Isabella Vincentini – La vergogna, la dignità e il disonore


Morire gloriosamente

Quando Theodor Adorno scriveva le sue Meditazioni della vita offesa, sottotitolo ai Minima moralia (1951), negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, si capiva facilmente che cos’era che offendeva la vita ridotta ad un’appendice del processo materiale della produzione. La critica alla cultura era allora rivolta alla cultura ufficiale della società borghese antesignana della cultura di massa e della globalizzazione. Oggi la critica alla cultura non ha più così chiaro il proprio obiettivo. La globalizzazione, il progresso, l’Occidente come cultura dominante, la semplificazione dello “scontro tra le due culture”, i diritti umani,  l’insanguinato rapporto con l’Occidente, Bin Laden che sostituisce Che Guevara come nuovo Robin Hood  che mescola romanticismo, anti-americanismo e rivendicazione di umiliazioni millenarie, pongono una serie di quesiti che pescano nel torbido di un vuoto culturale.

Cosa ha oggi l’Occidente da opporre, nel quadro dei propri valori, alla sfida simbolica lanciata della morte sacrificale dei terroristi islamici? La questione non pone solo il problema del confronto tra le due culture, ma implica una domanda più radicale sull’identità della nostra cultura, una domanda rimasta spesso inevasa per rispondere solo alla prima delle due domande: quali sono gli aspetti culturali, economici, politici e pratici suscitati dall’avvento del terrorismo e del fondamentalismo attuali? Quali sono le colpe della civiltà e del sistema Occidentale? Come è possibile trovare una mediazione o una soluzione cercando dietro i fenomeni non le semplici cause ma un’interpretazione esatta della realtà? L’Occidente non ha ancora saputo fornire una risposta persuasiva in quanto tutte le interpretazioni inevitabilmente ricadono nel chiuso delle proprie ideologie o nell’asfittica difesa del proprio sistema di valori.

Se il suicidio dei terroristi messo in scena con grande risonanza dai media, è simbolicamente il “potlatch” mediatico, l’occasione sociale in cui viene stabilito cosa sia per gli islamici onore, gloria, fierezza e dignità, dall’altra parte è difficile definire quali siano le occasioni sociali che stabiliscono in maniera simmetrica l’onore, l’eroismo, il comportamento virile e la dignità nella nostra cultura. Che cos’è per noi la dignità, cosa l’umiliazione, la vergogna, l’onore e il disonore? Una risposta  difficile per una società a parere di tutti considerata come il simbolo della cultura commerciale, anche se costruita sui valori di civiltà, democrazia e libertà. Interrogarsi sui temi occidentali dell’onore e della dignità comporta infatti il rischio di mettere in ballo temi come la morte, l’eroismo, la forza, la bellezza, la tradizione, il rito e il mito espulsi dalla cultura moderna come temi di vecchio stampo romantico o estetizzante.

Alberto Moravia nella prefazione di Morte di mezza estate e altri racconti di Yukio Mishima (1987), ha scritto che la mediazione tra rivoluzione industriale e feudalesimo nella letteratura giapponese è stata affidata all’estetismo come è avvenuto in Europa un secolo fa. E che per questo forse Mishima amava d’Annunzio. Mishima, “l’ultimo dei samurai”, è tuttora per noi uno scrittore controverso, considerato da alcuni un volgare esteta, un rozzo esibizionista se non addirittura etichettato come il “Che Guevara della destra”. Ma senza cadere in queste trappole da sottocultura, intelligentemente Moravia metteva in evidenza che Mishima era soprattutto un nevrotico e le nevrosi sono in fondo fenomeni cultuali, specie in un uomo di cultura. A Moravia acuto indagatore delle nevrosi borghesi, non può sfuggire come la nevrosi sia il tema centrale della letteratura moderna. I buchi neri, le malattie, le mancanze, le psicosi, le perdite e le cadute dell’anima occidentale sono stati infatti i monumenti della nostra grande letteratura, da Dostoevskij a Kafka, da Shakespeare a Cervantes, da Flaubert a d’Annunzio e Mishima. Questa capacità di guardare al fondo dell’anima umana, solo nell’arte meno grande si è affievolita fino a trasformarsi di recente in una autocritica più compiaciuta che tragica dei valori dell’Occidente  ed è proprio su di essa che si appunta oggi il dibattito delle scienze sociali e della filosofia. Ma qual è stata la più recente pietra dello scandalo che ha fatto rimbalzare la questione delle due culture o, meglio, delle identità e delle culture?

 

La pietra dello scandalo. La vergogna

Lo scandalo degli abusi rivelati dai video di Abu Ghraib a Baghdad non è stato solo un caso di imbarazzo e di vergogna nazionale. È diventato uno degli scandali dell’Occidente colto in fallo nella sua presunta superiorità rispetto alle altre culture. La parte più pesante dell’accusa la sostiene proprio lo stesso Occidente che ha sviluppato, come già sottolineava René Girard, specialmente negli ultimi cinquant’anni, un’autocritica radicale al proprio etnocentrismo e alle proprie pudenda.
La rivolta contro l’etnocentrismo è un’invenzione dell’Occidente scrive Girard in La pietra dello scandalo (2004) a distanza di circa trent’anni dall’uscita di un libro controverso e discusso: La violenza e il sacro (1980). È un atteggiamento irripetibile altrove e “la sua prima grande affermazione letteraria è il famoso saggio di Montaigne Dei cannibali” (Girard 2004, p. 50). I Tupinamda di cui parlava Montaigne nel suo Dei cannibali, abitavano nella costa nord-ovest del Brasile e praticavano un rituale di cannibalizzazione dei prigionieri. Dapprima li trattavano in maniera umana incoraggiandoli a sposarsi e ad avere bambini finché non fossero perfettamente integrati nella loro comunità. Solo a questo punto potevano vendicarsi contro il gruppo rivale uccidendo i prigionieri e divorandoli.

A differenza di Montesquieu che si chiedeva “Come si può essere Persiani?”, per lo studioso francese Montaigne è il capostipite di una retorica antioccidentale che ha avuto nel XVIII secolo i suoi massimi capolavori e un ritorno in auge dopo la Seconda guerra mondiale. Ultimi in ordine di tempo la decostruzione derivata dallo strutturalismo e la “dittatura della differenza” che ha portato ad un indifferenziato che “acuisce le opposizioni non rafforzando le differenze”, svuotandole di contenuto. L’autocritica occidentale, afferma Girard, non sfugge allo stesso etnocentrismo che condanna. L’arte, le estetiche e il pensiero filosofico contemporaneo rappresentano la condanna di quello che siamo, il nostro stesso nemico pur senza sottrarsi all’etnocentrismo occidentale.

In molti si sono chiesti come si possa ancora parlare di René Girard dopo Auschwitz, ma in molti si sono chiesti anche come si possa continuare a fare letteratura dopo l’Olocausto. Che però gli autori anche se controversi spesso tocchino i nodi centrali delle nostre questioni non si può ignorare. Ha infatti ragione Girard quando afferma che “Il pensiero moderno gioca sempre a nascondino pur di non vedere la violenza: ora la si vede a casa degli altri e non a casa propria; ora la si vede solo a casa propria e non a casa degli altri, quando invece è lampante che si tratta sempre della stessa cosa”. Il fatto che ora vediamo la violenza fra noi ci fa sperare di andare verso la verità ma questo sarà possibile solo se si metteranno insieme le due cose perché non è sufficiente vederla fra noi e dimenticare quella degli altri. La violenza per Girard è legata al sacro.

Il sacro nel mondo antico regolava la violenza polarizzando contro una sola vittima tutta la violenza che minacciava l’intera comunità. Ed il sacro ed il rito riconciliavano i conflitti nelle religioni arcaiche. Gli dèi arcaici non erano che i capri espiatori divinizzati. La tradizione giudaico-cristiana, religione della vita invece che della morte, ci spiega l’antropologo francese, ci ha rivelato per la prima volta la sostanza persecutoria della vittima che non viene più divinizzata; anzi la vittima innocente desacralizza il capro espiatorio. È il dio stesso che con la Resurrezione getta un ponte che prima non esisteva tra Dio e uomo. Gesù secondo Girard non è il capro espiatorio di tutti gli uomini nonostante le tante apparenti affinità spesso sottolineate, ma al contrario è colui che essendo innocente ha perso il potere di riassorbire la violenza. Dio non vuole olocausti né sacrifici e quindi per non infliggere la violenza bisogna subirla. Girard ricorda anche il Discorso della montagna dell’evangelista Matteo (5, 38-40) in cui alla vecchia legge dell’occhio per occhio e dente per dente, viene contrapposto il porgere l’altra guancia e il lasciare il mantello al malvagio che intende toglierti la tunica, per interpretarlo non in chiave di utopia pacifista, ma come unico mezzo per rinunciare alle rappresaglie. Disobbedire all’invito al male da parte dei violenti diventa l’unico mezzo per bloccare il coinvolgimento collettivo che si diffonde come un contagio.
Spesso il terrorismo e l’odio per l’Occidente, come ci illustrano i maggiori sociologi contemporanei, vivono all’interno della comunità di cui ci si vuole vendicare, ne adottano i progressi e ne imitano le modalità, come ben ci mostra Boris Groys nel suo scritto (2005). Si potrebbe quasi dire che la globalizzazione ha portato alle estreme conseguenze il racconto di Montaigne in cui la vendetta insorge all’interno di una falsa integrazione. Il rito del kamikaze sembra riproporre oggi il legame tra la violenza e il sacro, quel legame reciso dalla civiltà giudaico-cristiana da cui proveniamo.

Ma il problema della spettacolarità invece non è nuovo se già Mishima nel 1970 scelse di eseguire il seppuku, il proprio suicidio rituale, sotto lo sguardo incredulo non solo dei soldati giapponesi bloccati all’interno delle stanze ministeriali, ma sotto l’occhio dei flash, dei fotografi e della risonanza dei media.
Il seppuku, il rituale taglio del ventre, era il modo più onorevole per il samurai di morire e quest’atroce morte diventava la dimostrazione del coraggio che aveva caratterizzato tutta la sua vita. Di certo Mishima non fu estraneo al fascino spettacolare anche prima della morte, avendo più volte consegnato ai film sia come regista che come attore i suoi “riti patriottici d’amore e di morte”, al mondo dell’immagine il suo corpo nudo accanto all’amante come in “Black Lizard”, oppure alla fotografia il proprio corpo come un San Sebastiano in punto di morte; avendo affidato le sue parole alla letteratura ma anche alle dichiarazioni e ai proclami pubblici senza escludere il mondo delle note discografiche incidendo l’inno della sua “Associazione degli Scudi”. Mishima scandaloso uomo pubblico e politico, showman che amava stupire, è morto come un personaggio del teatro tradizionale giapponese, come un personaggio NO fermando il ritmo della propria vita per rendere esemplare la “maschera” della tradizione eroica e del genio moderno.

La sua morte spettacolare, così legata al sacro, non rientra però nel modello di espiazione della violenza collettiva, anche se serviva ad espiare la grigia violenza della mercificazione e dell’americanizzazione del Giappone moderno. Serviva a riscattare un valore più alto del rispetto della vita, un valore che non era né libertà né democrazia: “prima di morire ridoneremo al Giappone il suo autentico volto”, scriveva. Questo valore ci mostra in che cosa consista la dignità, cioè che cosa non può essere accettato all’interno della violenza: l’oltraggio, l’onta. L’umiliazione per un samurai è la perdita dell’onore che va riscattata con la vita. L’onta per la scomparsa di un mondo profanato dalla mercificazione e dalla logica dell’economia, chiedeva di essere riscattata con un atto sacrale: il seppuku.

Se volessimo inscrivere Mishima negli schemi di Girard, sicuramente risulterebbe estraneo alla tradizione giudaico-cristiana della non violenza e del pacifismo attuale, ma ugualmente con difficoltà potrebbe riproporre l’antico schema arcaico del capro espiatorio e della vittima, che caratterizza invece il kamikaze martire che si immola in nome della propria fede. “Quando tutte le cose nella vita sono false/ esiste solo una cosa vera, la morte” recitava un’antica poesia dei samurai; “vero coraggio è vivere quando è giusto vivere, morire soltanto quando è giusto morire” (Alabiso, 2003, p. 88).
“L’essenza dell’arte è poter ripetere un evento decisivo” ha scritto Mishima (1988, p. 96), “i samurai disdegnavano le rappresentazioni teatrali, ad eccezione del NO, le cui regole impongono un’unica recita, in cui convergono tutte le energie”. La perfezione estetica si manifesta dunque un’unica volta: nella bellezza interiore dello stile d’azione. La vera letteratura per Mishima non è quella degli “effeminati intellettuali” caratterizzati dalla fiacchezza di spirito, che si rifugiano in una zona sicura fuori dalla realtà, ma è il pericolo supremo che ci conduce fino all’orlo dell’abisso e poi ci lascia da soli. “L’azione supera l’umanesimo, affronta il rischio mortale, e quindi si scontra con il sistema creato dall’umanesimo moderno”. Mishima oltrepassa l’umanesimo e si ricongiunge, da giapponese, agli antichi valori del suo mondo e del nostro mondo antico.

 

L’onore: “il monaco impari dal soldato il coraggio e il soldato impari dal monaco la carità”

Morire gloriosamente, o come accade oggi spettacolarmente, può essere una scelta che deriva come nella tradizione dei samurai o dei moderni kamikaze dal rispetto della fedeltà e della lealtà alla propria fede o al proprio imperatore.
Cosa diversa è rinunciare alla vita solo in nome dell’onore come Mishima e come avveniva nel mondo antico di fronte alla sconfitta. Il “Galata morente” e il “Galata che uccide sua moglie e se stesso” per non cadere nelle mani dei vincitori, raffigurato nell’altare di Pergamo è un esempio tra i tanti dei guerrieri che preferivano la morte alla cattura, preferivano suicidarsi piuttosto che subire il disonore della prigionia.

Nel mondo classico l’ordine di onore e vergogna, prova e virtù, identità e immortalità, biasimo e lode, oltraggio e profanazione, ma soprattutto valore, bellezza, dignità ed eccellenza trasformavano l’individualità in valore esemplare: modello. La lode celebrava l’eccellenza e la raffigurava in una stele, in un monumento, un epos. All’eccellenza era destinata la memoria, la lode e l’esemplarità. Al biasimo il degrado, la turpitudine, la viltà, l’oltraggio, la profanazione. Oltraggiare in greco (aikizein) è anche degradare, deturpare (aischunein). Tra i due poli opposti dell’onta e della gloria si definiva l’identità dell’uomo della civiltà omerica e dell’antica Sparta.
L’agone, le palestre, i grandi giochi panellenici ma anche la guerra erano una forma di spettacolo dove si sfidavano e si mettevano alla prova il coraggio e la viltà, la forza e la debolezza, dove gareggiavano l’onore e il disonore.

Ma esiste un onore ordinario e un onore eroico. Come esiste una negazione della dignità dentro la dignità. Nell’onore c’è anche la negazione dell’onore. In modo affine alla logica dei samurai per la quale “il monaco doveva  imparare dal soldato il coraggio e il soldato doveva imparare dal monaco la carità”, così l’eroe omerico non doveva dimenticare la magnanimità verso i deboli e i vinti. Quella magnanimità che divenne nel mondo romano pietas.
C’è un estremismo dell’onore che fa di Achille una figura isolata nel suo sdegno, ombrosa e suscettibile. Di fronte all’affronto da parte di Agamennone di portargli via la schiava Briseide (attribuitagli come onore, geras, meritato in battaglia a riconoscimento della sua superiorità), Achille si sente oltraggiato, offeso. E chiede che anche il re rinunci alla sua parte di onore, al geras rappresentato dalla fanciulla Criseide, figlia del sacerdote di Apollo. La collera di Achille, il suo furore che non mettono mai in dubbio la sua eccellenza eroica in battaglia, la sua aretè guerresca, deplorano però la sua rigidezza, la sua insensibilità psicologica alle preghiere, la mancanza di aidos e di pietà, del rispetto e di quella rinuncia alla violenza che permette la riconciliazione dell’offesa, l’abbandono della vendetta, il ripristino dell’amicizia, la riparazione.

 

La dignità

La vita vale poco se non la si può vivere con dignità. Che non sia degna di essere vissuta a tutti i costi ce lo ricordano i tanti esempi storici, artistici, letterari e  mitologici della nostra tradizione: dal Farinata dantesco a Francesco I di Francia con il suo “tout est perdu, hors l’honneur”. Ma il mondo greco è il più ricco di esempi.
Polissena, la figlia di Ecuba e Priamo che l’ombra di Achille esige che venga sacrificata sulla propria tomba, è una vittima innocente. “O Achille la designa all’olocausto, per vendicarsi di chi lo ha ucciso? Ma Polissena è innocente di tutto: Achille sulla sua tomba doveva esigere la vita di Elena: è stata lei a condurlo a Troia e alla morte” (Euripide, Ecuba, vv. 262-266), dice Ecuba ad Odisseo nel vano tentativo di sottrarre la figlia alla morte tramite una “lotta di parole”, un virtuosismo retorico che cerca di vincere attraverso una contesa verbale. “Stammi bene a sentire. Non fartela strappare a forza, tua figlia, non oppormi resistenza: renditi conto della tua debolezza e del tuo stato. È da saggi nelle sventure, avere il senso della realtà” risponde Odisseo.
Ma è la stessa Polissena a ricordare alla madre il proprio onore e la propria dignità:

tu infelice non opporti a chi ha la forza. Vuoi essere spinta con violenza, gettata per terra, che trascinino il tuo vecchio corpo, che un braccio giovane ti agguanti e faccia sconcio di te: è questo che vuoi? Lo subirai! No, non tu: sarebbe indegno Madre adorata, porgimi la tua dolce mano, lascia che accosti la mia guancia alla tua: per l’ultima volta vedo i raggi del sole, poi sarà finita (Ecuba, vv. 404-412).

Polissena non è solo una figlia tenera, ma una ragazza piena di coraggio e di orgoglio che antepone la dignità alla vita.

È libero lo sguardo dei miei occhi, ora: il mio corpo lo dedico all’Ade. Portami pure via Odisseo, finiscimi: non vedo speranze né motivo per credere che le cose possano volgere al bene, chissà quando per me. Madre non intrometterti con parole e con atti. Anzi tu devi approvare la mia scelta: meglio morire che subire l’ingiusta vergogna (vv. 367-374).

La morte diviene una libera scelta per non accettare lo status intollerabile per una principessa di diventare schiava. La vergogna della schiavitù si può eludere solo con la morte, una morte piena di dignità e grandezza d’animo. “Una nobile origine suggella con la sua forte impronta i discendenti, ma la fama dei natali cresce in chi se ne fa degno” dice il Coro.
“Come l’avete uccisa? Con rispetto? Oppure con la ferocia dei nemici?” chiede Ecuba a Taltibio, l’araldo dei Danai. E il racconto di  Taltibio è quello di una morte piena di nobiltà e dignità che si prende la rivincita sui nemici. Polissena viene condotta sulla tomba di Achille per essere uccisa dal figlio dell’eroe, l’esercito è schierato al completo per assistere al sacrificio. Mentre il giovane impugna la spada e fa cenno ai compagni di tener ferma la ragazza, Polissena rifiuta di essere toccata: “sono io che ho deciso di morire: nessuno osi sfiorarmi! Offrirò la mia gola senza paura. In nome di dio, perché io muoia libera, uccidetemi lasciando libero il mio corpo: sarebbe vergogna, per me che sono di stirpe regale, ricevere, tra i morti, il nome di schiava”. L’esercito ammutolisce, la folla applaude e Agamennone dà l’ordine di scostarsi da lei. L’ultimo gesto di Polissena è quello di stringere il peplo lacerandolo dalla spalla all’ombelico e mostrando il seno statuario e bellissimo. E mentre muore si preoccupa ancora “di cadere compostamente, coprendo ciò che si deve coprire ad occhi maschi”.
Polissena con la dignità della propria morte, riporta una vittoria gloriosa sui propri carnefici. Infatti subito dopo la sua morte tutti gli Argivi cercarono di fare qualcosa per lei, chi spargeva foglie sul cadavere e chi accatastava tronchi per il rogo. Le vengono offerti omaggi e ornamenti come il peplo simbolo di vittoria negli agoni.

Dignità è anche l’innocenza di Ifigenia che da vittima si trasforma in eroina. Ifigenia, sacrificata dal padre Agamennone ad Artemide affinché le navi potessero salpare e la vittoria fosse concessa all’esercito greco, muore da protagonista non da vittima. “Offritemi dunque in sacrificio / ed espugnate Troia; lasciate questo ricordo / di me nel lungo tempo; le mie nozze / i figli, la mia fama è tutta questa” (Euripide, Ifigenia in Aulide, vv.1397-1399). Ifigenia smettendo di implorare il padre e decidendo di morire spontaneamente per la stessa causa, avrà la gloria. Accettando la sorte iniqua, sublima la propria morte come un guerriero e per questo verrà assunta in cielo come gli eroi. Infatti quando il sacerdote ultimate le preghiere la colpisce, al suo posto appare una grande cerva il cui sangue inonda l’altare.
Niente può salvare l’uomo dal suo destino, ma l’uomo greco può trasformare la propria sorte in una vittoria della dignità, dell’orgoglio e della libertà come il Prometeo incatenato di Eschilo punito per aver amato gli uomini più degli dèi e per questo condannato da Zeus a rimanere incatenato ad una rupe. Prometeo grida di preferire quel supplizio piuttosto di avere nel sangue la tempra del docile servo e rivendica la propria ribellione ed autonomia.

Ce lo spiega bene Camus ne Il mito di Sisifo (1942) come si possa dare un senso anche all’assurdo, all’umiliazione e all’onta con lo sforzo quotidiano della padronanza di sé, con l’ostinatezza e la forza. Sisifo condannato in eterno a far rotolare senza sosta un macigno fino alla cima della montagna, è superiore al proprio destino, è più forte del suo macigno, di quel grande peso che è l’inutilità del suo sforzo. Sisifo non si fa schiacciare dalla pesante verità del suo destino: “La perspicacia, che doveva costituire il suo tormento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo” (p. 119). Camus ci dimostra come possa esistere una vittoria anche se  “assurda” e come la sprezzatura sia parte di questa vittoria.

 

Il nemico

La sprezzatura, l’orgoglio, la forza d’animo e la durezza nel valutare la vita attraverso il confronto con la morte, sono le caratteristiche dei coraggiosi ma anche la clemenza e la magnanimità ed un comportamento etico nei confronti del  nemico. Anzi si può addirittura trarre vantaggio dal nemico. Il nemico è sempre all’erta ci spiega Plutarco in un breve saggio sulla formazione dell’uomo politico (Come trarre vantaggio dai nemici, 2006). Spia tutti i nostri comportamenti e mette a nudo tutto quello che facciamo scavando e indagando ogni lato della nostra vita. Ed è soprattutto agli errori che il nemico si appiglia seguendone a fiuto le piste. Al nemico non sfuggono le parti meschine, malate e guaste della nostra vita e proprio su queste si avventa, le afferra e le dilania come gli avvoltoi attirati dal fetore dei corpi in decomposizione. Difendersi dal nemico è possibile solo facendo di se stessi uomini di ineccepibile virtù. La circospezione per mettersi al riparo dalle critiche, la saggezza nel prevenire i loro attacchi, ci costringe a condurre meglio la nostra vita e proprio da ciò si ricava anche un bene per la nostra esistenza. Utilizzando il nemico come uno specchio veritiero di noi stessi si “trae vantaggio dai nemici”. “Se uno arriva a comprendere che il nemico è l’antagonista della sua vita e della sua reputazione, pone più attenzione a se stesso. Osserva da ogni lato i suoi comportamenti e conferisce armonia alla propria vita” (p. 69).

Ma oggi chi è il nemico che ci spia e cosa abbiamo visto nello specchio dei suoi occhi? La denuncia delle nefandezze dell’Occidente, che compare in una serie di oli su tela del 2004-2005 di un artista colombiano, Fernando Botero (con i suoi “omoni” sopraffatti da altri corpi o da animali, bendati e sodomizzati, incappucciati, legati con corde ai corpi nudi di altri prigionieri iracheni, violentati e umiliati dietro sbarre di ferro), testimonia l’orrore e lo sgomento per la negazione della dignità umana, per quanto l’uomo, nell’America culla di libertà e civiltà, può fare all’uomo. Detenuti umiliati nel corpo, nella dignità e nell’onore, vengono trasformati in oggetti di abominevoli filmati pornografici.
Gli “omoni” di Botero, quei grandi corpi rotondi, gonfiati fino all’inverosimile e alla deformazione artistica, quei morbidi volumi dalle delicate tonalità cromatiche dei suoi personaggi debordanti provenienti dalla cultura popolare dell’America latina, nella serie di quadri su“Abu Ghraib” ora hanno occhi bendati e non possono più guardare con occhi perduti, distaccati e assenti quel qualcosa di “altrove”, fuori dalla realtà del mondo che da sempre li contraddistingueva. Personaggi immediatamente riconoscibili, le figure di Botero si sono imposte ben presto come cifre stilistiche che circolano da anni su manifesti, cartoline, magliette, vasellame ed ogni oggetto capace di circolare nel marketing globale, ma le sue figure, tra le più riprodotte al mondo, ora ridotte a segni brutali di sopraffazione, probabilmente non potranno essere lanciate nel merchandising contemporaneo. Qualcosa, un pudore superstite per i temi brucianti della vergogna e della dignità offesa, forse tratterrà il marketing dall’utilizzo dei dipinti di Abu Ghraib su cinture, scarpe e magliette, come è avvenuto invece di recente per le immagini sacre della cultura indù: quando il volto degli dèi e delle dee orientali, perfettamente riprodotte dagli stilisti francesi, hanno fatto bella mostra su scarpe à la page pronte ad impossessarsi del mercato se non fossero state ostacolate dalla protesta della cultura e dei capi religiosi indiani.

Il sacro oggi è violato dal mercato, la dignità umana è stata violata dalla civiltà dei diritti, libera e civile americana e i fatti di Abu Ghraib costituiscono la pietra di uno scandalo che nasce dalla vergogna. Lo specchio di una vergogna per la crudeltà legata alla sfera delle perversioni sessuali, ha rivelato il volto di un Occidente che trae piacere nell’affondare nelle zone più sordide e private dell’intimità offesa e umiliata. Allo stesso modo dell’arte contemporanea e degli show televisivi, come ci spiega Boris Groys nel suo scritto. Ed infatti il mondo dell’arte, l’arte che affolla i musei- templi delle ultime tendenze, sembra una compiaciuta e grottesca denuncia della mercificazione della vita contemporanea. Sembra il ritratto stanco di un Occidente che si è arreso alla nefandezza, al vuoto, a una superficialità da humour noir, costituita da rifiuti e plastica, metalli e computerizzazione, un’arte espressione di un mondo caotico, aggressivo e veloce, sovraffollato di merci e di inviti al consumo. Un’arte che mima la violenza del mondo contemporaneo, che riproduce il vuoto della quotidianità, l’assurda smania globalistica e cerca di imporsi inseguendo lo scandalo. Un’arte che ha perso la sua drammatica efficacia tanto da essere definita da “ipermercato”.

L’America e l’Occidente hanno provato vergogna per non aver corrisposto alle attese e al giudizio degli altri, per essere diventati oggetto di osservazione da parte del mondo delle loro azioni riprovevoli, infami, obbrobriose, indegne. Nel linguaggio silenzioso dei corpi della vergogna non è stato leso solo l’onore degli iracheni ma anche l’onore dell’Occidente, e non solo per aver umiliato e offeso il corpo del nemico, ma per aver provato piacere nel prendere parte all’offesa, per essere diventato co-attore di un film pornografico vituperabile e infamante.
L’uomo, la “bestia dalle guance rosse”, secondo le parole di Nietzsche, ha dovuto vergognarsi troppo spesso. “Vergogna, vergogna, vergogna – questa è la storia dell’uomo! Per questo chi è nobile s’impone di non provocare vergogna; e a se stesso impone la vergogna per tutto quanto soffre” (Così parlò Zarathustra).
Achille trascinò più volte il corpo di Ettore intorno alle mura di Troia senza provare vergogna nell’aver oltraggiato il corpo del nemico.

Forò i tendini dietro all’uno e l’altro piede, / tra calcagno e malleolo, vi passò le cinghie di cuoio, / che poi legò al carro, lasciò penzolare la testa; / (…)  sferzò per farli partire (…).  Intorno a lui, trascinato, s’alzò un polverone; si sparsero / i capelli neri, era immersa tutta nella polvere / la testa poco prima bellissima (Omero, Iliade, XXII, 395-400).

Perché Achille non provò vergogna? Perché “quel giorno Zeus ai nemici concesse di farne scempio nella sua stessa terra nativa”. La tracotanza, non è una vergogna nel mondo antico, ma un atto di hùbris, una colpa che gli dèi puniranno e si sconterà con il destino. Esattamente allo stesso modo in cui Ettore non è una vittima offesa e umiliata, ma un eroe sconfitto, un perdente.

La vergogna attuale dell’Occidente a differenza del mondo antico, fa venire in mente le parole di sant’Agostino: “Victor quia victima”. I prigionieri iracheni da vittime e proprio in quanto vittime, sono diventati vincitori non solo agli occhi del nemico. Nella storia non c’è posto per le vittime senza nome, per le folle anonime senza volto. Il posto delle vittime nella storia compare quando le vittime assumono la figura di martiri, cioè di coloro che diverranno importanti perché hanno creato un mondo dopo di loro, come il Cristianesimo che nasce dalla Croce. Così i kamikaze appaiono oggi come i nuovi martiri in quanto vittime della degradazione occidentale, in modo affine alla tradizione giudaico-cristiana e agli antipodi del mondo classico e di Mishima.

 

La violenza e lo spettacolo

Ma esiste ancora un’etica che regola la violenza o esiste solo un’economia della violenza? Dai media assistiamo ai film dell’orrore, reality showdella morte: New York 11 settembre 2001, Madrid 11 marzo 2004, Londra 7 luglio 2005; protagonista del palinsesto non è la morte ma la paura. Londra preferisce nascondere le immagini del terrore, nessuna foto dei corpi dilaniati e insanguinati, di disperazione e di morte, ma teli bianchi e blu sull’autobus della strage, mazzolini di viole, lenzuola, fiori, biglietti e scritte per le vittime ricoprono l’angoscia della trappola e del buio. Il terrore di New York era spettacolare, sfarzoso, plateale, tanto che si è osato paragonarlo ad un’incomparabile opera d’arte. Quello di Madrid era visibile, reale, di strada, corporeo, palpabile e concreto. Londra ha interrotto il filone catastrofico troppo spesso assimilato alla filmografia hollywoodiana, ma non per un fattore di dignità britannica, ma perché la paura non si concede più alla spettacolarità e al teatro, è diventata invisibile e quotidiana.
Quindi  i mille volti di questa paura invisibile ogni giorno più visibile: la Jihad globalizzata delle rivendicazioni via Internet, i continui attentati, i massacri, i sequestri, le esecuzioni ed uccisioni di Al Qaeda dall’ambasciatore egiziano Sherif al regista Van Gogh, kamikaze e camion riempiti di esplosivi,  hotel distrutti,  turisti uccisi…, bambini e  donne calpestati dalla folla terrorizzata.

I crimini contro l’umanità rimbalzano tutti i giorni dalle immagini dei media: le inchieste della Corte penale internazionale sui crimini commessi dalle milizie arabe nella regione del Sudan, il  Darfur; lo scandalo della dissacrazione del Corano avvenuta nella base americana di Guantanamo nella costa sud est di Cuba; gli scandali e gli abusi di Bagram presso Kabul; la camera delle torture di Karabilia nel nord ovest dell’Iraq, il rovescio esatto della medaglia di Abu Ghraib dove i prigionieri iracheni “traditori” per aver collaborato con il nuovo esercito iracheno, venivano dai fratelli musulmani appesi per i piedi al soffitto, malmenati, sottoposti a elettrochoc in nome di una filosofia jihadista che giustifica la decapitazione degli infedeli…
La violenza non è più solo quella spettacolare ma è diventata routine diffusa nei tanti scandali e denunce di soprusi, mutilazioni, umiliazioni, torture e uccisioni da sottrarsi alla visibilità e alla spettacolarità. Da diventare invisibile come la paura di Londra. Poiché è ubiqua è stata accettata da una collettiva rassegnazione e affinché si scandalizzi il nostro senso morale e ferisca la nostra anima è necessaria la risonanza attraverso l’arte o la spettacolarizzazione.

Mentre le civiltà antiche operavano un continuo mascheramento della violenza occultando la verità del rito, la società moderna misconosce la violenza interiorizzando le nozioni di vittimizzatore e vittima all’interno delle fedi politiche e religiose. Si cercano le origini della violenza e in questo modo si occulta la violenza. La morte viene ridotta a una questione quantitativa, statistica delle vittime.
Impressionante è l’elenco di orrori e di crudeltà inflitte alle vittime nel libro di James Hillman sulla guerra (2004): “Trovammo cadaveri di donne sopra cocci di bottiglie di birra e altri impalati su polloni di bambù”, è una testimonianza sull’invasione della Cina da parte dei Giapponesi durante “lo stupro di Nanchino” (p. 73). Ma non c’è limite nel mondo contemporaneo alla sofferenza inflitta alle vittime: dagli stupri e dalla mutilazione dei genitali avvenuti durante la guerra civile spagnola ai mercenari marocchini violentatori delle donne italiane nel ’43, dalle migliaia di donne del Bangladesh violentate dai pakistani alle ragazze bosniache umiliate, mutilate e violentate dai serbi. Genocidi e macelleria di massa, questa è l’inumanità della guerra: dalle atrocità avvenute nel Ruanda ai morti e alle torture della Cecenia, dal Kosovo alla Guerra del Golfo, dal Vietnam all’Iraq, l’Afghanistan, il Sudan, l’Angola e il Guatemala. “Il lato ombra della tolleranza è la perdita della sensibilità per l’intollerabile”, scrive Hillman, l’intollerabilità della violenza e l’inumanità della guerra.

La guerra è una costante della dimensione umana e non esiste una soluzione pratica alla guerra. È una replica fin troppo precisa dell’Iliade, come è stato analizzato da Jonathan Shay nel suo Achilles in Vietnam, Combat Trauma and the Undoing of Character (1994). Ma Ares, archetipo che ritualizza tutti gli stati alterati nel campo di battaglia è inseparabile da Afrodite. Amore e guerra, bellezza e violenza si bilanciano in un sistema compensatorio di reciproca concordanza. Non l’amore come rimedio buono o salvazione, né Venere-Afrodite ridotta a ragazza pon pon, a propaganda o ad arte ludica e del tempo libero, ma Venus Victrix, cioè l’intensità estetica, l’estetica della bellezza, la passione come furia del coinvolgimento estetico.
L’unico rito, l’unica idea di “sacro” che oggi può ancora opporsi alla violenza, non è la vergogna di se stessi o il meccanismo vittimario, non è sufficiente la nostra idea fiacca di civiltà, correttezza e umanità, ma un’idea forte di bellezza e dignità oppure l’obbedienza al rituale del proprio onore come Mishima, come Polissena, come Ifigenia, come Prometeo, come Edipo che si acceca, come Aiace che si uccide, come Antigone che si ribella, come la profezia lucida di Cassandra.
A Cassandra che sa quale sorte l’attende il Corifero chiede: “Ma se realmente conosci la tua fine fatale, perché questo strano coraggio, questi passi verso l’altare, come vittima rapita dal dio?” (Eschilo, Agamennone, IV, 1295-98). La grandezza degli antichi eroi che a volte si caratterizzava come ostinazione e tracotanza è forza di sopportazione, incrollabilità e soprattutto onore, dignità.
Per rispondere al nostro quesito dobbiamo allora ricominciare ad interrogarci sulle Meditazioni della vita offesa, ma che cos’è che oggi offende la vita? Il vuoto culturale creatosi intorno al concetto di dignità, oppure la vita diventata, come scriveva Adorno, una produzione effimera della produzione e del consumo? Forse le due domande sono oggi la stessa cosa.

di Isabella Vincentini

 

Riferimenti bibliografici

Adorno, Th. W., 1951, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, trad. it. Torino, Einaudi, 1994.
Alabiso A., I Samurai, Roma, Newton & Compton, 2003.
Camus, A., 1942, Il mito di Sisifo, trad. it. Milano, Bompiani, 1980.
Hillman, J., 2004, Un terribile amore per la guerra, trad. it. Milano, Adelphi.
Shay, J., 1994, Achilles in Vietnam. Combat Trauma and the Undoing of Character, New York, Atheneum, 1994.
Girard, R., 1980, La violenza e il sacro, trad. it. Milano, Adelphi.
Girard, R., 2004, La pietra dello scandalo, trad. it. Milano, Adelphi.
Groys, B., 2005, I corpi di Abu Ghraib, in questo numero di “Ágalma”.
Mishima, Y., 1987, Morte di mezza estate e altri racconti, trad. it. Milano, Guanda.
Mishima, Y., 1988, Lezioni spirituali per giovani samurai, trad. it. Milano, SE.
Plutarco, Come trarre vantaggio dai nemici, ed. it. Milano, Mondadori, 2006.