime con l’espediente mimetico, quando cioè i personaggi sono vivi e tangibili e parlano per proprio conto. Non dobbiamo credere che solo il monologo interiore, il flusso di coscienza, sia “autobiografico”. In ogni caso c’è sempre dietro lo scrittore quando gli eventi lo hanno, per così dire, trapassato. Allora soltanto significante e significato si sovrappongono, forma e contenuto diventano una cosa sola. Così ci si può nascondere dietro un costrutto ipotattico o manifestarsi con una struttura paratattica, ma l’approccio è uno solo e sempre lo stesso: lo scrittore è nudo.
Autoinganno, in quel’“auto” c’è tutta la turpitudine della cosa. Mentire, ingannare è colpa, farlo a se stessi lo è al quadrato, perché è semplicemente deleterio, distruttivo. Tutto questo può essere mitigato dal supporto dell’illusione, una formula più mite, più anodina, bel concetto anche, inventato per coprire la realtà.
Ma c’è un’illusione che si salva, anzi è una nobile proposta: alludo a quella che ci fa Ugo Foscolo in apertura dei Sepolcri, quella per cui vale la pena di vivere:… l’amore… la poesia eternatrice:
… né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore…
(Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv.10-11)
Però abbiamo poi anche un altro aspetto edulcorato che aiuta nella comune esistenza quotidiana. Se si veste un abito, un bell’abito, l’involucro ci avvolge fino a diventare parte di noi stessi: se ci raccontiamo qualcosa come se fosse vera, essa alla fine, finisce per essere tale, per avverarsi. L’abito è anche abito mentale. E’ una finzione questa che diventa realtà, è una seconda pelle, una promessa fatta a se stessi.
C’è da dire che le promesse a volte non si mantengono:
… là su infiniti prieghi e voti stanno…
vani desideri che non han mai loco…
(Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXXIV, 74-75).
Autoinganno non è però illudersi è convincersi:
Nulla è più facile che illudersi perché l’uomo crede vero ciò che desidera (Demostene, Olintiche).
Ma non sempre è così facile. Ritorniamo sui nostri passi. Ci può essere anche il vuoto dietro a tutto questo:
Pare un assurdo, eppure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale, né altro di sostanza al mondo che le illusioni (Giacomo Leopardi, Zibaldone).
Tuttavia è sempre meglio avere i vetri colorati “che fanno vedere la vita in bellezza” (Charles Baudelaire, Il cattivo vetraio, da Lo Spleen di Parigi), ognuno poi crede quello che più gli aggrada.
Infatti: “Ibis redibis non morieris in bello” (Alberico, Chronicon), è l’ambiguità dell’oracolo.
Non per nulla : “Obsequium amicos, veritas odium parit” (l’adulazione procura amici, la verità nemici) (Terenzio, Andria, 68). Questo precetto sarà valido ancor più con se stessi se è vero per gli altri.
Ma Agostino ci ricorda anche che: “Infidum hominem malo suo esse cordatum” (l’uomo che non si illude è assennato a suo danno) (Agostino, De vita beata, 26).
Ma un inganno è solo autoinganno:
Un uomo non può essere ingannato che da se stesso (It is impossible for a man to be cheated by anyone but himself) (R.W. Emerson, Essays).
Anche Don Chisciotte era convinto di vedere giganti al posto di mulini a vento. Basta crederci.
Leopardi poi rifacendosi al Galilei dei Massimi sistemi nel Dialogo della Natura e di un Islandese, pensa che la battaglia contro le illusioni umane sia generata solo dalla paura della morte, perché l’avversione per il cambiamento nasconde timori, mentre il mantenimento dà certezze rassicuranti.
La finzione dell’immaginazione induce a uscire dagli orizzonti ristretti: “…io nel pensier mi fingo…” (Giacomo Leopardi, Canti, l’Infinito, v.7).
Ma troppa fantasia può portare alla pazzia: Torquato Tasso finse di essere un messaggero che annunciava la propria morte per mettere alla prova l’amore della sorella. Ma sempre lui ci dice che:
… il vero, condito in molli versi
i più schivi alletando ha persuaso.
Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannati intanto ei beve
e da l’inganno suo vita riceve (Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, 3).
Infine, bisogna vivere, insegnare, ascoltare, viaggiare… come se fosse una cosa seria e alle cose serie si crede proprio perché tali e quindi l’autoinganno e l’illusione servono a dare un senso all’esistenza?
Pirandello sostiene che l’umorismo svela la tendenza dell’arte a scoprire proprio il sentimento del contrario; non solo, ma anche i valori e le ideologie sarebbero mistificatori in quanto imposture fatte a se stessi unicamente per sopravvivere. Alla fine Mattia Pascal si rende conto che l’illusione di Adriano Meis, quella cioè di potersi creare un’altra identità e vivere fuori dai condizionamenti imposti dalla società, in realtà non regge alla prova dei fatti. Così ci si smarrisce nel labirinto dell’io; rimane solo la maschera. Ma anche la risorsa del lanternino, quella luce interiore che dovrebbe dare delle certezze, in effetti non approda a nessuna chiarezza. La verità oggettiva, quella a cui fare riferimento, non esiste. Ancora una volta l’uomo si inganna. Contrasto tra forma e vita, tutto è relativo. E l’umorismo ci porta a conoscere e a svelare certe comode menzogne dietro cui celarsi per poter vivere. Così Pirandello.
Forse è lo stesso carattere caduco e precario che Svevo coglie nel pensiero di Schopenhauer per ciò che concerne ciò che l’uomo desidera, quegli “autoinganni” appunto, quelli che troviamo infatti nei protagonisti dei suoi romanzi; tutte cose rassicuranti per chi appunto è inetto a vivere. Ma l’autore impietoso scava nei poveri personaggi e ci svela quegli alibi illusori che consentono loro di vivere…, però infine appunto poi, di morire.
Ma qualcosa si salverà dunque? Sarà la poesia, l’arte, l’amore, l’immortalità…?
A ognuno di noi trovare la chiave giusta e dare la ‘propria’ risposta.