Ágalma 43 – Lost in Translation Torna al sommario del numero

Sergio Benvenuto La macchina placebo. Traduzione e comprensione


 

 

 

 

Interpretare è mal-interpretare

 

La lettrice o il lettore che ha avuto la ventura di veder tradotto un proprio testo in una lingua che lei o lui sa leggere sarà stato sicuramente colpito da come anche buoni traduttori commettano errori marchiani – errori che un traduttore automatico non commetterebbe. E si sarà accorto che di solito l’errore di traduzione tende a banalizzare il senso del testo originario. Una brava traduttrice tradusse il titolo di un mio articolo “Invecchio, dunque non sono” con “I age, therefore I am”, ha dimenticato “not”. Perché? Perché magnetizzata dal cartesiano “I think, therefore I am”, non aveva mai sentito “I think, therefore I am not”. Insomma, l’errore di traduzione corregge un testo quando devia troppo dalle aspettative, dai sintagmi consolidati. Dissi che se scrivi “La natura imita l’arte”, è probabile che un traduttore scriverà “L’arte imita la natura”. Ovvero, la traduzione tende a essere anti-wildiana, dato che Wilde basa sistematicamente il suo wit rovesciando in modo esatto la frase fatta. Ogni traduttore tende a ri-fare una frase dis-fatta.

Tradurre è uno dei processi di trasmissione di testi e del loro significato. Una trasmissione simile, all’interno della stessa lingua, è la parafrasi. Diamo per scontato che ogni trasmissione implichi un’interpretazione (in tutto il mondo è nota l’espressione italiana “traduttore traditore”), eppure non ne tiriamo le conseguenze più radicali.

Talvolta certi giornalisti mi intervistano e poi mi spediscono la trascrizione – dicono – di quanto ci siamo detti. Resto inorridito: “Ma chi è questo Benvenuto che dice tante banalità? Certamente non sono io”. Di solito il giornalista dice che ha trascritto fedelmente… dice che, se voglio, mi manda la registrazione originale… Insomma, il giornalista non ha capito niente di quello che ho detto, ma crede di aver capito. Non perché quello che dicevo fosse difficile – nelle interviste cerco di essere chiarissimo – ma perché deviava troppo dal suo schema mentale. Questo sfocia in un problema abissale: che cosa significa capire un testo? In effetti, tradurre bene implica capire bene quel che si traduce ma, appunto, ci è chiaro che cosa significhi capire?

Un mio amico laureato in Economia, e che ha una buona preparazione filosofica, pur essendo sempre rimasto un fringe, a cinquant’anni mi dice: “Finalmente capisco i libri che leggo!”. Mio stupore: “Ma non hai passato esami di economia e di filosofia? Tutti i libri che hai letto, non li capivi?”. E lui: “Li capivo a modo mio”. Ho apprezzato la sincerità. Ognuno di noi capisce i testi a modo proprio.

Esiste comprensione senza in-comprensione, senza malinteso?

Tutti noi restiamo interdetti quando alcune persone dalle capacità intellettuali visibilmente limitate si dicono seguaci appassionati di Kant, o di Hegel, o di Wittgenstein, o di Lacan… insomma di autori alquanto difficili da capire. Non millantano, hanno davvero letto con devozione l’autore di cui si dicono incantati, la loro conoscenza filologica dei testi è adeguata, eppure ci chiediamo segretamente: “Cosa può aver capito costui, costei, di pensieri così ardui?”. Ma anche tra i lettori geniali le letture possono essere plurime, spesso contrastanti. Per Heidegger, il neo-kantiano Cassirer aveva capito poco di Kant… E vale questo anche per le teorie scientifiche, le quali dovrebbero essere del tutto trasparenti per gli scienziati di un dato campo?

Ognuno capisce a modo proprio. Questo potrebbe portare a una truce concezione solipsistica, la quale si contraddice però non appena viene comunicata… Se la si esprime, significa che, dopo tutto, non si crede veramente nel solipsismo. Il vero solipsismo è silenzioso. Perciò tante persone, del resto, sono silenziose. Il vero solipsismo è sempre e solo pratico.

Resta però il dato: ogni testo viene interpretato, e quindi sempre anche mal-interpretato.

 

 

La traduzione placebo

 

Da un secolo gli psicologi sociali si chiedono cosa accada nella trasmissione di messaggi (ho analizzato queste ricerche in Benvenuto 2000). Roman Jakobson si chiedeva: se un testo venisse tradotto da una lingua A a una B, e poi dal testo B ritradotto in A a opera di un altro traduttore, e così da A a B e da B ad A molte volte da parte di vari traduttori… cosa resterebbe del testo originario? Sarebbe riconoscibile? Sono convinto che qualcuno avrà anche fatto questo esperimento, ma non so chi e dove.

Alcuni studiosi (cfr. Allport, Postman 1945) si sono chiesti come si formano i rumors, le dicerie, in particolare quelle evidentemente false – dette poi leggende metropolitane, e oggi fake news. Hanno creato “leggende in laboratorio”. A una prima persona si danno, come stimolo iniziale, delle immagini che descrivono situazioni ambigue, complesse: l’immagine viene mostrata per pochi secondi a questo testimone, che ne parla a un secondo, questi poi a un terzo, e così via. Il distorcimento che la descrizione della figura iniziale subisce passando da bocca a orecchio riprodurrebbe in vitro i processi di produzione delle dicerie e fake news. Si è osservato che la deformazione che l’informazione iniziale subisce nel passaggio da bocca a orecchio ha le stesse caratteristiche della deformazione che la memoria individuale fa subire a un ricordo nel corso del tempo. La trasmissione collettiva di testi è come una memorizzazione individuale, ovvero inaffidabile.

I ricercatori notarono che il testo iniziale subisce un appiattimento (quel che ho chiamato prima banalizzazione), un’accentuazione di certi dettagli, e un’assimilazione secondo gli interessi dei partecipanti: “Le abitudini, gli interessi e i sentimenti di coloro a cui una diceria si rivolge esercitano una forza di attrazione sulla diceria stessa” (Allport, Postman 1945: 74). Un’assimilazione consiste nel dare al testo iniziale “la buona forma”, ovvero quella che va bene a me.

Per esempio, nell’immagine iniziale si vede un’autoambulanza che trasporta esplosivo; per lo più, alla fine uscirà fuori “un’autoambulanza trasporta materiale medico”. I dati iniziali vengono “familiarizzati”: per esempio, nell’immagine ci sono alcuni segnali stradali con chilometri, ma i chilometri diventano miglia perché in America, dove l’esperimento si svolge, le distanze sono in miglia. I casi più clamorosi sono quelli di “assimilazione a un pregiudizio”. In un’immagine si vede un uomo di razza bianca che tiene in mano un rasoio e che discute con un nero molto alto. Ebbene, in più della metà dei gruppi (con prevalenza di bianchi) il rasoio finirà nelle mani del nero, e talvolta risulterà che “un nero brandisce in modo minaccioso un rasoio contro un bianco”.

La trasmissione di un’informazione in un gruppo sociale comporta sempre una soggettivazione: ovvero, i dati iniziali vengono piegati alle attese, interessi, speranze, pregiudizi, luoghi comuni, ecc., degli individui. Ogni trasmissione tende a quel che chiamerei placebo, che significa in latino “piacerò”. Come in medicina il placebo cura malattie per il solo fatto di essere somministrato, così la trasmissione di testi bonifica il senso originale per il solo fatto di essere somministrata.

La soggettivazione placebica significa soprattutto consonanza narrativa: l’importante è che la narrazione standard venga sempre confermata. Non si può ammettere che nella favola di Cenerentola, mettiamo, il principe alla fine non sposi Cenerentola ma una delle due sorelle invidiose! Testi e ricordi sono presi in un frullatore egocentrico. Ma non accade questo anche con le teorie filosofiche? Nella trasmissione delle idee filosofiche, non avvengono proprio questi processi, per cui alla fine anche le teorie più eccentriche e sorprendenti diventano quasi-banalità, concatenazioni prevedibili?

Soggettivare un’informazione è trasformare il rumore del mondo in segnale prevedibile, è ridurre la complessità, come dicono i teorici dei sistemi. Soggettivare, ovvero capire qualcosa, è semplificare. E la cosa più semplice è che alla fin fine tutto vada bene per me. Placebo.

 

 

Senso e non-senso

 

Cosa significa “consonanza narrativa”? In verità gli studiosi della mente parlano di consonanza cognitiva (concetto ripreso da Leon Festinger, 2001). Preferisco parlare di consonanza narrativa perché tendiamo a vedere nei racconti e nelle informazioni la buona forma a cui siamo abituati. Per esempio, se consideriamo malvagio un uomo politico, anche quando farà delle cose buone vi vedremo intenti cattivi. E se apprezziamo un uomo politico come buono, se per caso costui fa cose riprovevoli, tendiamo a vederne il lato buono oppure a ignorarle.

La teoria dell’informazione dice che il valore informativo di un messaggio è inverso alla sua probabilità. È su questa base che oggi i programmi automatici di scrittura ci suggeriscono le parole successive più probabili mentre scriviamo. Se scriviamo in una email “auguri di un felice…”, il programma suggerirà “…anno nuovo”, per esempio. Devo dire che, per quel che mi riguarda, due volte su tre il suggeritore automatico indovina. Ma non perché legge la mia mente, indovina perché scrivo cose banali, ovvero il seguito è prevedibile. Ma più il seguito di un messaggio è probabile, meno alto è il suo valore informativo. Per cui quando un traduttore umano sbaglia banalizzando il testo, fa diminuire la forza informativa del testo originario. Qui vediamo che più informazione non equivale a “più senso” come lo intendiamo di solito, anzi il contrario. Se per senso intendiamo ciò che è fin troppo comprensibile, banalità del tipo “la verità è sempre nel mezzo” o “gli estremi si toccano”, il senso è chiaro ma l’informazione è povera. Invece quando Lacan ha creato la frase “amare è dare ciò che non si ha…”, l’enunciato ci colpisce perché le successioni delle parole sono qui improbabili. È talmente improbabile che si dia ciò che non si ha… da tracimare nell’impossibile, da sfidare il buon senso ovvero il senso (che è sempre buon), esondare verso un malvagio non senso. Ciò che la teoria dell’informazione chiama “più informazione” potrebbe essere chiamato “evento più significante”. Ma il significante massimo, l’evento più raro, è non senso.

I linguisti proposero la frase Colorless green ideas sleep furiously come esempio di una frase perfettamente grammaticale ma semanticamente insensata. Jakobson (cfr. Jakobson 1989) fece però osservare che una frase del genere potrebbe essere parte di una poesia surrealista. In effetti il senso di questa frase è problematico, proprio perché ogni parola fa evento qui, ovvero ogni parola successiva è altamente improbabile. Dopo “colorless” nessuno si aspetta il nome di un colore! L’informazione è altissima… perciò non ha senso. Il massimo di informazione è ottenuto quando si scivola nel non-senso, il senso va dissolvendosi man mano che l’informazione aumenta. Ma dopo tutto è quel che fa sempre la letteratura, in particolare la poesia: gioca sulla massima improbabilità delle combinazioni di parole, improbabilità che slitta verso l’ermetismo, anticamera dell’insensatezza. Verso un senso impossibile. Perché, facendo finta di dire, la letteratura vuol dare… la cosa stessa.

L’improbabile, nella teoria matematica delle probabilità, è un convergere asintotico verso l’impossibile (che si scrive: 0 probabilità), è un tendere allo 0. L’impossibile è il sogno iperbolico dell’improbabile. La certezza (si scrive: probabilità 1) è riservata alla scrittura matematica e logica: è il trionfo del senso, in quanto tautologico (è questa la tesi di fondo del Tractatus di Wittgenstein, 1988). Quello che ho chiamato banalizzazione di un testo (che viene considerata spesso sua comprensione) è una galoppata a rotta di collo verso la tautologia.

La trasmissione – quindi anche la traduzione – tende a massimizzare il senso, ovvero la probabilità e prevedibilità del testo. Il senso, ovvero la banalità, è quindi ciò a cui tutti tendiamo quando siamo confrontati alla realtà fattuale di un testo, così come il bambino piccolo tende a rifugiarsi tra le tette della mamma. Quando una persona adulta sente di star morendo, invoca la mamma. La mamma (ovvero la matematica) è la nostra tautologia iniziale e finale.

 

 

Tradurre indici

 

I nostri discorsi e testi devono fare continuamente i conti col non-senso. È il caso di quelli che logici e linguisti chiamano index symbols nella lingua, come: io, tu, qui, , ora, tempo fa. Questi simboli hanno una funzione indicativa, ostensiva, come le frecce in un cartello ci indicano la strada che dobbiamo prendere. Io, ad esempio, non descrive nessuna persona in particolare, indica, come con un dito, il locutore in quel momento. Ora non descrive alcuna epoca particolare, indica il momento in cui io sto parlando. Eppure i simboli sono essenzialmente denotazioni universali. Se dico “il mio tavolo è di legno”, faccio ricorso a simboli universali, “i tavoli”, “il legno”. Il linguaggio parte sempre dall’universale, sperando così di giungere a circoscrivere il particolare. Ma il particolare è sempre al di là del linguaggio stesso, è ciò che il linguaggio cerca di isolare come quando diamo le coordinate di un oggetto nel mare. Ora, gli index symbols sono universali come ogni simbolo, ma designano sempre qualcosa di particolare, insomma eventi.

Simboli-indice sono i nomi propri. Per questa ragione di solito i nomi propri non si traducono. Fui colpito perciò quando, da giovane, un mio amico giapponese, Nishiwaki, mi disse che il suo nome significava Giovanni… Un nome non descrive mai il portatore, meramente lo indica. È vero che spesso si traducono anche i nomi, per rendere i personaggi più familiari. Così Scarlett O’Hara di Gone with the Wind è diventata, nella versione italiana del film, Rossella. Operazione scorretta? No, ha il suo senso. Perché non tradurre allora anche il cognome? Per un orecchio anglofono O’Hara suona come tipico cognome irlandese, e siccome si sa che S. Patrizio è il protettore dell’Irlanda, perché non chiamarla Rossella San Patrizio?

Il linguaggio è violenza concettuale esercitata sul mondo. Ogni simbolo si pretende rappresentante di un’universalità, che è sempre concettuale. Per questa ragione i simboli-indice sono una sfida, anche se marginale, a questo peccato originale universalista di ogni linguaggio. E abbiamo altri simboli inquietanti: le parole straniere che non traduciamo. Sono sempre più parole inglesi, ma abbiamo anche parole di varie altre lingue. Come Stimmung, Leit Motiv, intellighentzia, Soviet, Nomenklatura, mana (polinesiano), movida, bidonville, ecc. Non so se siano significanti veramente intraducibili, tanto più che spesso il senso che vi diamo non corrisponde al senso che i parlanti quella lingua danno oggi a quel termine. Dialogando con intellettuali russi, ho capito che per loro intellighentzia ha per lo più un senso dispregiativo che invece non ha nell’uso italiano della parola. Queste parole restano non tradotte in quanto pensiamo che il loro senso sia incommensurabile con quello di termini italiani affini.

Possiamo dire che questa incommensurabilità è con qualsiasi termine di un’altra lingua. Si prendano termini comuni come love e happy in inglese: è del tutto soddisfacente tradurli con “amore” e “felice”? Eppure se uno dice: “I am happy with my computer” non vuol dire che ha raggiunto la felicità comprando quel computer, ma semplicemente che è soddisfatto del suo computer. D’altra parte se uno dice: “I love Kant”, non vuol dire che si è innamorato di Kant, solo che gli piace moltissimo il pensiero di Kant. E questo lo si potrebbe rilevare per quasi tutte le parole di qualsiasi lingua.

Non traduciamo delle parole non perché non possiamo trovare parafrasi italiane corrispondenti, ma perché le trattiamo come nomi propri: sono casi in cui non è importante solo rendere il significato di un termine, ma anche il suo significante. È come se volessimo non tanto descrivere una persona, ma stampare il suo ritratto. Tradurre fedelmente sarebbe allora non tanto dare il significato di parole-concetti in un’altra lingua, piuttosto rendere il significante stesso come evento non concettualizzabile. Non tradurre il simbolo di un’altra lingua è usarlo come un indice, un nome proprio, una freccia.

Abbiamo detto che la letteratura dicendo vuol dare. Analogamente, tradurre non è al fondo trovare parole che abbiano un senso simile a quello delle parole originali, ma è voler dare i significanti dell’altra lingua. Ovvero, l’ideale di ogni traduzione è… non tradurre niente.

Propongo una traduzione integrale, fedelissima, in inglese di un paragrafo precedente (usando il traduttore Google Translate!):

 

We “non” “traduciamo” “delle parole” not because “non” “possiamo trovare” “parafrasi italiane” “corrispondenti”, but because “le trattiamo” as “nomi propri”: “si tratta” “di casi” “in cui” “non è importante” just “rendere il significato” of a “termine”, but “il suo significante” too. It is as if “volessimo” “non solo” “descrivere” “una persona”, but “stampare” “il suo ritratto” too. “Tradurre” “fedelmente” “sarebbe” then “non tanto” “dare il significato” “di parole-concetti” “in un’altra lingua”, rather “rendere” “il significante stesso” as “evento” “non concettualizzabile”. The fact of “non tradurre” “il simbolo” of “un’altra lingua” is “usarlo” as “un indice”

 

 

La macchina di Morel

 

Il nostro linguaggio è essenzialmente proposizionale, e quindi ci dà un’immagine proposizionale del mondo. Una proposizione è sempre una relazione tra due o più elementi. Se dico “Platone scrisse La Repubblica” metto in relazione Platone, lo scrivere e un libro di filosofia. “Platone” e “La Repubblica” sono simboli-indici, “scrivere” è un simbolo universale. Ma se voglio dire chi è Platone e che cosa è La Repubblica, devo far ricorso ad altre proposizioni… e così via potenzialmente all’infinito. Ma non giungerò mai a Platone stesso, né a La Repubblica stessa, a meno che non resusciti Platone per magia, e che non trascriva l’intera Repubblica anziché darne giusto il titolo. Come si vede, l’impossibilità di dire Platone stesso (un ente reale) e La Repubblica (un insieme di significanti) pone gli stessi problemi: il linguaggio naufraga di fronte al reale, sia la cosa stessa sia un testo significante. Entrambi sono puri eventi, ovvero qualcosa che esiste eppure non è il corrispettivo di una proposizione. L’evento puro è irrelato, mentre la proposizione, il linguaggio, stabiliscono sempre e solo relazioni. Ma sin dall’inizio gli umani si sono posti il problema: come rappresentare, dire, scrivere l’evento? Le proposizioni legano sempre, non slegano mai. L’arte e la letteratura (e la mistica) si sforzano di darci l’evento, lo slegato, anche se devono usare il linguaggio proposizionale, irreparabilmente relazionale e relativista.

Questo vale anche per le arti figurative, che non fanno ricorso al linguaggio proposizionale, ma a forme di riproduzione mimetica delle apparenze. Ora, la riproduzione mimetica non è la cosa stessa. Anche se il sogno di ogni artista è essere come Pigmalione, non darci la mimesis della bella donna ma la bella donna stessa… Questo spiega la sfida dell’arte astratta e della musica: in quel caso l’arte rinuncia alla mimesi delle cose e ci spinge verso il contatto con il quod stesso. Quod artistico, ma sempre quod. L’arte pensa così di darci l’evento, non le sue rappresentazioni.

Bioy Casares (cfr. Casares 2007) nel racconto La invención de Morel ha cercato di soddisfare il sogno pigmalionico dell’arte. Uno scienziato, Morel, inventa una macchina di riproduzione che non si accontenta di riprodurre le immagini visive e i suoni, ma la realtà stessa delle cose rappresentate. Così che le figure “rappresentanti” sono non meno reali, nel senso di solide, delle persone rappresentate. Ma questa rappresentazione delle cose uccide le cose stesse: i personaggi riprodotti sono tutti morti.

Ogni traduzione vorrebbe essere una macchina di Morel letteraria: non dirci il senso o la figura di un testo, ma darci… il testo stesso. Eppure il traduttore sa che è impossibile. Soprattutto quando si tratta di tradurre poesia, ovvero testi che sono tra la prosa e la musica; è come voler tradurre la musica… Ma ogni opera artistica e letteraria vuole essere musica, ovvero, liberarsi della prigione proposizionale.

 

 

Performanza e competenza

 

Oggi le macchine per tradurre hanno raggiunto un grande sviluppo, sono competitive con traduttori umani non bravissimi. Ma solo un turinghiano inflessibile direbbe che queste macchine capiscono il testo che traducono. E questo ci riporta alla questione essenziale: che cosa significa capire un testo (e quindi tradurlo bene)?

Le macchine funzionano con moduli logico-matematici. Da notare che la matematica non si traduce (se non minimamente): come la musica, o la intendi oppure no. Ma cosa significa che un essere umano capisce un’equazione matematica? Non sappiamo che cosa accada nella sua mente, diciamo che la capisce se è in grado di procedere in modo corretto, come una macchina appunto. Oggi, la logica trionfa essenzialmente attraverso macchine di cui tutti ci serviamo. In questo non c’è nulla di offensivo verso i logico-matematici: non è facile pensare come macchine! Di uno che non pensa come una macchina, diciamo che è stupido. Ma tutti ammettiamo che le macchine, anche quando battono i grandi campioni di scacchi, non pensano né comprendono. Allora, quando diciamo che un bambino ha capito un’equazione, cosa vogliamo dire? Che ha acquisito una competenza. Le macchine e il nostro cervello logico non capiscono, sono competenti. Nella linguistica d’oggi (chomskiana) si oppone competence a performance. Mi permetto di sfruttare questa opposizione.

In effetti, man mano che andiamo dal logico-matematico verso il poetico, vien meno la nostra competenza. Costruiamo macchine sempre più “intelligenti”, ma perché nessuno ha mai pensato a costruire macchine che producano poesia? Perché la poesia fa appello a un’incompetenza che non può essere simulata dalla macchina, dato che essa, per definizione, è competente. La poesia esprime qualcosa di intraducibile, qualcosa dell’ordine dell’evento, della performance pura, non della competence. Ogni opera d’arte tende a essere performativa.

Il paradosso è questo allora: che fin quando diciamo che qualcuno “ha capito” qualcosa di logico-matematico, in realtà non ha capito nulla, dato che una macchina che non capisce può comportarsi come e meglio di lui. E quando diciamo che qualcuno (forse) ha capito un’opera estetica o un’idea filosofica, ha capito nel senso che è incompetente… Passare dalla competence alla performance significa misurarsi con l’incomprensibile.

Insomma, capire veramente un testo equivale a cogliere il suo fondo d’incomprensibilità, trovarlo incomprensibile… Perciò se qualcuno mi dice, per esempio, “Freud è molto chiaro!”, so che non ha ancora capito nulla di Freud. Sono cinquant’anni che lo leggo, e lo trovo sempre più incomprensibile.

All’opposto della logica matematica c’è la musica. Ovviamente c’è qualcosa di musicale anche nel linguaggio articolato, la poesia è più musicale – ovvero più incomprensibile – della prosa, per esempio. E difatti si dice che la poesia è intraducibile. Che cosa non è traducibile? La sua musica. Sono colpito quando i miei amici anglofoni di nascita mi dicono: “Ma cosa potete capire voi di Shakespeare?! Nella traduzione perdete tutta la musica del testo!”.

La musica e la matematica si assomigliano perché sono opposte. Ovvero, la musica sfrutta la nostra totale incompetenza. Ho detto che in fondo ognuno di noi ha la sua narrazione, “la buona forma”, il placebo, potrei anche dire che ciascuno di noi ha la propria “musica” (intesa come musicalità dei concetti). Ebbene, la musica ci tocca il cuore quando suscita in noi una profonda dissonanza rispetto alla musica placebica di fondo della nostra vita. La musica ci seduce perché è una stecca nella routine narrativa della nostra vita, essa ci provoca con la sua alterità. Ci libera dalla nostra “musica”, quella placebica. E tutto ciò che nel linguaggio è musicale – anche nelle opere filosofiche che ci seducono per la loro musica concettuale – è come il canto delle Sirene che ci distoglie dalla nostra quotidiana competenza.

Qualcuno ha detto “tradurre una poesia è come farsi la doccia con l’impermeabile”. Sentiamo l’acqua che scorre attraverso l’impermeabile, ma non la sentiamo sulla pelle viva. La traduzione, se è buona, ci fa venir voglia di denudarci al significante.

Certo, capire la musica significa gustarla (ma anche capire una dottrina filosofica equivale a gustarla). E mi chiedo se non la si gusti perché essa ci mette in contatto con l’incomprensibilità dei suoni, ovvero con l’intraducibile. E così con la poesia: ci affascina il suo fare evento, che non ha refrain.

 

L’albero tagliato,

alba irrompe presto

alla mia piccola finestra

(Traduzione di un haiku di Masaoka Shiki, XIX secolo)

 

 

Bibliografia

 

Allport, G.W., Postman, L.J., 1945, The basic psychology of rumor, in Transaction of the New York Academy of Science, n.8, 61-81.

Benvenuto, S., 2000, Dicerie e pettegolezzi, Bologna, il Mulino.

Bioy Casares, A., 2007, L’invenzione di Morel, trad. it. di L. Bacchi Wilcock, Milano, Bompiani.

Festinger, L., 2001, Teoria della dissonanza cognitiva, trad. it. di S. Zecchi, Milano, Franco Angeli.

Jakobson, R., 1966, Aspetti linguistici della traduzione, in Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilman, Milano, Feltrinelli.

Wittgenstein, L., 1988, Tractatus Logico-Philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. it. di A.G. Conte, Torino, Einaudi.