Il linguaggio e i corpi. Italian Thought
Roberto Esposito, Il corpo tra politica e tecnica
Fabrizio Scrivano, “Ne uccide più la lingua che la spada”: sprezzatura e disprezzo nel pensiero
(comico) italiano
Enrica Lisciani-Petrini, La vita e le forme. Uno scorcio sul pensiero italiano primonovecentesco, e oltre
Guido Traversa, Luigi Scaravelli: l’indole della filosofia
Giusi Strummiello, Tra biologizzazione dell’esistenza e storicizzazione della vita
Felice Cimatti, Linguaggio e natura nell’Italian Thought. Il dibattito sulla “soglia semiotica”
fra Umberto Eco e Giorgio Prodi
Roberto De Gaetano, Pasolini, stilistica ed ontologia
Silvano Facioni, Effetti di filosofia. Eredità francesi e percorsi italiani
Saggi
Mirko Di Bernardo, Percezione visiva, neuroestetica e sistemi autopoietici
Mario Perniola’s Studies
Paolo Bartoloni, Transit and the Cumulative Image: Perniola and Art
Note e Rassegne
Caterina Di Rienzo, Prima della danza. Materiali attuali e progetti futuri di una riflessione su Michele Di Stefano
Recensioni
Emanuele Pellegrini, Storico dell’arte e uomo politico. Profilo biografico di Carlo Ludovico Ragghianti
(Luca Petrassi)
Viva Paci et Stéfany Boisvert (sous la direction de), Une Télévision allumée (Ivelise Perniola)
Milosh Fascetti, La fine della musica (Federico Rampinini)
Schede
Francesco Iengo, Aldo Marroni (a cura di), Verso un’arte desacralizzata
(Gioele P. Cima)
Il linguaggio vive, si nutre della tensione che lo orienta verso i propri limiti. Questo per molte ragioni, come è stato intuito da Hegel a Wittgenstein a Heidegger, che pure si possono ricondurre ad una che le comprende come una sorta di orizzonte unitario: l’impossibilità di spiegare interamente, sino in fondo, ciò che si intende esprimere. C’è un nucleo oscuro, in ciò che chiamiamo ‘esperienza’, che resiste alla sua piena, compiuta manifestazione – e questo vale sia per la parola che per il dipinto, o per la sonata per pianoforte, anche se nella prima questo limite si avverte con maggior forza. A partire da esso si comprende il ‘corpo a corpo’ con le diverse forme espressive per riuscire a dire l’irriducibile ad altro di questo individuale – lotta estenuante di cui il Gesamtkunstwerk wagneriano rappresenta una sorta di archetipo. È una tensione a ‘dire di più’, ad estendere il proprio raggio, in cui il linguaggio misura di volta in volta i propri limiti, ritracciandoli sempre di nuovo.
Ora, se questo orizzonte complessivo è da pensare a sua volta come un limite, costituito appunto dall’impotenza a dire-tutto (certo non colta innanzitutto e perlopiù nel discorrere quotidiano), esso rinvia presto a quell’altro, che si genera nell’impossibilità di avere-produrre theoria della propria origine. Si urta nel punto cieco dell’origine, per così dire, sia da un punto di vista storico-genetico, che da quello che potremmo definire bio-logico. Per un verso, si tratta di un originario che nessun risalire all’indietro, nessuna interiore rammemorazione può ‘figurare’, ri-evocare. Pensiamo ad es. alle aporie in cui si avvolge un testo come l’Essai sur l’origine des langues di Rousseau – proprio quel Rousseau “fondateur des sciences de l’homme” (Lévi-Strauss). La rappresentazione delle origini si fonda sul tipo-ideale dell’uomo-di-natura, di cui si afferma, nel secondo Discorso, la costituzione ipotetica, inevitabilmente artificiale: costruita, cioè, proprio con elementi tratti dal repertorio di quello spirito riflessivo, di quei lumi dalla luce fredda, innaturale, che ci allontanano irreversibilmente da quell’immediato. È lo stesso Rousseau, d’altronde, a riconoscere, in più punti, l’impossibilità di ripercorrere a ritroso la via dell’alienazione che il linguaggio ha tracciato per la civiltà.
Per l’altro: sorgente del linguaggio, come si ricorda a proposito in più punti di questo numero di Ágalma, è il corpo. Ma lo spessore, la densità, l’opacità del materiale è limite per il logos. Con cui certo, proprio in quanto riflette su di sé, deve sempre di nuovo misurarsi. Ma come irriducibilmente altro – come oscurità mai sino in fondo penetrabile.
Dovremmo chiederci quale nesso tiene insieme il limite complessivo costituito dal non-dicibile e l’altro dal doppio volto, storico-genetico e bio-logico, che sta nel non poter afferrarsi dalle proprie radici, per così dire, nell’oscurità invincibile della propria origine, del linguaggio – o, se si vuole, nel non poter esser fondamento a se stesso. Certo non aiutano ad avvicinarsi a una giusta posizione nel problema, anzi risultano piuttosto fuorvianti, quei tentativi frettolosi di soluzione attraverso immagini del corpo che, se pure condividono l’idea del suo essere in un qualche modo al di qua del linguaggio, ne forniscono una valutazione opposta: quelle che la valutano in positivo, figurando un corpo-natura prossimo all’immediato animale, che libera, in uno con la musicale sorgente del sentire, dall’alienazione linguistica (ma, tanto per restare a Rousseau, in una sfera ou-topica perché già perduta e che forse si può ritrovare-intuire solo nell’azzardo della solitudine, nell’individuale del sentimento); o quelle che la declinano in negativo, come corpo preda dell’aorgico della pulsione, potenzialmente distruttiva, in cui va a fondo l’ordine del simbolico, da cui occorre proteggersi – e proteggere la stessa Kultur – attraverso efficaci sistemi disciplinari.
Il legame che vincola il linguaggio, nello stesso tempo, ai suoi limiti e alla sua origine oscura, mai sino in fondo penetrabile, se richiede d’essere indagato nella sua natura sfuggente, proteiforme, pure sembra riflettersi nella dinamica interna che muove il pensiero nell’elaborazione del suo altro, e in quella che vede lo storico esposto alle pressioni del caotico-naturale, di ciò che sporge rispetto all’ordine lineare esibito nella sua trama. Come se una struttura si offrisse allo sguardo, più volte, per via analogica. Già sin dalla Storia della follia, del 1961, Foucault ha scritto pagine importanti su questi temi, che hanno poi come tratto comune la messa in evidenza della debolezza delle pretese di autonomia, di auto-fondazione da parte del logos e dei suoi procedimenti discorsivi. Mettendo a frutto la lezione nietzscheana interna al metodo genealogico, Foucault pensa l’origine come plurale, attraversata dal conflitto, da sempre sottratta all’identificazione con il fondamento sovrastorico, – interna anzi al divenire-storico, in cui riemerge come irruzione sconcertante dell’imprevedibile. È il grande disegno di includere nel discorso ciò che sta oltre i suoi margini – in primo luogo, ancora nel solco nietzscheano, gli effetti delle dinamiche del potere, dei rapporti di forza che di volta in volta vengono a istituirsi, e quelli del corpo, dell’oscura densità del vitale. Fino allo sguardo impenetrabile, spettrale del Grylle nei dipinti di Bosch, visione ‘tragica’ della follia, dell’insensato del mondo, in cui si varca in una discesa vertiginosa e piena di sorprese la soglia dell’umano nell’animale.
Il pensiero italiano, che pure per lungo tempo ha vissuto in una zona d’ombra, ai margini della filosofia europea, già da tempo si era mosso su questa linea. Anticipandone anzi le tendenze, come insieme ad altri ha messo opportunamente in evidenza, in questi ultimi anni, Roberto Esposito. Non solo: una volta individuato ciò che accomuna autori tanto diversi e lontani nel tempo, si è intuito che proprio dal pensiero italiano, che non a caso più volte ha trovato voce fuori dell’ambito della filosofia ‘professionale’, proprio perché confitto in un reale dinamico, inquieto, meno messo in forma in stabili strutture istituzionali, poteva giungere un contributo importante alla evoluzione della riflessione etico-politica e speculativa contemporanea. A partire dall’idea di soggetto: da Machiavelli a Vico a Leopardi, sino alle figure più recenti, esso non è mai stato pensato nello spazio neutro di un’apriori che avrebbe dovuto legittimarne le pretese conoscitive, il suo sguardo puro sul mondo. Piuttosto, come un piccolo nodo, un punto di incrocio momentaneo fra le linee oblique tracciate dalle impetuose correnti della storia: segreti moventi che affiorano e si affermano in sorde lotte, vorticose rivalità, passioni che lacerano il tessuto della polis, grandi potenze dell’economico. È l’eterogeneo, il conflittuale dell’esperienza, a cui la filosofia ha guardato sempre con un misto di attrazione e diffidenza. Sospettosa, poiché intuiva in essa il terreno scivoloso per eccellenza, sempre pronto a smentire le strutture del categoriale, a confutarle. Ma irresistibilmente attratta, anche, perché la vita nelle sue forme concrete, contingenti è per essa, dai tempi dei Greci, il banco di prova ultimo: hic Rhodus, hic salta.
Luigi A. Manfreda
L’Italia, contrariamente a quanto comunemente si potrebbe pensare, non è un paese facilmente identificabile; si tratta di una realtà che dall’esterno è stimata come nota e addirittura lapalissiana, tuttavia ciò non corrisponde ad una corretta lettura.
Su tale tematica del resto si sono espressi, in diverso modo, Dante, Petrarca, Alfieri, Foscolo, Manzoni, Leopardi, per restare nell’ambito della storia letteraria, rivendicando tra l’altro l’esigenza di unità pur riconoscendo la diversità regionale di un popolo antico, ma di recente unificazione. Sarebbe troppo lungo l’elenco di quanti altri, poeti, scrittori, filosofi, pensatori, scienziati si sono cimentati su questo argomento, fino alla contemporaneità che ha prodotto nuove problematiche legate ai processi della globalizzazione e dell’immigrazione.
Quando si parla di questa presunta fisionomia italiana, si rischia di cadere in errori di valutazione. Da un lato è facile cedere alla semplificazione e indulgere a stereotipi e luoghi comuni non riconducibili a fattori di seria valutazione, ma legati ad un giudizio superficiale e acritico. E’ quanto accade quando si guarda all’aspetto che l’immaginario collettivo estero ci attribuisce, pizza e mandolino, ma anche cultura e arte, per restare su toni positivi, insieme a malavita e quant’altro. Si tratta di banalità scaturite da falsi modelli, dalla pubblicità, da certe mode nate più o meno per caso, nelle quali è difficile riconoscersi. Gli stranieri, di qualunque latitudine, aspirano a visitare il ‘Bel Paese’ come meta ambita di turismo e viaggi, raramente però sono consapevoli della vera natura di quanto credono di sapere. Appare loro un’Italia mainstream, convenzionale e falsata da aspetti ovvi e conformisti, che stentano a ridimensionarsi.
E’ quindi più opportuno soffermarsi sulla complessità come elemento caratterizzante identificativo; senza sconfinare in analisi scientifiche, a cui il termine compete, ma soffermandosi semplicemente ad osservare la varietà, la infinita molteplicità, le diversità insite nel sentire italiano, è facile capire quanto la presunta chiarezza dell’essere sia cosa ben lontana dal potersi riconoscere. Tutto ciò è riscontrabile anche soltanto spostando di poco il proprio punto di osservazione. Si perdono le certezze acquisite ad una sommaria valutazione; del resto anche Giacomo Leopardi tra le tante riflessioni su questo argomento affermava nello Zibaldone: Gli Italiani non hanno costumi; essi hanno delle usanze, e aggiunge anche: Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia, come dire che manca una consuetudine identitaria, ma emergono solo localismi circoscritti ad aree limitate.
Sul carattere degli italiani si è soffermato anche Antonio Gramsci, parlando anche di ‘egemonia culturale’. A tale proposito egli esprimeva l’incapacità di ‘armonizzare la realtà’, evidenziando una certa pigrizia intellettuale:
Uno dei caratteri degli italiani, e forse quello che è più malefico per l’efficienza della vita pubblica del nostro paese, è la mancanza di fantasia drammatica. Sembra una affermazione letterariamente paradossale, e in verità è una affermazione profondamente realistica. Ogni provvedimento è un’anticipazione della realtà, è una previsione implicita. Il provvedimento è tanto più utile quanto più esso aderisce alla realtà. (Antonio Gramsci, Una verità che sembra un paradosso, da Scritti giovanili).
E’ possibile infine, trovare un terzo aspetto peculiare che in qualche modo possiamo ricollegare al precedente: la frammentazione. Quest’ultimo ci impedisce proprio di parlare di immagine dell’Italia come dato di fatto acquisito. Il paese unito nasce tardi, le eredità della fase preunitaria non si sono del tutto dissolte, nonostante le due guerre, la leva obbligatoria, la televisione, internet e i social. Si può parlare di localismi ben radicati che si esprimono in gesti, atti pensieri e vengono in parte riassorbiti temporaneamente in una koinè universale, veicolata dai mass media,- tv, giornali, cinema -, ma riemergono quando meno te l’aspetti per farsi sostanza irrinunciabile. Manca cioè quel comune sentimento che è alla base di un’identità condivisa. Campanilismi radicati sono vissuti come forma di una quidditas alla quale non si vuole o non si può rinunciare, quasi un dato ontologicamente connaturato. Non ha senso parlare di differenze tra persone in quanto tali, tuttavia certi retaggi storici, geografici, climatici, antropologici, culturali, sociali sedimentati nei secoli, hanno portato a forme di municipalismi assurdi, ma reali. Perfino il linguaggio ha alimentato dibattiti interni alla nostra letteratura come l’annosa ‘questione della lingua’ che nel Cinquecento, ma anche prima e poi nei secoli successivi, ha visto contrapporsi posizioni differenti. Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), linguista e glottologo, ha conferito dignità di lingua ai dialetti. E’ sufficiente sfogliare alcune schede dell’Atlante Linguistico Italiano, per rendersi conto di quanto un termine possa variare anche a poca distanza, perché il linguaggio è frutto di sensibilità e inventiva creativa degli individui, tanto che possiamo parlare di sociolinguistica scienza che contempla tutte le diversità connesse a molteplici variabili. Come non soffermarsi brevemente poi sui fenomeni fonetici e fonologici che rendono riconoscibili i parlanti e le loro provenienze geografiche. Tra questi forse il più noto è di sicuro la gorgia toscana, tipica aspirazione di consonanti; ma anche in altre regioni, la dizione di alcune vocali aperte o chiuse, la pronuncia della ‘r’ in Piemonte, la ‘a’ e la ‘e’ nei dialetti pugliesi, il nesso grafico ‘gl’ in quelli calabro-siculi, il raddoppio delle consonanti nei sardi e al contrario lo sdoppiamento nei veneti per citare solo alcuni esempi, sono presenti tratti distintivi ben individuabili.
Questa terza peculiarità diventa quindi anche frantumazione, come se tanti elementi si sbriciolassero quali vetrini di un immaginifico caleidoscopio per dare, ad ogni mossa, una nuova policromia, pur sempre ricca di suggestioni e sfumature.
In conclusione possiamo affermare che non esiste quel coinvolgimento emotivo che possa consentirci di individuare un’impronta unitaria dispersa in tanti rivoli.
Al di là di tutto questo però rimane l’aspetto più importante, quello che supera e unisce queste effigi settoriali per restituirci una vera identità nazionale: l’arte, la letteratura, la cultura e non ultima la bellezza paesaggistica sono le tante sembianze di un paese senza volto.
Angì Perniola