Maria Tilde Bettettini – Storia dell’iconoclastia e del cinema nudo  Contro il “film parlato”


“Se io al cinematografo non devo più vedere il cinematografo ma una brutta copia del teatro, e devo sentir parlare incongruamente le immagini fotografate degli attori, con una voce di macchina trasmessa meccanicamente, io preferirò andarmene a teatro, dove almeno ci son gli attori veri che parlano con la loro voce naturale”. Così Luigi Pirandello sul Corriere della Sera del 16 giugno 1929, in risposta all’angosciosa domanda Se il film parlante abolirà il teatro. No, naturalmente, e non sarebbe nemmeno possibile, perché aggiungendo al film le parole si travisa la peculiarità del “cinematografo”, se ne fa un’imitazione del teatro destinata a creare negli spettatori un “effetto sgradevolissimo di irrealtà”. Questo è dovuto allo sfasamento tra la presenza della voce, riprodotta in sala con quel “diavolo di invenzione della macchina che parla”, e l’assenza degli attori, che si vedono muovere in luoghi diversi dalla sala. Non parlano gli attori, ma “immagini fotografate in movimento”, e si sa che “le immagini non parlano: si vedono soltanto; se parlano, la voce viva è in contrasto insanabile con la loro qualità di ombre e turba come una cosa innaturale che scopre e denunzia il meccanismo”.

Per Pirandello la soluzione è quella che vede il cinema non imitare il teatro e lasciare “la strada impropria della letteratura (narrazione o dramma)” per trovare se stesso nell’unione di musica e immagini, utilizzando quindi suoni con la stessa caratteristica delle immagini di non aver bisogno di traduzione. “Gli occhi per vedere tutti i popoli li hanno uguali; ma la lingua per parlare, ogni popolo ha la sua”: per difendere il teatro il drammaturgo esprime un concetto filosofico reso per la prima volta ventiquattro secoli prima, la sua è l’urgenza di chi deve proteggere la razza umana da una disgrazia quale il “film parlato”, nell’antichità il nemico da combattere era qualunque forma di idolatria, si tratti della blasfema rappresentazione del Dio ineffabile (tale per la cultura ebraica), o della fuorviante mimesis di realtà che sono a loro volta mimesis di idee eterne.

 

Gli occhi per vedere tutti i popoli li hanno uguali

Quindi si può dire che Pirandello sia aggiornatissimo e insieme platonico, seguace di Platone, nemmeno dei medio e neoplatonici. Infatti da un lato va ricordato che del 1927 è il primo film con nove canzoni e frammenti di dialogo, The Jazz Singer; del 1928 The Light of New York, sempre della Warner Bros, il primo film sonoro in senso pieno, e nel 1929 gli italiani sono messi in guardia tramite il Corriere della Sera. D’altra parte, come Platone, così Pirandello sente il dovere di difendere i suoi da un uso improprio delle immagini, l’unica differenza è che nel Novecento queste si muovono, mentre nell’Atene dei filosofi sono solo statue e pitture, pur di colori vivaci (nessuno ormai cade nell’errore dei bianchi templi e bianchi pepli, nonostante i serial si ostinino a vestire filosofi e profeti di beige e grigio, come le collezioni Armani).

Ombre di ombre. Copie di copie, così, con questa connotazione negativa elevata alla seconda potenza siamo soliti riconoscere la posizione iconoclasta di Platone, responsabile senza dubbio di tanta diffidenza e di violenti rifiuti dell’immagine. D’altra parte sono stati proprio alcuni testi platonici a consentire una opposta lettura dell’immagine, che vuole il produttore di immagini capace di rendere visibili realtà invisibili, generoso tramite fra un mondo soprasensibile e gli sguardi opachi di chi non è in grado di vederlo, se non grazie all’arte del pittore, o dello scultore, insomma del produttore di immagini. Le pagine di Platone si rivelano essere alla radice delle più decise forme di iconoclastia come di svariate tipologie di iconofilia, tutte unificate dal senso dell’immagine come tramite con un mondo altro. Platone è in prima persona iconoclasta, se pur di un’iconoclastia trasversale, mentre saranno i platonici, poi (anche prima dei cosiddetti neo-platonici), a far derivare dai suoi scritti una lettura positiva dell’immagine.

In verità è difficile non rimanere negativamente impressionati da chi con tanta chiarezza ha presentato nella Repubblica un preciso programma di censura, volto a selezionare e ridurre i testi letterari e musicali adatti a essere ascoltati lungo il percorso educativo dei giovani futuri custodi della città. Per non dire poi di quando, nel decimo e ultimo libro dello stesso dialogo, Platone parla della vita del filosofo stesso, ormai maturo governante della città ideale. Invece di concedere quella mescolanza tra godimento dei sensi e gioco della mente che a noi oggi sembra un dovere per l’intellettuale, Platone ancora una volta, antipaticamente, ribadisce la pochezza di coloro che imitano le cose, ottenendo lo stesso risultato di chi prende uno specchio e lo volge in tutti i sensi, avendo così il sole, gli astri, la terra, gli esseri viventi, ma attingendo solo phainomena dei singoli oggetti (596 e), una apparenza che somiglia poco all’oggetto reale, ne è piuttosto una contraffazione. Tale antipatia, va riconosciuto, sarebbe dettata dalla stessa superficialità di chi ha voluto leggere i fondamenti del totalitarismo moderno nelle digressioni sulla città ideale. Platone, infatti, poeta in prima persona, come narra Senofonte e come chiunque evince dalla lettura di opere come il Simposio o il Fedro, non ha disprezzo per il bello né per la bellezza delle arti: ha diffidenza per l’aspetto mimetico delle arti.

 

Paura della mimēsis

L’arte per Platone è mimēsis che nell’imitare inganna: l’artista finge di conoscere, ma si limita a riprodurre oggetti e situazioni. L’accusa rivolta all’artista è la stessa che viene rivolta al sofista, ossia al retore che finge di conoscere le cose di cui parla, ma l’unica cosa che davvero conosce è l’arte del parlare. Si deve quindi primariamente chiarire che l’arte è condannata non in sè, ma per le sue pretese, per il suo folle porsi allo stesso livello della filosofia, che invece indaga la verità delle cose senza risparmiarsi la fatica del “lungo viaggio” (Repubblica 534 c) della dialettica.  E in secondo luogo si deve ricordare che il vero bersaglio di Platone sono sempre e soltanto i Sofisti, coloro che fingono di possedere la sophia ma in verità si volgono alla parte peggiore dell’anima, più sensibile alla lusinga del piacere e all’emozione, facile da attrarre e ingannare con fantasmi e parvenze. Questa polemica verso gli avversari di sempre, che ha del personale, spiega anche l’acredine di Platone verso tutti coloro che possiedono delle technai e di queste non solo vivono, ma si accontentano. Se i peggiori sono gli imitatori dei filosofi, dotati solo della tecnica della parola, come si dovranno intendere i “fabbricatori di eidōla”, costruttori di immagini? Così Platone, infatti, definisce ogni genere di artista: il poeta, il musico, il pittore, indipendentemente dal grado di figuratività della sua arte. Il motivo è di ordine gnoseologico: l’eikasia, conoscenza per immagini, è per Platone il grado zero della conoscenza, inferiore alla pistis(credenza), alla dianoia (ragione discorsiva) e naturalmente alla noesis o intuizione intellettuale (in Repubblica 509 d ss.). Ma non si tratta solo di “icone”: eikōn è ogni rappresentazione sensibile del reale, ogni mimēsis. E come tale, in un mondo che nella sua materialità è solo ombra del vero mondo soprasensibile, l’eikōn è imitazione di un’ombra, copia di una copia.

 

Eikon, eidolon

In un mondo che per gradi discende dall’iperuranio, attraverso le “cose di mezzo” (metaxu: anime, numeri, demoni) fino alle realtà delle cose materiali, Platone pone una cesura assoluta tra l’aldilà e l’aldiqua, fra il buio della caverna e la luce del sole. Spesso si è utilizzato il mito della caverna (nel sesto libro della Repubblica) come metafora del cinema, dove i prigionieri costretti a guardare il fondale e a udire l’eco delle parole pronunciate all’esterno potrebbero credere che non vi sia altra realtà oltre a quelle ombre proiettate nel buio dalla luce di un fuoco. Il filosofo sa uscire dalla caverna, superare gli impicci del buio e liberarsi dalle catene, vedere le cose e poi il sole, ma è triste la sua fine, una volta tornato per scuotere i compagni dal loro torpore, viene deriso e infine ucciso, gli uomini preferiscono rimanere nell’eikasia del buio, segno della materialità. Chi, per ispirazione divina o per capacità tecniche, gioca con la materia, si occupa di questo, di un gioco, di divertimento, come si legge nel Politico: “la pittura e tutto ciò che mediante la pittura stessa o la musica compie delle imitazioni solo per il nostro piacere” si deve definire “divertimento”, paignion, perchè si fa per gioco (paidias).

Platone si limita a riconoscere che nessuna arte è più piacevole di quella imitativa (e Aristotele da qui partirà nella Poetica per difendere la naturalità e il senso della mimēsis), però è del tutto inutile o addirittura dannosa: la somiglianza eccessiva tra rappresentazione e rappresentato può ingannare, la bellezza eccessiva può attrarre e costringere al buio chi invece poteva aspirare a uscire dalla caverna.

L’etimologia di eikōn, immagine, e di eikōs, verosimile, è la stessa, derivano dal verbo eoika, che significa “sono simile”, ma anche “sembra” e “mi sembra”, come il latino videor. Così eikōn è l’opera bella del Demiurgo, degna di un discorso verosimile e probabile, non vero, quale quello dei retori (che nel Fedro vengono definiti cercatori del verosimile, di quell’eikōs che è solo doxa, opinione, è proprio “ciò che pare alla massa”, 273 b).

Il discorso sul sensibile è dunque sempre instabile, come lo è il sensibile che diviene, ma nel caso delle immagini sono apparsi due generi di immagini: eikōn, la fedele immagine che è simile all’idea, propria del demiurgo inteso come artigiano e del Demiurgo inteso come intelligenza divina, e eidōloneikōn rivela qualcosa del suo modello per similitudine (omoiosis) – e possiede la stessa valenza ontologica del filosofo e dell’uomo giusto che diventano simili al divino che imitano e contemplano: non è vera, ma somiglia al vero; eidōlon invece allontana sempre dal vero. Non sarà difficile nei secoli più avanti ai platonici intendere come eikōnanche l’immagine prodotta dal pittore e trasformare così l’iconoclastia di Platone in iconofilia (passione per le immagini), o addirittura iconodulia (venerazione).

 

Roma, il cristianesimo, le immagini

Nel 384, quando da pochi anni i cristiani sono liberi di praticare la loro religione, abbiamo testimonianza di una controversia sulle immagini. Nel 357 Costanzo II aveva fatto rimuovere dal Senato l’altare della Vittoria, davanti al quale i senatori prestavano i giuramenti di fedeltà e svolgevano i riti propiziatori all’inizio di ogni seduta. Il pagano Simmaco, appena divenuto prefetto di Roma, chiede a Valentiniano II la ricollocazione dell’altare in nome della salvezza delle tradizioni di Roma: “Fate, vi prego, che quanto abbiamo ereditato da ragazzi, da vecchi lo trasmettiamo ai posteri” (III Relazione, 4). Infatti, prosegue Simmaco, “tutto è pieno di dio” e “non si può giungere per una sola via a un mistero così grande” (III Relazione, 10): pertanto accanto ai segni cristiani si mantengano gli altari pagani. Al prefetto risponde Ambrogio, vescovo della città sede dell’imperatore, con due lettere a Valentiniano (che ascolterà il vescovo e non il prefetto). Le pagine di Ambrogio portano il peso di tristi e recenti ricordi (ci avete perseguitato, e non ci avete mai costruito altari) e la forza di chi guarda al futuro, della giovinezza di una religione nuova contro la vecchiaia di usi ormai archeologici. Ma la battaglia vera si sposta su un altro punto, rispetto alle rivendicazioni del passato: noi non accettiamo le vostre statue perchè sono le statue stesse che voi adorate, le immagini sono i vostri dei. “Voi reputate vostro dio un pezzo di legno” (Lettera 18, 9),  sostiene Ambrogio: tutte le vie del divino sono percorribili, eppure i pagani “parlano di dio, ma adorano una statua” (Lettera 18, 2), come se il sincretismo religioso (le molte vie di Simmaco per giungere al mistero) avesse portato poi a legarsi alla devozione verso oggetti, e non verso dei che rimangono “ignoti” (secondo un famoso passo di Atti 17, 22-31, che riprende l’uso di dedicare in ogni città un tempio al “dio ignoto”). Paradossalmente, una tolleranza verso più religioni ha portato al legame con alcuni oggetti dal valore storico e simbolico; e, d’altra parte, l’intolleranza (noi oggi così la chiameremmo) dei nuovi cristiani non ha accettato simboli diversi dai propri, ritenuti oggetto di idolatria. Per adesione a un credo o per accettazione di molti, nessuna fede ha mai potuto disinteressarsi del potere dei simboli, statue o bandiere.

 

Lecite o idolatre?

Per quanto riguarda in generale il rapporto con le immagini, emergono subito a un primo sguardo teorico sulla religione cristiana alcuni elementi che dovrebbero far pensare a una piena accettazione e a una valorizzazione dell’immagine, e soprattutto dell’immagine sacra. Infatti, il dogma dell’incarnazione e insieme la commistione tra teologia cattolica e filosofia neoplatonica avrebbero dovuto portare a una valutazione positiva dei ritratti di un Dio che ha preso (e mantiene, dopo la resurrezione) un corpo e, d’altro lato, non dovrebbe essere sfuggita ai cristiani la posizione plotiniana sull’arte, via di accesso privilegiata al mondo delle idee, quindi al divino. Ma, anche per i cristiani, il timore dell’idolatria si è affiancato ai dubbi sulla rappresentabilità di un Dio che, se pur ha preso corpo, rimane un Dio ineffabile; si sono venute così a produrre posizioni altalenanti, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista delle dichiarazioni ufficiali di vescovi e concilii. Va inoltre ribadito il fatto che né i Vangeli né le Lettere e tutto il corpus del Nuovo Testamento contengono riferimenti a una proibizione o a un invito alla produzione e a una qualunque forma di utilizzazione delle immagini sacre, a differenza dell’assoluta proibizione di Esodo 20, 3-4 e Deuteronomio 5,7-10.

Così, mentre dal III secolo abbiamo testimonianza di immagini sacre cristiane, già nel 306 i vescovi spagnoli riuniti nel concilio di Elvira (Granada) scrivono: “decidiamo che non ci devono essere pitture nelle chiese, affinché non sia dipinto sulle pareti ciò che viene riverito e adorato” (Mansi II, 11). Il popolo cristiano però non sembra accogliere questa proibizione e dal 313 si moltiplicano le chiese e le decorazioni delle stesse. In verità, in Occidente come in Oriente, un ruolo fondamentale si deve riconoscere alla comunicazione per immagini del potere romano, che permetteva di poter vedere e toccare ciò in cui deve credere (un regnante lontano o un Dio in cielo), portando alla superstizione in cerca di garanzie (di guarigione, di prosperità). I sudditi di Roma sono abituati alle immagini, agli oggetti in generale (opere d’arte o di devozione, reliquie, luoghi sacri): quando gli imperatori d’Oriente si opporranno ai monaci e alle loro icone, si verificheranno sollevazioni di massa, e solo l’esercito – che non è certo un rappresentante popolare – resterà fedele all’iconoclastia sia prima che dopo il Concilio di Nicea.

Ancora nel quarto secolo, un’altra testimonianza contraria alle immagini giunge dalle parole di Epifanio, vescovo di Salamina (ca. 315-403): “Ricordatevi, figli amatissimi, di non mettere immagini nelle chiese e neanche nei cimiteri dei santi, ma abbiate sempre il ricordo di Dio nei vostri cuori, non nella casa comune”. Infatti “non è permesso al cristiano di elevarsi per mezzo degli occhi e di una distrazione dello spirito: in voi stessi siano dipinte e impresse le realtà divine” (Fr. 2 Ostrogorsky, 33 Holl). Epifanio si domanda anche come si possa pretendere di rappresentare l’inafferrabile, l’inesprimibile, l’incomprensibile, l’inenarrabile, “lui che Mosè non potè guardare nel volto”. E poi, con parole che sottolineano il vero problema delle immagini: “Come vuoi tu vedere i santi che devono brillare nella gloria in una materia senza gloria, morta, muta, mentre il Signore dice a loro proposito: saranno come angeli di Dio?” (Fr. 7 Ostrogosky, 6 Holl).

 

Materia e parola

La materia è morta, muta. È solo fonte di distrazione. È l’eid?lon della Repubblica di Platone, non l’eik?n del Sofista e del Timeo, non la natura bella delle Enneadi di Plotino, che parteciperebbe della bellezza ideale, divina, come le opere d’arte.

Agostino d’Ippona (354-430) ha nei confronti dell’immagine una posizione ambigua, mostrandosi platonico in entrambi i sensi sopra citati: dall’immagine può venire facilitazione alla conoscenza oppure distrazione. Nel primo senso, Agostino afferma che la pittura può essere colta immediatamente anche da chi è ignorante di lettere, mentre il testo scritto deve essere letto e compreso: bisogna saper leggere e conoscere la lingua in cui è scritto, come si apprende dall’omelia n. 24 del Commento al Vangelo di Giovanni. Oggetto dell’omelia è la pagina di Giovanni (6,1-14) che descrive la moltiplicazione dei pani: Agostino spiega che il miracolo ha anche una sua “lingua”, perché è stato compiuto dal Verbo e ogni azione del Verbo è per noi un verbum, una parola, di cui va compreso il contenuto. Allo stesso modo, quando si vede un testo scritto con lettere elegantemente composte, “non ci limitiamo a lodare lo stile di chi le ha fatte così ordinate, uguali e belle, ma vogliamo anche attraverso la lettura intendere ciò che per mezzo di esse lo scrittore ha voluto dirci” (Ioh. ev. 24,2). E poi la precisazione: “Una pittura si guarda in modo diverso da uno scritto. Quando vedi una pittura, basta vedere per lodare; quando vedi uno scritto, non ti basta vedere”, quoniam commoneris et legere. Sei invitato, avvertito energicamente, in sostanza costretto a leggere. Il testo scritto chiede la conoscenza della lingua in cui è scritto, non è sufficiente il riconoscimento delle lettere nelle loro forme, mentre viene ipotizzata per la forma della pittura una universalità che permette il passaggio diretto dalla visione alla comprensione intellettuale. D’altra parte, questa facilità di lettura dell’immagine può indurre all’errore chi cerca risposte ai suoi dubbi in pictis parietibus invece che nei libri sacri, come si legge nel De consensu evangelistarum (1,10), dove si attribuiscono dottrine erronee (credere che Cristo avesse scritto delle lettere a Pietro e a Paolo) al “grossolano errore” di andare a cercare “Cristo e gli apostoli non nei sacri libri ma nelle pitture murali”: quindi “niente di strano se questi autori fantasiosi furono ingannati da autori di pitture”. È interessante notare che in questo caso l’errore non è del pittore (che ha dipinto vicini Cristo, Pietro e Paolo, come si usava), ma di coloro che hanno interpretato questa vicinanza in senso letterale e non metaforico: Paolo infatti non ha mai incontrato di persona Cristo, come spiega Agostino nelle righe successive.

La stessa idea che abbiamo letto sopra nell’articolo di Pirandello: l’immagine apparentemente non ha bisogno di interpreti, è fruibile per tutti. Questa facilità è anche però all’origine dei fraintendimenti che possono sorgere da un’interpretazione erronea dell’immagine stessa. Infatti l’immagine, come tutti i segni, va interpretata: il limite dell’immagine è quello di colpire i sensi esterni, di giungere alla mente attraverso la vista. Nel platonico Agostino desta più meraviglia la possibilità che si diano nell’anima immagini di cose viste con gli occhi del corpo che non l’esistenza di sogni e visioni.

L’immagine più ingannevole è anche quella più mimetica, come ripeterà Isidoro da Siviglia, che nelle Etimologie scriverà: Pictura autem dicta est quasi fictura, la pittura è una finzione (PL 82,676). La conoscenza avviene invece tramite un faticoso studio interpretativo: se chiunque dalla bellezza del creato può risalire al bello immutabile, non tutti possono leggere i segni prodotti dall’uomo e soprattutto le Scritture, ispirate da Dio. Le immagini possono confondere, sia perchè derivano dalle sensazioni, sia perchè hanno uno statuto ambiguo (“bifronte” lo definisce Agostino nei Soliloquia), sia perchè sono troppo facili da interpretare. Il testo scritto, invece, può essere interpretato solo da chi sa leggere e, nel caso delle Scritture, sa andare oltre il senso letterale. Il platonismo dello pseudo-Dionigi e poi di Giovanni Eriugena unificherà queste linee parallele, dando a ogni realtà materiale il valore di un segno che rimanda al creatore: la teologia delle immagini orientale non avrà difficoltà a inserire l’arte sacra tra questi segni.

 

La pittura a Costantinopoli

Se l’Occidente aveva accettato con prudenza – e non sempre, come si è visto – l’uso delle immagini sacre, in Oriente l’equivalenza tra testo verbale e figura, incoraggiata da una lingua che chiama graph? sia la scrittura che la pittura, e historia la narrazione scritta come quella figurata, era stata sostenuta dai Padri greci, che ponevano sullo stesso piano pittori e scrittori. Basilio aveva scritto che pittori e scrittori comunicano allo stesso modo: l’unica differenza è nel silenzio dell’immagine, perché – va ricordato – la lettura nei primi secoli della nostra era è da intendersi soprattutto come lettura ad alta voce. Gregorio di Nazianzo a sua volta aveva ritenuto il pittore capace di insegnare con le immagini (Carmina I, 2, 33) e Gregorio di Nissa arrivava a considerare l’autore di mosaici come un uomo in grado di trasformare un pavimento in uno spazio capace di narrare storie (De sancto Theodoro 63).

Il ruolo delle immagini in Oriente, tuttavia, appare non tanto quello pedagogico e didattico, quanto piuttosto un ruolo quasi sostitutivo ed ermeneutico: in un mondo ancora ben alfabetizzato, l’immagine-testo, infatti, serviva a comprendere meglio le verità di fede già note attraverso le Scritture. L’equivalenza tra immagini sacre e Vangeli, poi ripresa anche dal Concilio di Nicea, da un lato esaltava il ruolo delle immagini, tramiti con il divino, dall’altro le riportava all’interno di una tradizione che chiamava l’autorità a definire il vero significato dei testi – e dei dipinti – sacri.

Nel IX secolo Niceforo il Patriarca e Teodoro Studita ribadiranno l’argomento centrale sulla liceità dell’immagine sacra: Cristo stesso, assumendo la natura umana e un corpo, ha accettato di farsi “circoscrivere” dalla limitatezza e dalla materia, che quindi è adeguata a rappresentarlo.

 

Le immagini per analfabeti e gentiles.

L’arte sacra bizantina è una forma d’arte che non si pone alcun problema estetico, sono i testi di Cirillo d’Alessandria, morto nel 444, e di Massimo il Confessore (580-662) che fondano teologicamente un’arte dallo scopo confessionale e teologico, e non estetico, ed è proprio in questi anni che si costruisce una sorta di “modello” del ritratto di Cristo, di cui noi abbiamo un primo esempio nell’icona a encausto (ossia con i colori lavorati insieme alla cera per dare luminosità e spessore) del Cristo Pantocratore del Monastero di Santa Caterina sul Sinai. Tornando in Occidente, il mondo latino, dopo le invettive dei vescovi di Elvira, di Epifanio di Salamina, di Eusebio di Cesarea e di altri, sembra aver trovato un suo equilibrio nelle famose quanto dibattute parole del papa Gregorio Magno (ca. 540-604), contenute in due lettere inviate a Sereno, vescovo di Marsiglia incline all’iconoclastia (Registrum epistularum, IX, 209 e XI, 10), forse la prima riflessione occidentale sulla funzione dell’immagine come testo. Nella prima lettera Gregorio sottolinea il valore catechetico delle pitture nelle chiese, che permettono agli analfabeti una “lettura” alternativa della storia sacra e degli insegnamenti a questa relativi. Il vescovo Sereno infatti distrugge le pitture perché vede i fedeli riservare loro il culto idolatrico che pochi anni prima essi avevano tributato agli idoli. Gregorio è conscio del peso della tradizione ecclesiastica: “Nei secoli passati si è permesso non senza ragione di dipingere le storie dei santi in luoghi venerabili” (XI, 10, p. 874) scrive nella seconda lettera, dove puntualizza la differenza tra adorare una pittura e invece essere aiutati da questa a comprendere ciò che deve essere adorato. La pittura offre a coloro che guardano gli stessi contenuti offerti dalle Scritture a coloro che leggono. Gregorio ribadisce che le immagini sono leggibili da parte degli ignorantes, degli idiotae, del populus imperitus, dei nescientes litteras e delle gentes, ossia dei popoli ancora non cristiani, che quindi non leggono le Scritture, ma possono imbattersi nelle pitture. Tutti costoro erano aiutati nella “lettura” delle immagini dalla predicazione, che spesso assumeva i toni coloriti e concreti del racconto aneddotico, ma che altrettanto spesso era anch’essa ormai resa difficile dalla differenza tra la lingua scritta e quella parlata, la lingua colta – o almeno alfabetizzata – dei chierici e la lingua parlata dal popolo, molto lontana dal latino corretto. L’analfabetismo e le difficoltà di comprensione orale facevano dunque in Occidente delle pitture un fondamentale strumento catechistico, una “predicazione muta”, secondo l’espressione usata secoli più tardi da Pietro il Venerabile a proposito del lavoro del copista. Le immagini sembrerebbero dunque accettate non in vista di una maggior comprensione o addirittura quali stimoli alla devozione, alla preghiera, al contatto con Dio, ma per una prima conoscenza della storia sacra e dei dogmi cristiani, a favore dei cristiani ignoranti così come dei pagani, le gentes, cui Gregorio aveva dedicato molte lettere pur riconoscendo che l’Europa “è affidata ormai al diritto dei barbari” (Registrum epistularum, V, 37, p. 309).

 

L’iconoclastia della Chiesa orientale

Non è l’immagine a suscitare devozione, ma ciò che questa fa ricordare. Non si può dimenticare, infine, che si sta parlando sempre e solo di pitture sacre, e non di immagini o opere d’arte in generale. La pictura quasi scriptura in Occidente rimane comunque legata a due ruoli: l’insegnamento e il ricordo di ciò che si è imparato.

A partire dal 727, invece, non si può dire lo stesso per la sede di Costantinopoli. In un momento di consolidamento del potere del basileus, sotto il regno di Leone III (717-741) e poi di suo figlio Costantino V (741-775), si proibisce la costruzione e il possesso di immagini di Dio e dei santi. L’atto formale con cui si avviò la campagna iconoclasta è la distruzione dell’icona di Cristo affissa sopra la Chalk?, la porta di bronzo che serviva da ingresso principale del palazzo imperiale di Costantinopoli. Ovunque, ma soprattutto nella capitale, pitture e sculture sacre vengono distrutte e sostituite da semplici croci. Non è il patriarca, ma l’imperatore a decidere questa politica iconoclasta, per motivi diversi e tuttora oggetto di discussione tra gli storici: per influenza dell’iconoclasmo islamico ed ebraico; per sottolineare la valenza religiosa del potere imperiale nel proporre come unico simbolo la croce, che è anche un segno della tradizione costantiniana e del ruolo dell’imperatore in ambito religioso; ovviamente per opporsi alla Chiesa di Roma, prendendo le distanze dalla tradizione didattica radicata in Occidente; ma soprattutto per arginare il potere dei produttori e propagatori di immagini sacre, i monaci, tanti, tanto amati dal popolo, ed esenti da ogni tassazione.

Reazioni forse politiche, ma con un forte impatto nella storia dell’arte: Costantino V sostituì nelle chiese di Costantinopoli le scene della vita di Cristo con rapppresentazioni di alberi, uccelli, animali, felini e grifoni. La storia (ossia i testi rimasti di coloro che vinsero) gli rimproverò di aver trasformato le chiese in “depositi di frutta” e “gabbie per uccelli” (Vita Stephani, PG, vol. C, 1112-3), ma è impossible non domandarsi quale influenza reciproca abbiano avuto in questo ottavo secolo le prescrizioni islamiche e le nuove abilità raggiunte dai pittori e dai mosaicisti: non più storia sacra, ma decorazioni animali e vegetali. Non più ritratti idealizzati di santi e imperatori, ma realistiche scene di caccia e giardini, leopardi e pavoni, come nelle stanze accanto del Palazzo dei Normanni, a Palermo, realizzate da maestranze bizantine nel XII secolo.

 

Il Concilio di Nicea II

Dopo la morte di Costantino, Irene, reggente dal 780 per il figlio Costantino VI (che poi deporrà e farà accecare), temendo le conseguenze di una ostinata opposizione a Roma e bramando, una unificazione dell’impero occidentale e orientale sotto il suo dominio, nel 786, convoca il concilio di Nicea, che occupa otto sessioni tra il 4 settembre e il 28 ottobre 787. Le conclusioni, a favore della costruzione, del possesso e della “venerazione” delle immagini sacre, sono una vittoria del mondo religioso in generale contro la politica degli imperatori predecessori di Irene e Costantino: i bizantini presenti sono infatti tutti a favore dell’iconodulia, e i legati del Papa non hanno alcuna difficoltà a far predominare il suo pensiero.

Ci sono pervenuti solamente ventidue canoni degli atti, tra i quali solo cinque sono del tutto nuovi, gli altri infatti riprendono canoni di concilii precedenti: non sappiamo neppure in quale sessione furono promulgati, anche se è possibile ricostruire i temi delle sessioni. Nella quarta si affronta il tema delle immagini nella Scrittura e nei testi dei Padri: si afferma che le Scritture proibiscono le immagini (per esempio in Esodo 20, 3-4 e in Deuteronomio 5,7-10) solo in circostanze particolari, giustificabili storicamente, mentre i Padri hanno lodato le immagini. Gli esempi sono quasi tutti tratti dai libri del cosiddetto Antico Testamento, considerati testi da intendere comunque in maniera figurata, secondo la lettura di Origene e dei Padri Greci, ripresa da Ambrogio e da Agostino. Attraverso la lettura allegorica, nei primi secoli si era risolto il grave problema dell’apparente incompatibilità tra Nuovo e Antico Testamento, che aveva portato gruppi di cristiani (come i Marcioniti, ma anche i Manichei) a rifiutarne l’autenticità o l’ispirazione divina. Un argomento a favore delle immagini è dunque “scientifico”: l’esegesi aiuta a interpretare correttamente le Scritture, a ridimensionare e contestualizzare le proibizioni rivolte al popolo ebraico. A questo si aggiunge un’argomentazione più popolare: i racconti di  miracoli ottenuti per mezzo delle immagini di Cristo, della Vergine, dei santi divengono oggetto di racconti – raccolti negli atti – dal tono spesso acritico e leggendario.

Sempre nella quarta sessione, in cui ci si interroga sulla natura delle immagini, si precisa la fondamentale differenza tra l’atto di adorazione (latreuein) e quello di venerazione (proskynein), il primo dovuto solo a Dio, il secondo riservato ai santi, alla Vergine, agli angeli e alle immagini: a tutte le immagini, quelle di Cristo come quelle dei santi. Tale distinzione è ripresa anche nell’horos del concilio che, dopo aver esortato a innalzare “le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto” nelle chiese, nelle strade e nelle case, ricorda “che si può tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione (proskynesis). Non si tratta certo di una vera adorazione (latreia) riservata dalla nostra fede solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della croce preziosa e vivificante, ai santi Vangeli e agli altri oggetti sacri” (Mansi XIII, 380, cfr. Conciliorum 2002: 136).

 

Immagini dell’umanità, non della divinità

Cristo secondo gli iconoclasti verrebbe ridotto alla sola natura umana da qualunque raffigurazione materiale. Una pittura, infatti, o una statua, qualunque forma di immagine potrebbe solo mostrare il corpo, nascondendone l’anima e, soprattutto, la natura divina. In proposito Nicea sostiene che l’immagine rimanda sempre al “prototipo”: “tanto più quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio dei modelli originali (prototypoi)”, si legge sempre nell’horos, dove si spiega che “secondo il pio costume degli antichi, l’onore tributato all’immagine passa al suo modello”. L’immagine non ha dunque la pretesa di significare tutto il suo modello, ma semplicemente di rimandare ad esso, che viene ricordato, desiderato, onorato. Così l’immagine di Cristo rappresenta il suo corpo, ma non per questo cancella la sua divinità: si tratta infatti di un corpo che Cristo stesso ha scelto di possedere e che è l’unico aspetto del Figlio che si possa raffigurare. Quindi da una parte “il Verbo di Dio ha circoscritto se stesso venendo tra noi nella carne”, e di conseguenza chi lo “circoscrive” dipingendone il corpo lo fa in modo “assolutamente giusto e buono”, perché si adegua a ciò che Cristo ha fatto di sé; d’altro lato “nessuno ha mai pensato di dipingere la sua divinità, giacchè, come dice la Scrittura, ‘Dio non l’ha mai visto nessuno’: per questo egli non può essere dipinto, né visto, né compreso – tranne che nella sua umanità” (Mansi XIII, 668). L’immagine è simile al suo modello “non nella sostanza ma soltanto nel nome e nella disposizione delle membra che vengono dipinte”. Anche quando si dipinge un uomo non si ha certo la pretesa di ritrarne l’anima, eppure, conclude il passo degli atti, “nessuno che sia dotato di senso, al vedere l’immagine di un uomo ha pensato che, attraverso l’arte del pittore, l’uomo venga separato dalla sua anima”.  L’immagine dunque rimanda al modello, come le opere d’arte di Plotino, e rimane di sostanza differente da questo, simile solo nel nome, come nel rapporto che lo pseudo-Dionigi individuava tra dipinto e pittore, ma anche tra persona santa e Dio. Tuttavia l’immagine ricorda il modello e nel mostrare ciò che si può raffigurare, il corpo, richiama ciò che non si può raffigurare, ossia l’anima per l’uomo, la natura divina per Cristo, lo stato glorioso per i santi e la Vergine.

 

Nicea e il cinema

In conclusione, il concilio di Nicea II fu una vittoria della riconciliazione tra Oriente e Occidente in nome della religione cattolica, sostenuta da Roma e dall’ambiente monastico orientale, accettata e appoggiata da Irene, reggente per l’imperatore Costantino VI: un modo anche per prendere le distanze dall’Isl?m e unirsi contro il suo potere militare. Non vi sono dubbi sul ruolo svolto dal secondo Concilio di Nicea nella civiltà occidentale medievale, moderna, post-moderna. La dichiarazione di liceità delle immagini sacre stilata nel 787 dai padri conciliari è universalmente riconosciuta come origine teorica e politica della nostra civiltà delle immagini: da Bisanzio a Hollywood, come si è letto sui quotidiani quando sono apparsi in una nuova traduzione gli atti del concilio.

Ma la diffidenza innescata dai sospetti platonici e dall’assoluto rifiuto delle immagini opposto storicamente da Ebraismo e Isl?m cresce in seno alla cultura occidentale. E se altrove si è detto di una iconoclastia light, che ha assimilato le lezioni di Benjamin e Wharol, che confida nella pochezza di un segno senza aura, ripetibile all’infinito, si deve dire qualcosa di quell’arte effimera che è il cinema. I dubbi di Pirandello, se pur attualissimi e intelligenti, possono ancora essere giudicati parte delle ovvie reazioni alla novità. Per pigrizia e per ricerca di sicurezza, l’umano diffida del nuovo, almeno a parole ha sospettato del cinema, della televisione, del computer, di internet. Ma il cinema, proprio perchè arte e non solo medium, ha fatto qualcosa di più. Nel proporsi ha contemporaneamente celebrato un processo in cui si è dichiarato l’imputato.  Pirandello metteva in guardia: quando le immagini parlano, “la voce viva è in contrasto insanabile con la loro qualità di ombre e turba come una cosa innaturale che scopre e denunzia il meccanismo”. E questa, espressa con innegabile anticipazione sugli studi di genere, è l’iconoclastia propria del cinema, il suo mostrarsi svelando “il meccanismo”, mostrando la costruzione dell’inganno come una bella donna avanti con gli anni che si mostri senza trucco.

 

Il cinema si vergogna e si spoglia

Sempre del 1929 è Celovek s kinoapparatum (L’uomo con la macchina da presa) di Dziga Vertov, documentario muto teso a smascherare l’illusione del cinema, la sua artificiosità, sequenza dopo sequenza, in anticipo di quasi mezzo secolo sui film strutturalisti degli anni Sessanta e Settanta. Lo spettatore non si deve lasciare andare, deve tornare in sè e riflettere sulla storia, aiutato dalla spoliazione del film: la presenza del cineoperatore nell’immagine, film nel film, l’esibito montaggio, lo svelamento di trucchi, dissolvenze incrociate, del ricorso all’accelerato e al rallentato, allo split-screen, alle sovrimpressioni, al movimento rovesciato. Da Vertov a Martin Scorsese del quasi barocco Hugo Cabret (2012), omaggio al meccanismo fantastico del cinema di Méliès, la storia del cinema è anche una storia di intesa con lo spettatore, di “apocalissi” dell’ingranaggio filmico, al fine di indurre un risveglio e di evitare l’identificazione in favore della razionalizzazione. Come se la capacità mimetica del cinema fosse così forte, come mai nessuna altra arte prima, da indurre gli autori a un pentimento. La pittura, la scultura, e anche il teatro, hanno sentito questa necessità etica ed artistica raramente, e soprattutto nel Novecento, quando era posta in discussione la finzione di tutti i media, compresi radio, televisione e, appunto, cinema. Lo stupore magico, invece, con cui furono accolte le prime proiezioni alla fine dell’Ottocento (lo stesso che accompagnava le esibizioni della Lanterna Magica nelle fiere), poneva in scacco lo spettatore e lo sottometteva con immagini e musica, poi anche con parole e rumori, al contenuto del film. Per la facilità con cui avviene questa resa senza condizioni, che Platone avrebbe definito un suprema sconfitta e Aristotele una catharsis di livello inimmaginabile, il cinema si è voluto punire, ha voluto che lo spettatore mettesse in discussione quella sospensione dell’incredulità incredibilmente facile. Vertov era spinto da motivazioni ideologiche (mostrare la vita così come era, senza sovrastrutture culturali o artistiche), ma anche senza aderire a forme di realismo come quello socialista degli anni Venti, i film sul film sono stati tanti, da La Ricotta (1963) di Pasolini a Passion (1982) di Godard, da The Player (I Protagonisti,1992) di Altman a Inland Empire (L’Impero della Mente, 2006) di Lynch, passando attraverso il paradosso di Woody Allen, che denuncia la propria idolatria per il cinema, e alcuni film in particolare, attraverso l’ironia di Play It Again, Sam (Provaci ancora Sam, 1972, regia di H. Ross) e The Purple Rose of Cairo (La Rosa purpurea del Cairo, 1985). Molto dolce, bello e recente è poi The artist (2011) di Michel Hazanavicius, ancora un canto di amore al cinema proprio nel passaggio dal muto al sonoro, come già il capolavoro di Wilder Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950), dove Gloria Swanson-Norma Desmond, già attrice del muto, afferma: “Lo dicevo, che nel cinema c’è qualcosa che non va. È finito, distrutto. Un tempo, col nostro mestiere, gli occhi di tutto il mondo erano stregati da noi. Ma non era sufficiente per loro, oh no!, dovevano impadronirsi anche degli orecchi. Allora aprirono le loro bocche bestiali e vomitarono parole, parole, parole”. Quel teatrante di Pirandello, che smontava impunemente i suoi “personaggi”, giocando con gli spettatori al gioco delle maschere, aveva compreso il pericolo insito proprio in quel passaggio. Mentre sul palcoscenico tutte le maschere si mostrano per quello che sono, artifici cui viene prestato corpo e voce, anche nello smascheramento estremo di Figlia e Padre dei Sei personaggi, durante la proiezione di un film, nella sala buia, la realtà è quella che si muove e parla in trasparenza sul telone. Consapevoli solo dell’atto libero dell’ingresso in sala, gli spettatori aderiscono a quelle ombre e perdono ogni contatto con l’altra realtà, quella della vita vera. Qualcuno ha anche cercato di dimostrare che quella finta sullo schermo forse era l’unica realtà davvero conoscibile (perchè costruita da umani e quindi fruibile da umano intelletto), portando così all’eccesso l’idolatria insita in questa mim?sistroppo perfetta. Ogni generazione, ogni grande regista, si pensi all’Intervista di Fellini (1987) o a The Wild Blue Yonder (L’ignoto spazio profondo, 2005) di Herzog, almeno per una volta ha preso il ruolo che fu di Platone e ha ridimensionato l’entusiasmo del Concilio di Nicea, mostrando al suo pubblico il cinema nudo, perchè non accadesse che gli uomini trovassero comodo quel buio fondo di caverna, belle le ombre proiettate, musicale il rimbombo delle parole.

 

Maria Tilde Bettettini