Se mai potesse esser scritta una storia esaustiva del sentimento etico – tanto paziente e minuziosa da non trascurare nulla, quindi in quanto tale destinata a non vedere mai la luce – essa lascerebbe cogliere, al suo fondo, una intermittente ma costante, ostinata aspirazione al semplice. Composizione, messa in forma del caotico-casuale del quotidiano. Simmetrica alla ricerca, sul piano ontologico, dell’archè: il semplice punto sorgivo della differenza. Che in quanto tale, non può essere pensato come composto. In entrambi i piani, risuona potente il richiamo della figura archetipica dell’Origine, com’è noto sottoposta, nel solco nietzscheano, ad una critica meticolosa e ironica, da roditori, da buona parte della filosofia del Novecento. Più in generale, da un lato, il semplice è il frutto di un’ascesi, di una riduzione. Dall’altro, esso è (si vuole) un immediato. Dunque, in quanto esito finale di un’ascesi, impossibile. Si tratta di un’antinomia che si scioglie soltanto nel ‘miracoloso’ che in alcuni casi, e non solo nella sfera del pensiero religioso, ma ad es. anche in quella estetica, è stato definito grazia. Semplice, ancora, è la bontà dell’Aljoscia dostoevskiano, già da sempre al di là della forma etica, come scrive il giovane Lukács in Della povertà in spirito, e dunque in grado di aprire al “ritorno alla vita vera”.
Su un piano più ampio, se da decenni risuona (a vuoto: nel senso che ha svelato una natura sempre più retorica) l’elogio postmoderno della complessità, le società occidentali devono far fronte agli squilibri strutturali provocati dallo ‘sviluppo’, – al timbro sempre più sinistro dell’imperativo all’incremento illimitato della produzione dei beni di consumo e dei capitali. Una tendenza che provoca, insieme ad uno sfruttamento capillare delle risorse, una spoliazione e devastazione sistematica del pianeta. Sulla ‘sostenibilità’ di questa ‘crescita’ continua, inscritta come destinale nella dynamis capitalistica, è lecito nutrire forti dubbi, come scrive Jappe nel suo articolo. Il disagio del consumatore metropolitano, la sua amarezza, nel quadro sempre più complesso che si è venuto definendo in questi ultimi decenni, nasce dal dover reggere in solitudine il peso di una lotta sorda, ma senza quartiere, su diversi fronti, nello stridore d’una totale Mobilmachung di cui però non intuisce il senso complessivo – di cui non condivide più fiduciosamente gli obiettivi, com’era nel periodo del dopoguerra, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta. E lo splendore della merce non lo risarcisce più adeguatamente. L’aspirazione ad uno stile più semplice di vita, come mostrano alcuni dei saggi di questo numero (Traversa, Van Sevenant), è dunque una sorta di inevitabile, limitato ma essenziale contraccolpo di fronte a questi ‘effetti’. Tra i sintomi prodotti nell’ambito dell’arte del Novecento da questo progressivo disincanto, potremmo citare l’Art brut, la Minimal art o l’Arte povera – ma come mostrano i saggi di Dall’Olio e di Latini, esso è ben visibile anche in architettura e nelle forme letterarie. E tuttavia, è bene ricordare che il senso di questo disagio è divenuto un’evidenza solo per piccole élite intellettuali, che hanno in genere la tendenza ad esagerare la portata della loro azione e il loro peso nella società. Se è vero che si tratta di un disagio diffuso, esso è tuttavia lontano dall’aver riconosciuto, innanzitutto e perlopiù, i propri avversari. Ed infatti, cresce la tendenza ad individuare nuovi capri espiatori, sui quali far convergere inquietudini e risentimenti. Come ha scritto Girard, più la crisi si fa acuta, e si avvicina il rischio di un conflitto generalizzato, più cresce la tendenza a coalizzarsi scaricando su un altro, insieme interno ed esterno alla comunità, e incapace di vendicarsi, l’accusa di essere all’origine del proprio malessere.
Luigi A. Manfreda