In questo numero che segna il ventennale di Ágalma facciamo ritorno a Mario Perniola, con la consapevolezza, tuttavia, che nel breve arco di tempo che ci separa dalla sua morte non ce ne siamo mai davvero allontanati. Anche l’ultimo fascicolo, dedicato all’Italian Thought, ha mostrato, più o meno implicitamente, quanto molti, decisivi temi oggi rielaborati nella riflessione filosofica rinviino al suo pensiero. Così Andrea Tagliapietra, che apre con un suo scritto questo numero, sottolinea come già nel 1985 Perniola, riferendosi a Giordano Bruno o a Vico, parlasse di una ‘differenza italiana’. Tagliapietra pone giustamente in evidenza come, attraverso una profonda revisione della categoria del ‘sentire’, Perniola intenda sottrarsi alla metafisica dualista corpo/anima, materia/spirito, coscienza/oggetto e alla sua inesausta ricerca di un senso originario, dell’eterno che precede ogni tempo, da una parte, e all’indifferentismo post-moderno, al già-tutto-sentito che caratterizza quella specie di estremo, irriconoscibile discendente del musiliano ‘uomo cerebrale’ della Zivilisation, dall’altra. Movimento che sembra prender forma in un ‘Egitto del sentire’ che si contrappone al suo uso genealogico, all’idea d’una remota sapienza che giace immutabile, protetta dal sedimentarsi delle differenze di stili e culture che si succedono nel corso del tempo. La modalità ‘egizia’, mai del tutto perduta, genera invece un continuum, una corrente percepibile tra interno ed esterno, natura ed arte, animale e cosa, cose vive e cose morte. Proseguendo su questo stesso solco, Massimo Di Felice ha posto in evidenza come Perniola, nei suoi testi, vada oltre il semplice allarme che l’espansione della dimensione connettiva digitale ha prodotto in molti studiosi riguardo all’integrità del soggettivo. È piuttosto da sottolineare come le forme stesse dell’esperienza individuale stiano subendo in questi nuovi processi una profonda trasformazione, tanto da porre in dubbio l’adeguatezza delle tradizionali categorie ermeneutiche sinora adoperate per la decifrazione e il giudizio di questi ‘perturbanti’ modi d’essere. Essi introducono in effetti una dislocazione essotopica del sentire, che conduce ad una sorta di nuovo esser-fuori-di-sé, che a sua volta fa sì che il centro dell’esperienza – immagine certo difficile da afferrare in prima battuta – sia ora da rinvenire all’esterno del soggetto. Tutto ciò non può non rimettere in discussione il tradizionale scarto ontologico che scinde sin dalle origini della cultura occidentale l’uomo dal suo ambiente naturale. E apre ad un’idea di natura molto più estesa ed inclusiva, e al paradosso di un agire non transitivo e non esclusivamente soggettivo, in vista di ‘ecologie trans-organiche’ interamente da immaginare e ridefinire.
Enea Bianchi ricostruisce le linee essenziali della riflessione di Perniola sull’arte tra il 1966 e il 1972, con particolare attenzione al testo L’alienazione artistica, del 1971. Come mostra Bianchi, la critica a queste prime posizioni rivoluzionarie e dialettiche giunse qualche anno più tardi dallo stesso Perniola, che imputa loro di non riuscire a pensare sino in fondo quel negativo su cui pure intendono reggersi. Giuliano Compagno, figura che è stata molto vicina, negli anni, a Perniola, e non solo da un punto di vista intellettuale, offre un assai utile ‘piccolo archivio privato’ composto di citazioni da luoghi molto diversi e dispersi, per così dire, nel tempo, che pure, grazie alle sue intuizioni, finiscono col comporre una figura dai tratti inconfondibili. René Capovin, da parte sua, traccia le linee dell’orizzonte in cui la riflessione di Perniola degli anni Sessanta e Settanta si è venuta formando – contesto che muove dalle innovative letture che dell’opera nietzscheana hanno fornito prima Klossowski e poi Deleuze: interpretazioni che hanno fatto epoca e impresso una stabile direttrice non solo alla piena assunzione del pensiero di Nietzsche in un ambiente filosofico – quello europeo – che ancora negli anni Sessanta guardava con una certa diffidenza al filosofo dell’eterno ritorno, ma anche a quello che si può definire lo stile di pensiero prevalente nell’Europa continentale, in cui da Foucault a Derrida sino allo stesso Gadamer si riconosce la centralità della critica nietzscheana alla metafisica d’impronta cristiano-platonica. In Perniola questo movimento verrà rielaborato a partire dalla nozione di simulacro, che lo porterà a confrontarsi con un autore come Baudrillard e a criticare alcuni esiti del movimento situazionista, in particolare una certa sua dicotomia potere/contropotere che ha finito col mostrare, in un determinato momento storico, tutti i suoi limiti. Da questo versante, sarà possibile ritrovare alcuni tratti determinanti della peculiarità filosofica di Mario Perniola: riflessività, costante rapporto con il contesto socio-politico, atteggiamento anti-apocalittico, pieno riconoscimento del valore altrui.
Infine, Pierre Dalla Vigna traccia un ampio quadro relativo all’attività politica e culturale di Perniola tra gli anni Sessanta e Settanta, seguendo il filo rosso costituito dalla vicenda delle riviste alle quali partecipò, o che fondò. La vita delle riviste caratterizzate da un punto di vista filosofico-politico getta una luce particolare, rivelatrice, sulla cultura complessiva che esse stesse, spesso in reciproco contrasto, contribuirono a delineare. E il percorso di Perniola negli anni Sessanta e Settanta mostra, se colto nelle sue linee essenziali, il travaglio d’una intellighenzia collocata a sinistra, divisa tra il desiderio di porre qui e ora un’alternativa allo stile borghese di vita e la difficoltà di proporre nuove forme politico-istituzionali nel cui alveo quegli ‘altri mondi’ potessero sorgere. Ancora oggi ci troviamo nel cono d’ombra di quelle torri di babele che dovevano dare l’assalto al cielo e svettano incompiute, solitarie nei campi incolti della nostra esperienza.
Luigi A. Manfreda