“Perché mai i filosofi non si esprimono con grazia?” chiedeva la signorina de l’Espinasse in un celebre dialogo di Diderot. La risposta potrebbe venire dall’Oriente e più specificamente da quella parte della cultura giapponese che ha posto al centro della propria riflessione l’esperienza della transitorietà della vita e di tutte le cose mondane. Nei confronti di tale esperienza le posizioni filosofiche più note sono due: la metafisica e il nichilismo. La prima afferma contro il divenire l’assolutezza dell’essere, pensato come eterno e imperituro; la seconda invece trova il suo punto di forza nella critica radicale delle stesse nozioni di essere e di valore considerate illusioni, se non manifestazioni di malafede e di inganno. La causa dell’essere e quella del nulla sono sostenute oggi in Italia con uguale coerenza e radicalità, rispettivamente, da Emanuele Severino e da Gianni Vattimo. Ma l’essere e il nulla non sono le due uniche risposte filosofiche all’esperienza del carattere provvisorio e fuggitivo del mondo: fin dall’antichità la filosofia ha pensato anche il qualcosa, che è appunto qualcosa irriducibile sia all’uno che all’altro termine. Recentemente è stato Umberto Eco a portare l’attenzione su questa nozione, la quale sembra più adatta delle prime due a unire il riconoscimento dei limiti della condizione umana unitamente all’apprezzamento dei suoi incanti.
Se – come ci ricorda la signorina de l’Espinasse – “a memoria di rosa non si è mai visto morire un giardiniere”, l’esclamazione giapponese ah ware!sembra la più adatta per manifestare il sentimento insieme di gioia e di tristezza nei confronti della bellezza transitoria delle cose. Secondo un contemporaneo di Diderot, il filosofo giapponese Motoori Norinaga (1730-1801), il sentimento estetico delle cose, che in giapponese si chiama mono-no-aware, nasce appunto da questa esclamazione di meraviglia e di ammirazione nei confronti delle cose (mono) del mondo. Hanno aware coloro nei quali la dimensione del sentire occupa un posto primario, che sono attenti alla sensibilità altrui, e che sanno rallegrarsi quando è il caso di rallegrarsi e affliggersi quando è il caso di affliggersi. Mi sembra molto significativo che proprio nel momento in cui in Europa nasceva l’estetica come campo autonomo rispetto alla conoscenza scientifica e alla morale, in Giappone ci fosse un pensatore il quale portasse avanti la stessa strategia culturale, sostenendo l’indipendenza della poesia e della letteratura. A suo avviso, a differenza dell’India e della Cina, che sono intrise di metafisica e di moralismo, la specificità dello spirito giapponese consiste nell’importanza assegnata all’esperienza estetica.
Probabilmente non è un caso che l’epoca di Diderot e di Motoori fosse anche l’epoca dell’Ukiyo, di quel periodo della storia del Giappone che Peter Burke ha paragonato al nostro Rinascimento, ma che forse è più simile all’Illuminismo, di cui è contemporanea. Letteralmente, in epoca medievale, Uki-yo vuol dire mondo del dolore (Uki), ma in seguito allo sviluppo economico e amministrativo di Edo, che corrisponde all’attuale Tokyo, il termine subisce un’evoluzione che lo porta a indicare il mondo del piacere e il suo carattere transitorio e fugace, simile a un sogno. Come è noto, questo periodo fu caratterizzato da una grande raffinatezza di costumi e di produzioni artistiche, letterarie e filosofiche, nonché da una elaborata e complessa esperienza dell’erotismo. Universalmente conosciute sono le stampe del “Mondo Fluttuante”, Ukiyo-e, che tuttavia sono opere popolari ed effimere, la cui produzione arriva fino alla seconda metà dell’Ottocento.
Per concludere col paradosso enunciato dalla signorina de l’Espinasse, le rose non lo sanno, ma i giardinieri sono anche loro mortali! Io non so se i lettori di «Agalma» si identifichino più nelle rose o più nei giardinieri, se pendono più verso la durata brevissima o verso la lunga durata; non so quale sia l’ampiezza delle fluttuazioni entro cui si muove il loro mondo simbolico. Certo è che esso non è l’essere, né il nulla, ma quel qualcosa con cui Filone di Alessandria, nella sua interpretazione della Bibbia, spiega il significato della parola manna. Se non esistessero le rose, il mondo sarebbe molto noioso, ma non lo sarebbe meno se non esistessero i giardinieri!