Articoli
Mario Perniola, Complimentary. Ancient and new forms of hospitality
Jorge Forbes, L’uomo cordiale e la psicanalisi
Marco Innamorati, L’ombra del fondatore. Rispetto e deferenza verso Freud
Caterina Di Rienzo, La danza e la grazia
Maria Teresa Ricci, Del saper vivere o dei modelli di comportamento. Dalla grazia al ‘cool’
Saggi
Marco Tonelli, Francis Bacon: percorsi narrativi e indiziari tra Godard, Barthes e Beckett
Francesco Valagussa, Terra Piramide Sfera. Da Boullée a Loos. Discussione
Mario Perniola, Hammerstein o della nobiltà. Note e rassegne
Luca Orlandini, Benjamin Fondane e la filosofia dell’assurdo
Recensioni
Massimo Raveri, Il pensiero giapponese classico (Mario Perniola)
Roberto Giambrone, Follia e disciplina. Lo spettacolo dell’isteria con una appendice su Alain Platel e Jan Fabre (Marika Pensa)
Paolo Bartoloni, Sapere di scrivere. Svevo e gli ordigni di “La coscienza di Zeno” (Giuseppe Stellardi)
Pierre Zaoui, L’arte di scomparire (Ornella Spagnulo)
Wasim Salman, Gadamer e i teologi. Intorno alla teoria della storia degli effetti (Wirkungsgechichte) (Mario Perniola)
Schede
Antonio Romano, Seduzione dell’opera aperta (Pietro Isavros)
Giuseppe Pulina, L’angelo di Husserl. Introduzione a Edith Stein (Paolo Lisca)
Marina Argenziano, Tè, amore e rivoluzione. Majakovskij e Lili Brik (Umberto Petrongari)
Segnalazioni
Covarrubias, Ferroni, Lapassade, Marroni, Moraes, Quintane, Quintili, Russo
Molti osservano che le relazioni umane hanno subito nel corso degli ultimi decenni un processo di imbarbarimento e di degrado quasi inarrestabile. Tuttavia le denunce e le deplorazioni di tale fenomeno, che si manifestano in modo costante e puntuale tanto nell’opinione pubblica quanto nella teoria critica, non hanno portato ad una inversione di tendenza e sono rimaste per lo più inefficaci, sia quando sono ispirate dal rimpianto di un mondo passato, sia quando sono animate da propositi riformatori e progressisti. Conservatori e rivoluzionari hanno in comune una concezione massimalistica della civiltà e della virtù.
Ágalma, fin dalla sua fondazione nel 2000, si è mossa in un’altra direzione ed ha fatto propria, più o meno consapevolmente, l’analisi del filosofo scozzese Alasdair MacIntyre, secondo il quale il linguaggio della morale sta in uno stato così catastrofico da aver perduto ogni credibilità, tanto che nessuno può arrogarsi il diritto far prediche o di proporre mutamenti sociali radicali (Dopo la virtù, Armando Editore, 2007). La retorica del pessimismo e della disperazione come quella delle “magnifiche sorti e progressive” presuppongono idee opposte della società e della natura umana; ma entrambe possono essere smentite con facilità in qualsiasi momento.
Il programma da cui è nata nel 2000 Ágalma si è mosso in una direzione opposta al massimalismo etico-politico. L’editoriale del numero 3 – che s’ intitola non a caso Cultura moderata o moderazione della cultura? – prendeva le distanze nei confronti di tutto ciò che pretende di parlare in nome di una “purezza” dottrinale e pratica, il cui background è nel migliore dei casi di carattere escatologico; molto spesso infatti l’indignazione è solo una manifestazione d’impotenza o addirittura di cattivi sentimenti. Si scriveva allora: “L’alternativa alla violenza appare dunque risiedere nella cultura, a cui appartiene da sempre una specie di essenziale mode- razione, la quale non può essere scambiata per timidezza, per timore e tantomeno per debolezza o per cedimento”.
Il presente numero ha per argomento forme di comportamento sociale, quali la cortesia, la cordialità e la deferenza le cui origini affondano rispettivamente nella vita di corte, nel mondo rurale, nelle società tradizionali: esse rivelano da un lato il debito che questa rivista ha nei confronti degli studi del sociologo tedesco Norbert Elias, dall’altro spiegano l’attenzione che essa ha dedicato a due paesi, il Brasile (n.6) e il Giappone (n.10) nei quali queste nozioni hanno svolto un ruolo fondamentale. Né si può omettere un riferimento all’Italia che nella cultura occidentale è stata la madre delle “buone maniere” e del galateo. Il numero 18 ha mostrato quanto ancora l’estetica italiana della fine del Novecento abbia sviluppato modi di sentire profondamente radicati nel nostro passato.
Tuttavia “il ne faut pas être dupe de soi-même!”. Il numero dedicato agli autoinganni e alle autofinzioni (n.29), unitamente all’”esercizio del sospetto”, che ci è stato insegnato da Marx, Nietzsche e Freud, ci ha resi consapevoli di che cosa può nascondersi dietro i “buoni costumi”. Il messaggio trasmesso dal testo di Georg Simmel riprodotto nel n. 25, non sarà certo sfuggito ai nostri redattori e lettori!
Ed è proprio a Simmel che bisogna rivolgersi se si vuole approfondire i temi che sono oggetto di questo numero, perché tra i fondatori della sociologia egli è stato quello che, a differenza di Tönnies, Durkheim e di Max Weber, ha studiato le forme minime della socialità. Tra queste la più piccola è la socievolezza (Geselligkeit), la quale è, per così dire, una forma senza contenuti, perché ancora priva di interessi e di scopi di qualsiasi tipo essi siano: essa è prossima al gioco e all’arte. Si risolve nel semplice piacere di stare insieme. “La socievolezza – dice Simmel nel saggio omonimo (in Forme e giochi della società, Feltrinelli, 1983) – è un gioco in cui ci si comporta come se tutti fossero eguali e meritassero una considerazione particolare”.
Non è una chiacchierata, ma semmai un intrattenimento. Essa richiede solo due condizioni: la reciprocità e non lasciare scontento il partner. Essa implica tuttavia una certa spersonalizzazione, una desoggettivazione, una rinuncia alle pretese dell’io. Dal momento in cui questo riaffiora si entra in altri tipi di rapporti.
La socievolezza è il punto di partenza di un minimalismo etico-politico che si contrappone a tutte le forme di massimalismo che ritroviamo nelle parole che cominciano con “com”: comunità, comunicazione, comunismo, comunione, comunanza, comitato, comunalismo. Essa non chiede nulla, non si aspetta nulla, ma anche non dà nulla e non offre nulla. Si esaurisce nel momento in cui avviene. Niente che fare con la solidarietà, la fraternità, la carità e nemmeno con l’amicizia, l’affetto e la simpatia. Potrebbe essere considerata come la forma più debole del legame sociale.
Partiamo da una premessa o meglio da una domanda, su cosa sia la cortesia, se essa sia una una virtù, innata o acquisita, oppure uno stato d’animo, qualcosa che nulla ha a che fare con la cultura, con l’apprendimento, ma sia insita o meno, nell’indole, nella struttura, nella fisiologia.
In ogni modo essa non rientra tra le vitutes cardinales, stabilite da Platone nella Repubblica (sapienza, coraggio, temperanza, giustizia), benché potremmo stabilire delle affinità; né in quelle teologali (fede, speranza, carità) che in parte già gli Stoici avevano anticipato, ma pure in questo caso, non sarebbe improprio vedere qualche legame.
Certo anche se prendiamo in considerazione la dote innata, ci sono i fattori esterni che contribuiscono a far sì che la natura diventi o sia diventata quello che è. È abbastanza ovvio affermare che la famiglia, la scuola, la società strutturano la psiche; ma può essa rendersi indipendente da questo bagaglio e farci divenire costituzionalmante se non indipendenti, almeno forniti di un minimo di autonomia da tali presupposti?
È pur vero che molte volte la forma non corrisponde all’idea iniziale dell’artista perché la materia non è in grado di seguirne la volontà
Vero è che, come forma non s’accorda molte fiate a l’intenzion de l’arte, perch’a risponder la materia è sorda, così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’a podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, canto I, vv.127-132)
pur tuttavia raramente la materia è sorda in questo caso, ma non si può mai dire.
Ho parlato subito di cortesia perché la cordialità e la deferenza sue sorelle, sono una stretta, logica conseguenza, non credo che possa esistere l’una o l’altra, prescindendo da quel contorno.
Le circostanze della vita possono migliorare o peggiorare un comportamento, ma Alberigo degli Alberighi non era certo venuto meno ai suoi valori a causa delle
misere condizioni economiche in cui le circostanze lo avevano portato proprio a motivo della sua estrema prodigalità, fino alla rinuncia totale dei presupposti materiali della propria stessa sussistenza fisica.
Che le cortesie siano strettamente legate alla deferenza lo apprendiamo da chi ha fatto di tali premesse la base della sua ispirazione letteraria oltre che del suo modus vivendi. Ariosto non si limita a cantare “le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, le audaci imprese…”, ma dedica con umile rispetto al cardinale Ippolito d’Este e a tutta la casata la sua opera, facendo di paladini e guerieri, eroi e donzelle solo un mezzo per celebrare la Erculea prole
Piacciavi, generosa Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro. Quel ch’io vi debbo, posso di parole pagare in parte e d’opera d’inchiostro; né che poco io vi dia da imputar sono, che quanto io posso dar, tutto vi dono. (Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, 3)
Che poi quella stessa gli andasse un po’ stretta è tutt’altro discorso, l’importante era celebrare “de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio”.
La vita di corte infatti aveva anche i suoi risvolti negativi, quelli che inducono Rigoletto ad esclamare: “Cortigiani vil razza dannata…”(Giuseppe Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma di Victor Hugo Le roi s’amuse, Rigoletto, Atto II, Scena IV).
È pur vero che Oscar Wilde sostiene che: “Non costa molto essere cortesi con quelle persone di cui non ci importa un bel niente”, ma siamo in tutt’altro contesto e in epoca vittoriana era forse comprensibile qualche insofferenza del genere.
Dobbiamo per forza tornare indietro e rifugiarci nelle corti medievali per assestarci sul nostro terreno, oppure a qualche tempo dopo, quando quell’influsso era ancora forte, epoca in cui le donne accoglievano con gentilezza anche le ballatette foriere di sospiri e doglia
Perch’i’ no spero di tornar giammai, ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’ a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.
Tu porterai novelle di sospiri pien’e di doglie e di molta paura; ma guarda che persona non ti miri che sia nemica di gentil natura; che certo per la mia disaventura tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia,
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.
(Guido Cavalcanti, Perch’io no spero di tornar giammai, vv.1-17)
Ma in ogni tempo è pur sempre valido quello che ci insegna Giovanni Della Casa nel suo Galateo, il quale di queste cose se ne intendeva: “Chi sa carezzar le persone, con picciolo capitale fa grosso guadagno”, anche se non è bello parlar di guadagno.
Sempre lui ci ammonisce a non lesinare in tali frangenti: “Tu farai delle cirimonie, come fa il sarto de’ panni; che piuttosto gli taglia avvantaggiati che scarsi”, quando la moda, evidentemente preferiva gli abiti comodi, cosa che tra l’altro stava a dimostrare la disponibilità economica, il prestigio, la sontuosità e il lusso di chi li indossava.
Ci chiediamo: la cortesia è dunque un valore? Certo se valutiamo che essa sia ciò che oltrepassa la contingenza dell’utilità, dell’immediatezza per assurgere all’assoluto, fermo restando quanto afferma Nietzsche che ogni civiltà ha una sua ‘tavola dei valori’.
Baltasar Gracián altro grande esperto del modus vivendi nel suo Oraculo manual y arte de prudencia ci fornisce degli importanti insegnamenti e delle utili riflessioni. Egli ci parla ad esempio della ‘gentilezza d’indole’:
Anche le anime posseggono una loro splendidezza, quasi una gagliardia dello spirito; e le sue azioni gentili bastano a dar lustro a un cuore. È una dote non accessibile a tutti perché presuppone la magnanimità. (op. cit. 31)
Certo ci insegna anche che: “è una gran fortuna ottenere insieme l’affetto e la stima”, perché il solo amore potrebbe degenerare in confidenza e questo può allontanare la deferenza. Ci consiglia peraltro che è bene “acquistarsi fama d’uomo cortese” perché
Basta questa a procurare il plauso. La cortesia è l’elemento principale della cultura, e quasi una sorta di incantamento che concilia il favore di tutti; e allo stesso modo la scortesia procura il disprezzo e lo sdegno universale. Se questa nasce dalla superbia è abbominevole, se dalla rozzezza, è spregevole. La cortesia sia sempre in eccesso e mai in difetto; ma nemmeno ha da essere uguale con tutti, perché degenererebbe in ingiustizia: è indispensabil tra nemici, e questo basta a dirne il valore. Costa poco e val molto; chi onora sarà onorato. La galanteria e l’onore hanno questo vantaggio, che rimangono: quella, in chi la usa, e questi in chi lo rende ad altri. (ibidem, 118)
Nello stesso tempo però avverte di “non accontentarsi della molta cortesia”:
perché serve a mascherare l’inganno. Alcuni per intricar la gente, non hanno bisogno di ricorrere alle erbe della Tessaglia; perché con il semplice vento suscitato da una bella scappellata riescono a incantar gli sciocchi, o meglio i vanitosi. Mettono a prezzo la loro considerazione, e pagano con il vento di qualche buona parola. Chi promette tutto, è come se non promettesse nulla; e il promettere è una trappola per gli sciocchi. La vera cortesia è debito; quella affettata e soprattutto quella disusata son soltanto inganno: non è più segno di omaggio, ma riconoscimento di dipendenza. Costoro non riveriscono la persona, ma la fortuna e l’alta carica; non ossequiano le qualità che riconoscon negli altri, ma l’utilità che sperano di cavarne. (ibidem, 191)
Ma risaliamo infine alla fonte di ogni discorso successivo: l’Amor cortese. Sappiamo che, secondo i trovatori provenzali e i teorici del XII secolo, l’amore o è cortese o non è. Questo stava a significare che non era certo entro il vincolo matrimoniale che tale sentimento poteva avere spazio. Il matrimonio era quanto di più lontano dai moti del cuore si potesse immaginare; ragioni utilitaristiche, di ordine economico o altro, erano alla base delle decisioni in merito alla scelta di entrare in quella istituzione. Di conseguenza le vicende amorose si collocavano per forza al di fuori degli interessi o delle costrizioni imposte dall’esterno. È proprio nelle corti feudali che tale assioma trova la sua affermazione. Del resto lo stesso termine ‘corteggiamento’ nasce per l’appunto in quell’ambito in cui erano i poeti divenuti amanti che, servendosi proprio di quelle ‘virtù’ speciali proprie del mondo feudale cortese, celebravano le ‘signore’ sovrane amate. Come i vassalli facevano nei riguardi del loro sovrano, erano l’omaggio, la lealtà, la fedeltà, il servigio, la dedizione, le imprescindibili doti che venivano offerte in dono alla dama da celebrare.
Di qui in avanti ancora tante circostanze storico-letterarie dovranno verificarsi, con passaggi e sfumature diverse, ma infine passando dalla Sicilia, arriveremo infine in Toscana, dove saranno i cantori del Dolce Stil Novo a dare nuovo impulso a quei presupposti che condurranno Dante a immortalare Beatrice con quegli aggettivi che le sono rimasti per sempre impressi come impronta indelebile, ritratto di una donna e di un’epoca: “Tanto gentile e tanto onesta pare…”.
Se però vogliamo risalire al mito che è la fonte di ogni comportamento, non possiamo dimenticarci di Filemone e Bauci, il prototipo di tutte le virtù. Quando Zeus ed Ermete, come ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi, stabilirono di visitare gli umani per capire se, tra costoro, ci fosse qualcuno degno di essere salvato dalle acque del diluvio e si recarono sulla terra sotto mentite spoglie per non essere riconosciuti, chiedendo ospitalità alle genti, venne ovunque negata loro ogni accoglienza. Soltanto in Frigia riuscirono finalmente a trovarla presso quella coppia di poverissimi contadini che, sotto il loro misero tetto di paglia, allestirono per i due stranieri un pasto frugale, ma preparato con cura e soprattutto servito con gentilezza; essi giunsero perfino alla proposta, poi rifiutata dagli dei cui bastarono le prove ricevute, di voler sacrificare l’unica oca in loro possesso e, presumibilmente, sola fonte di sussistenza. La loro dimora venne risparmiata, anzi essa fu trasformata in un tempio maestoso. Come ulteriore ricompensa alla loro generosità, si chiese loro quale fosse un desiderio che le divinità potessero esaudire. Oltre alla espressa volontà della coppia di essere i custodi, sacerdote e sacerdotessa del luogo sacro, espressero la pressante necessità di poter morire insieme, perché il coniuge sopravvissuto non avesse a soffrire per la perdita dell’altro. Zeus, dopo la loro morte, suggellò quella unione per l’eternità, trasformandoli in una quecia e in un tiglio, i cui singoli fusti fossero uniti in un solo tronco. Chi passava davanti a quell’albero unico al mondo, percependo la sacralità del locus, appendeva ghirlande di fiori a quelle fronde per celebrare e ricordare la loro pietas.
Sembra un mondo lontano? Non direi, o almeno non nella sostanza, anche se forse non ce ne accorgiamo e non ne abbiamo più percezione, tanto che siamo costretti a concludere, parafrasando il Poeta: cortesia ‘vo cercando’ e alla fine la si trova… finché qualcuno appenderà serti di fiori o si recherà a ‘libar latte’, presso quell’arboreo monumento di memorie. E infine infatti, lo spirito ‘cortese’ e ‘nobile’ è sempre uguale in ogni tempo e sotto qualsiasi cielo.