Ágalma 10 – Tropicalismi Torna al sommario del numero

Shuhei Hosokawa – Le due Americhe di Caetano Veloso


Se você tem uma idéia incrível
É melhor fazer uma canção. (1)
(Caetano Veloso, “Língua”)

 

Paese senza nome, nome senza paese

Il volume Verità tropicale di Caetano Veloso è più dell’autobiografia di una matura pop-star. È un opus summum della sua “attività propriamente critico-teorica” che iniziò quando cominciò ad ascoltare la musica di João Gilberto come un “accompagnamento del pensiero”, sebbene l’abbia poi interrotta a causa della sua carriera professionale. Caetano oscilla e ondeggia tra un narcisismo self-narrating e riflessioni analitiche. Nelle oltre cinquecento pagine il suo stile lucido e critico, raro nell’autobiografia di una pop star, conduce i lettori nella sua intimità e nella sfera politica ed intellettuale brasiliana che lo circonda, con un sentimento agrodolce ed un dolore aspro. Il libro narra audacemente l’infanzia, i retroscena, la prigione, la masturbazione, la droga e molte altre cose non seguendo un ordine cronologico ma ciclico.

Gli eventi di tempi e luoghi differenti sono organizzati secondo una struttura stratificata in modo proustiano. Alla maniera della Recherche, il suo libro finisce con la prima pagina dell’introduzione. La ripetizione è ben lungi dall’essere ridondante e ci permette di capire lo stesso punto da diverse prospettive. Io credo che la collaborazione editoriale con José Miguel Wysnick, professore di letteratura e semiotica all’Università di Sao Paulo e compositore-poeta-paroliere, sia stata essenziale per questo stile ben calcolato che soddisfa sia il desiderio voyeuristico della massa sia l’inclinazione intellettuale di lettori qualificati.

In Brasile, alcuni cantanti pop sono impegnati in questo tipo di problemi, mentre altrove ciò è retaggio quasi esclusivo di intellettuali e critici. Nelle loro canzoni, interviste, romanzi (per esempio, Estorvo di Chico Buarque de Hollanda), e anche nella carriera politica (per esempio Gilberto Gil che, prima di diventare ministro della cultura nell’attuale governo di Lula, era stato sindaco della città di Salvador), essi esprimono le loro idee sulla lingua, la poesia, la storia e la religione così come sulla politica e sulla filosofia. Costoro sono intellettuali-artisti “organici” nel senso gramsciano del termine. Un critico ha definito il tropicalismo “una scuola di filosofia applicata”, ma per Caetano è la filosofia ad essere una musica applicata. Lui è tra i pochi che “pensano in musica” (e non solo “alla musica”).

Uno dei temi principali in Verità tropicale è l’America, sia nel senso degli Stati Uniti d’America sia in quello del continente a cui appartiene Caetano. Come collocare l’America nelle Americhe e come inserire il Brasile in America e nelle Americhe sono le questioni fondamentali poste dal libro. Certamente queste questioni non sono originali, anzi sono costanti del discorso nazionalista brasiliano. Gli U.S.A. sono stati normalmente lo specchio nel quale la nazione brasiliana ha riflettuto sulla propria immagine invertita. Da Gilberto Freyre a Darcy Ribeiro, l’argomento su cosa sia il Brasile si serve spesso del “gigante dell’emisfero del Nord” come punto di opposizione del proprio autoritratto.

I due paesi, è stato notato, sono quasi uguali in termini di area e d’importanza politica e culturale, ma opposti in termini di religione, clima, carattere nazionale e così via. Gli intellettuali nazionalisti brasiliani, nel tracciare un contrasto tra i due paesi, spesso deplorano il ritardo della civiltà, dello sviluppo economico e politico brasiliani, mentre vanno orgogliosi della sua spiritualità e della sua democrazia razziale. Caetano saggiamente mette in contrasto gli U.S.A. con il  Brasile, chiamando il primo “un paese senza nome” e il secondo “un nome senza paese”. Il primo combina solamente il nome dell’organizzazione politica (Stati Uniti) con quello del continente (l’America), mentre il secondo prende nome dal bell’albero locale (pau brasil) che gli europei scoprirono ma estinsero in seguito ad uno sfruttamento dissennato.

Questo albero rimane solamente nel catalogo della flora coloniale. “Brasile” come nome generale non ha una vera sostanza. Il nome avrebbe potuto celebrare la natura, però è diventato un simbolo di umiliazione e di depauperazione. Mentre i colonizzatori britannici rubarono il nome di un continente per lo stato che fondarono, i portoghesi, nonostante il bel nome scelto, amministrarono male il loro stato coloniale. Brasile non ha una vera e propria fondazione. Per i brasiliani il paese non esiste in senso pragmatico, ma solo in senso nominale. Il nome Brasile, nella mente dei suoi cittadini, non è bene integrato nella realtà politica, ma ne è staccato. Non è ancorato alla realtà. Per questo il Brasile, come dice Veloso, è un’“immensa isola fluttuante” [imensa ilha flutuante] che è più “irreale” dell’isola di Utopia di Tommaso Moro. L’ideologia nazionale tutta orientata verso il futuro (“il futuro è il Brasile”) è futile nella sua essenza, ma la sua futilità ha dato una fluidità straordinaria alla formazione e alla trasformazione culturale brasiliana.

Caetano prima preferì chiamare il suo movimento “tropicália”, nome che derivava dal titolo dell’installazione di Hélio Oiticica fatta con gli elementi stereotipi tropicali posti in un modo decontestualizzato, piuttosto che “tropicalismo”, che è più giornalistico e che potrebbe essere confuso con il Luso-tropicalismo di Gilberto Freyre. Infatti il nome “tropicalismo” non implica l’“identificazione necessaria con tutta la cultura urbana dell’Occidente”, base per la cultura giovanile emergente nei tardi anni Sessanta. Simpatizzando con la cultura marginale, Veloso criticava Freyre per aver analizzato il Brasile non dal punto di vista della sensala, ma della casa grande (alludendo allo studio classico di sociologia brasiliana di Freyre dal titolo Casa grande e senzala). Dopo le prime esitazioni, Caetano in seguito accettò il nome “tropicalismo” poiché, grazie al suffisso ismo che denota la collettività e l’intenzionalità, si può indicare “una responsabilità per il destino dell’uomo tropicale” e proporre un’etica per il suo movimento. Se la strategia del luso-tropicalismo riguarda il dare sostanza politica al nome, il tropicalismo di Caetano, rafforzando il potere del nome come significante senza significato, continua a far fluttuare il paese in un oceano irreale.

 

Una scoperta ritardata

Verità tropicale inizia con una domanda che Caetano si è posto sin dalla sua infanzia: perché il Brasile fu scoperto nel 1500 anziché nel 1492? Perché non fu scoperto da Cristoforo Colombo? Perché Colombo non se ne accorse durante le sue navigazioni? Infatti la scoperta del Brasile è attribuito a Cabral in seguito al Trattato di Todesilhas, un complotto capriccioso tra i due imperi iberici. Che il Brasile fosse stato scoperto dalle navi che erano partite dal Portogallo provocò nella coscienza storica brasiliana una confusione nei riguardi della sua fondazione. La geografia e la storia nazionale brasiliana, secondo Caetano, fin dall’inizio non sono determinate oggettivamente ma delimitate e inaugurate in modo circonstanziale.

Il ritardato punto-zero brasiliano è trattato in modo umoristico nella canzone, che è un leggero cha-cha-cha, Três Caravelas contenuta nell’album-manifesto Tropicália Ou Panis et Circensis (1968). Si tratta di una parodia della cronaca delle navigazioni di Colombo in spagnolo e in portoghese. Le parole del testo sono in due lingue ad eccezione di una strofa che è solo in portoghese: “Muita coisa sucedeu/ Daquele tempo pra cá/ O Brasil aconteceu/ É o maior, que que há”. In altre parole, il Brasile non è altro che un paese che non fu scoperto da Colombo. La falsa partenza è accennata anche in Tropicalia, il tema musicale d’apertura del primo album di Caetano, Caetano Veloso. Qui si riscrive la leggendaria lettera della scoperta del Brasile al re portoghese che ogni brasiliano impara a scuola (“Tudo que nela se planta, tudo cresce e floresce…”) in un’allusione alla costruzione di Brasilia, un monumento per il “paese del futuro”: “Sobre a cabeça os aviões/Sob os meus pés os cominhões/ Aponta contra os chapadões meu nariz”. Qui il cantautore fa ingegnosamente un collegamento tra l’inizio storico e il futuro monumentale (e perciò elusivo) del Brasile.

Queste strofe di apertura di Tropicalia sono seguite da riferimenti ad una campagna politica, ad una canzone nostalgica, ad uno spettacolo televisivo di bossa nova, alla letteratura romantica di José de Alencar, ai westerns italiani, al cinema francese e ad altre cose eterogenee (Favaretto 1995, pp. 59-68). L’enumerazione disparata e la totalità frammentata della canzone costruiscono un’“allegoria del Brasile” (Roberto Schwartz) o il caos carnascialesco: l’estrema povertà e il lusso estremo convivono come la continuità e discontinuità storica, l’ingiustizia sociale e la felicità transitoria. La giustapposizione e l’inversione del classico e del contemporaneo, la parodia dell’avanguardia e la cultura di massa sono divenuti gli aspetti più salienti del tropicalismo iconoclasta. Il riferimento alla musica pop era associata alla pop art (l’uso sperimentale di oggetti e di icone readymade, la contestazione dell’establishment e la complicità con il mercato, con i media e con la tecnologia) più che alla musica popolare di sapore americano.

 

Elvis, Marilyn, Cage

Il primo capitolo di Verità tropicale s’intitola “Elvis e Marilyn”. Non sarebbe difficile evocare Warhol, sebbene nessuna di queste icone americane degli anni Cinquanta fosse tra quelle favorite da Caetano nella sua adolescenza. Si avvicinò ad esse solo successivamente grazie alla pop art. Nel 1967 quando il tropicalismo stava emergendo come un nuovo movimento giovanile, Caetano conobbe artisti pop americani alla Biennale di São Paulo come Edward Hopper e colse il significato delle sue escursioni ai supermercati. Nello stesso anno, arrivò alla televisione, allargando le sue attività da un piccolo cerchio di avanguardia. La pop art, insieme alle teorie della comunicazione e della cultura di massa (McLuhan, Eco, Moles, Barthes…) ratificarono e incoraggiarono le interazioni tra culture alte e basse, nonché un uso creativo delle icone di massa del tropicalismo, come è evidente dai riferimenti a Claudia Cardinale, Brigitte Bardot, Superman, Batman, Coca-cola (l’esempio più chiaro sarà “Bat Macumba” di Gilberto Gil, un gioco fonetico e sillabico di tipo beckettiano con la combinazione delle parole Batman e Macumba).
Per quanto riguarda la musica, un simile “bricolage intellettuale” (Augusto de Campos) deve molto al compositore-paroliere Rogério Duprat, che collaborò agli album di Caetano, Gil e Mutantes nei loro anni anarchici. Attraverso l’esagerazione di tonalità romantiche, l’inserimento di un falso folklorismo e di orientalismo, l’impiego di dissonanze, la citazione dell’inno nazionale ed altri espedienti, Caetano è andato ben oltre l’estetica accettata della musica popolare.

Mai prima nella storia della musica brasiliana era avvenuto un così drammatico collasso della distruzione tradizionale tra música erudita e música de consumo come negli album tropicalisti. Egli spiega che non portava in studio le partiture già terminate, ma interrogava, provava e lavorava intensamente con gli autori-cantanti-musicisti (Favaretto 1995, p. 37). Naturalmente, alcuni l’hanno chiamato il George Martin del tropicalismo (l’album Sgt. Pepper’s dei Beatles è stato spesso citato come punto di riferimento per dimostrare la creatività degli album tropicalisti), ma il suo sarcasmo amaro diretto contro la chiesa e il governo si avvicinano molto di più all’atteggiamento di Frank Zappa.
I tropicalisti hanno nutrito avversione verso la serietà “anti-liberale” dell’“avanguardia istituzionalizzata” (Augusto de Campos 1968, p. 204) e hanno scelto una “mescolanza col consumismo”.

Un happening eloquente per dimostrare la loro tendenza verso il consumismo fu organizzato nel 1966, all’inizio dell’esplosione tropicalista, nella Segunda Semana de Música di Vanguarda tenutasi nel Teatro Municipal di São Paulo. Mentre veniva eseguita l’opera per due orchestre di Iannis Xenakis, Stratégies (il duello tra le due orchestre è un pezzo matematicamente stimolante), tre uomini presero posto sul palcoscenico cantanto “Juanita Banana”, una canzone popolare di “cattivo gusto”. Questi erano Rogério Duprat, il compositore elettronico Willy Corrêa de Oliveira e il poeta concreto Décio Pignatari. Duprat e Pignatari erano membri del MARDA (Movimento di Arregimentação Radical em Defesa da Arte), un’organizzazione informale di eventi di São Paulo (come il Fluxus di New York). Questo incidente premeditato, con la complicità del conduttore Túlio Medalha (l’arrangiatore dell’album Caetano Veloso), voleva mettere in discussione che il lavoro altamente impegnativo di Xenakis potesse essere funzionale solo nello spazio acustico puritano di una sala di concerto. Il suo concetto di “caso controllato” vale solo di fronte ad un pubblico indifferente. La loro azione non voleva disturbare la performance, ma introdurre un altro tipo di operazione aleatoria l’improvvisazione con materiale volgare (cfr. il saggio di Medalha ristampato in de Campos 1968, pp. 211-17).

Prima che la pop art e gli happenings fossero introdotti in Brasile, Caetano fu presente ad un incontro inaspettato della musica sperimentale con la cultura di massa. Era il 1961 o ’62 quando David Tudor eseguì un pezzo di John Cage preparato per il pianoforte e per la radio all’università di Bahia, dove studiava letteratura. Quando Tudor accese la radio, seguendo la partitura del compositore, questa trasmise una voce familiare che diceva “Radio Bahia, Cidade do Salvador”. La sala fu, tutto ad un tratto, inondata da una fortissima risata. Uno spazio serio e solenne fu trasformato in un carnevale. Il nome di Tudor quindi si fissò nella memoria di Caetano. Provocare costituisce senz’altro una caratteristica estetica di Cage e le sue biografie riportano molte performances piene di risate, fischi, esplosioni di rabbia e allontanamento del pubblico. Ma non è esaltante la risata eccezionale? Il potere contagioso e affermativo della risata contraddice l’atmosfera ermetica di un concerto d’avanguardia? Il futuro cantautore dovrebbe imparare che ogni tipo di avanguardia può trasformarsi in una burla; inversamente, ogni burla può diventare arte.

 

Yes, Nós Temos Bananas”: Chacrinha e Cafonismo

A differenza della maggioranza degli artisti pop (Velvet Underground, Mothers of Invention, Can, Gong e Area, giusto per menzionarne alcuni), i tropicalisti vennero spesso invitati a spettacoli televisivi, dato che non temevano la “contaminazione” della volgarità di massa, né la critica di coloro che deploravano il loro modo di “svendersi”. La televisione brasiliana, in cambio, non esitò a presentare gli spettacoli bizzarri e esotici dei giovani “ribelli” (con la dovuta tolleranza). I mass media li trattarono più come un nuovo aspetto della musica e della moda che come artisti radicali. Nel 1968 la partecipazione di Caetano allo spettacolo televisivo più famoso e popolare del momento (che “nessuna casalinga perdeva”, dice Caetano), condotto dallo stravagante presentatore Chacrinha, fu talmente polemica che sembrò che avrebbe perso molti dei simpatizzanti del tropicalismo, compreso quel giornalista che per primo nominò il movimento tropicalista. La sua aspettativa che i tropicalisti potessero smantellare l’establishment sembrava essere tradito dal fatto che Caetano si mostrava perfettamente addomesticato dalla televisione.

Durante il programma dal titolo “Noites da Banana”, Caetano interpretò “Yes, Nós Temos Bananas” (una risposta brasiliana ad una canzone di Tin Pan Alley “Yes We Have No Bananas”), indossando una tunica con motivi di banane. Durante lo spettacolo si svolse una gara tra chi riusciva a mangiare più banane durante il programma, e chi piantava più banani camminando sulle proprie mani.
Al contrario di coloro che lo accusavano di prostituirsi per la televisione, Caetano era consapevole del significato della sua stupida presenza nella cultura di massa e dell’estetica allegorica della banana. In Chacrinha trova anche l’anarchismo, la libertà, l’assurdità e l’energia di Harpo Marx, definendo lo spettacolo come “un’esperienza dada delle masse”. In altre parole, la stupidaggine e la provocazione proprie del movimento underground degli anni 1910-20 erano state improvvisamente canalizzate attraverso il mezzo più efficace, appropriandosi della farsa e presentata in maniera ossessiva dal presentatore. Il programma, con un altissimo indice di ascolto, era un carnevale mass-mediatico dove si scontravano il controllo della trasmissione, gli sponsors e la personalità esplosiva del presentatore.

Per la sua apparenza grottesca e le sue barzellette irrilevanti, Chacrinha rappresentava il “cattivo gusto”, ciò che in portoghese si intende col termine cafona, che corrisponde più o meno a camp nella cultura statunitense, e più in generale al kitsch (sebbene i brasiliani insistano che cafona sia intraducibile). Rogério Duprat elogia il cafona come “l’anima dei brasiliani” in quanto corrisponde all’adattamento contemporaneo della tradizione barocca brasiliana: l’inclinazione verso il grottesco, il mostruoso, il distorto e il perverso. Per esempio, egli arrangiò “Coração Materno” (in Tropicalia), una canzone melodrammatica degli anni Trenta, in uno stile iperbolicamente sentimentale (sebbene con una dissonanza intenzionale), che consisteva nell’adottare lo stile “epico” (in termini brechtiani) in opposizione allo stile “culinario” del cantante Vicente Celestino. Anche il suo arrangiamento per “Baby” intensificò l’aspetto sdolcinato oltre ogni misura come se avesse a che fare con la “vera saccarina”. Questi esempi dimostrano come Rogério Duprat riuscì egregiamente ad inserire il cafonismo nei suoi arrangiamenti.

L’estetica barocca nel contesto latinoamericano si formò attraverso una serie di deliberate operazioni non solo appropriandosi, ma addirittura esagerando ad oltranza lo standard estetico europeo. Così facendo, gli artisti locali, imitando e prendendo in giro il buon gusto del colonizzatore, espressero la loro ambigua posizione nei confronti dell’arte europea. Il cafona è considerato come una storpiatura popolare (e populista) del barocchismo, impiegata nelle feste popolari come il carnevale. Proprio come il camp nella pop art americana, essere cafona ha una doppia faccia: volgare ma distinto, scadente ma eccitante. Per l’artista intellettuale, la partecipazione al cafonismo significava esporre questa ambiguità alla massa. Inoltre, devo aggiungere, il cattivo gusto faceva parte dell’estetica del movimento di controcultura (soprattutto quello psichedelico e degli hippies).

Il cattivo gusto (che sia camp o qualsiasi altra cosa), in cui credeva la gioventù ribelle, virtualmente possedeva un potere sovversivo che metteva in ridicolo e distruggeva il gusto borghese. Perciò i tropicalisti adottarono entrambe le sensibilità americana e brasiliana per sfigurarle. Durante lo spettacolo di Chacrinha, Caetano ridicolizzava se stesso e il suo costume (quest’ultimo ereditato dalla tradizione carnevalesca), mettendo in scena la stupidità come richiestogli dal direttore dello show.
La banana è certamente uno degli stereotipi tropicali più diffusi e carichi di significato erotico ed esotico dell’emisfero settentrionale. Essa perciò si trasforma facilmente in cafona quando viene presentata nello spettacolo. Il mass appeal di “Noites da Banana” dimostra come il “Brasile sarà esotico non solo per i turisti ma anche per i brasiliani”. La banana diventa per i brasiliani un esotismo auto-referenziale così come gli stravaganti cappelli di Carmen Miranda addobbati con frutti esotici; entrambi sono segni estremamente visibili di cafonismo.

Caetano (e la sua generazione) sono stati ambivalenti nei confronti di Carmen Miranda. I tropicalisti non riuscivano a celebrare a braccia aperte il suo enorme successo nel showbusiness americano. Al contrario, il loro orgoglio di brasiliani fu molto danneggiato dai suoi gesti stupidi, allegri, sexy, svolazzanti e “latini” confezionati per il desiderio e l’immaginazione nordamericana. Nella sua canzone “Disseram que eu voltei americanizada”, fece appello al pubblico brasiliano dicendo che non aveva mai venduto la propria anima per i dollari, non aveva mai detto “I love you”, era nata con la samba e amava la tipica cucina brasiliana. Nonostante la sua dichiarazione di identità brasiliana, i suoi compatrioti non perdonarono a Carmen Miranda la sua “americanizzazione” (cfr. il film documentario Banana Is My Business di Helena Solberg). Il riferimento al nome di Carmen in “Tropicália” (“Carmen Miranda, da-da, da-da”), spiega Caetano, era “una bomba da parte dei guerriglieri tropicalisti” nei confronti dell’oblio generale seguito al suo funerale monumentale (e mass mediatico) svoltosi a Rio tra il pubblico brasiliano. Anziché fornire un’immagine falsa, gli stereotipi potrebbero almeno rivelare un aspetto (tra i molteplici) di verità che il Brasile non era stato in grado di comunicare all’estero. L’autoesotizzazione poteva rigirare l’ordine epistemologico dell’alterità. Questa idea echeggiò con Hélio Oiticica, il fondatore del concetto di tropicália. La banana non dovrebbe essere rifiutata come un semplice espediente, ma accolta (o “mangiata”) obliquamente (ossia, con una mente e uno stomaco critici) come un’allegoria del Brasile. Il modo in cui i nordamericani vedono i brasiliani diventa una parte dell’autoconsapevolezza tropicalista. L’alterità dell’altro è perciò integrato (e digerito) nella loro identità (e nei loro organi).

 

“You have to learn English”: dal luso-nazionalismo all’anglo-universalismo

Per coloro che erano appassionati dei Beatles e dei Rolling Stones, il suono della lingua inglese aveva un significato speciale, nonostante i versi fossero semanticamente incomprensibili. L’aspetto fonetico delle canzoni, per quanto riguarda l’estetica rock, è così profondamente impregnato nell’integrità del suono del gruppo che le versioni cover in altre lingue, che erano state frequenti per le canzoni pop in tutto il mondo, divennero opache imitazioni. Proprio come in Giappone e in Italia, i gruppi beat brasiliani (“Jovem Guarda” o “iê-iê-iê-”) preferirono nomi di gruppi e canzoni inglesi, che sembravano più autentici di quelli portoghesi. L’“invasione della lingua inglese” appartenne all’americanizzazione al livello globale dello stile di vita della classe media. Caetano si ricorda del potere commerciale e del dominio dell’inglese in quel periodo: “la radio brasiliana trasmetteva più canzoni in lingua inglese che in portoghese, e i prodotti, le pubblicità, le compagnie commerciali usavano l’inglese nei loro packagingslogans e insegne”.

Sulla copertina del suo primo album, Caetano inoltre osservò che coloro che non volevano andare negli Stati Uniti erano senza speranza e che il portoghese era insufficiente per la musica di protesta che egli intendeva realizzare. Un contrasto così ideologico tra l’inglese universale e la lingua nazionale particolare si poteva osservare tra molti gruppi rock in paesi non anglofoni. Scrivere versi in inglese per la canzone originale divenne un nuovo esercizio nella pratica musicale di coloro che aspiravano alla fama internazionale o quanto meno alla comunicazione. L’uso dell’inglese è inerente alla critica dell’aspetto provinciale della propria lingua. Essi credevano che l’inferiorità della musica popolare nazionale derivasse dal limite linguistico. Caetano accenna al fatto che una delle sue canzoni cantate in inglese (“Lost in the Paradise” dal suo secondo album) era intesa per manifestare la sua povertà e solitudine di essere un brasiliano per gli “interlocutori immaginari che si trovavano nel mondo esterno” (p. 435). Il mondo di qua era chiuso e quello di là era aperto. Entrambi erano divisi dalla lingua. Ma il suo messaggio da un paese lusofono al mondo anglofono sembra l’ultimo messaggio in una bottiglia di vetro scritto da un naufrago su un’isola deserta. L’album in questione ebbe una scarsissima circolazione fuori dal Brasile e la canzone fu nota solo a coloro che la comprarono. Le canzoni inglesi composte da artisti non-anglofoni hanno di solito un piccolissimo pubblico. Nonostante tutti i suoi pensieri pieni di speranze, il suo dialogo rimase “immaginario”.

Ma Caetano non si limitava semplicemente a credere nella superiorità della lingua inglese: era consapevole del significato sociale che aveva assunto in Brasile. Per esempio, in “Baby”, da Tropicália, un ragazzo chiama la sua ragazza baby e le consiglia di informarsi sulle parole piscina, margarina, gasolina, sorvete e lanchonete. Ritmando con nonchalance, la canzone enumera gli oggetti di maggior consumo giovanile nel Brasile urbano degli anni Sessanta. La tentazione per un tipo di vita facile è rafforzata dalla citazione della canzone “Diana” di Paul Anka e dai riferimenti a “Carolina” (la canzone romantica di Chico Buarque) e a Roberto Carlos (in una versione successiva di Gal Costa, “Diana” fu cambiata in “Bahiana”, brasilianizzando l’immagine pop americana). Uno dei consigli di Caetano è di imparare l’inglese. Questa lingua non si limita ad essere una cultura, ma include tutte quelle attrazioni simili alla piscina, all’automobile e al gelato. Si tratta tanto di uno strumento per un “suono universale” quanto di una merce per il consumo immediato.

I tropicalisti chiamarono euforicamente la loro musica un “suono universale”. Tuttavia questa non era stata creata con l’intenzione di essere “internazionale” (l’equivalente di “anglofona” in un certo contesto), bensì per essere sensibili alle potenzialità della pratiche culturali brasiliane dell’incrocio razziale. In opposizione al luso-nazionalismo, che ideologicamente preserva il purismo culturale del samba, rifiutando gli aspetti “forestieri” (estrangeirismo) del bossa nova, e al Jovem Guarda, che replica i suoni americani e inglesi, i tropicalisti “mangiarono i Beatles e Jimi Hendrix”, esprimendo in tal modo la singolarità dell’incrocio razziale brasiliano, l’esempio migliore del quale è, secondo Caetano, la musica di João Gilberto. Il mangiare non è meno influente di altre forme di contagio registrate in molti luoghi e artisti. Per esempio, mangiare i Beatles, secondo il dizionario tropicalista, significa non solo associarsi al suono della chitarra elettrica diffuso in tutto il mondo, ma anche deformare l’estetica del rock britannico secondo il milieu locale e (re)inventare una musica simile, ma nello stesso tempo stranamente differente (un esempio eloquente è “Chuckberry Fields Forever” di Gil). Essi “cucinarono” la musica anglofona per creare una musica “americana” nel senso di musica per le Americhe.

La metafora del divorare è diventata un tema ricorrente dei discorsi nazionalistici brasiliani dal Manifesto Antropófago di Oswald de Andrade (1928) in poi; si tratta di un grido introspettivo per dare un’impressione modernista del Brasile, che andava contro quegli intellettuali che conservavano una mentalità da diciannovesimo secolo; essa sovvertiva la famigerata pratica degli indigeni brasiliani, nota in Europa sin dal secolo XVI, trasformandola per sintetizzare l’intero processo di formazione culturale brasiliano. Ancora una volta, come nel caso dell’allegoria della banana, l’etichetta negativa viene semanticamente rovesciata. Entrambi Oswald e Caetano credono che il cannibalismo culturale possa trarre in salvo il sottosviluppo o il ritardo del Brasile (rispettivamente l’isolamento dal modernismo europeo e dalla musica rock anglofona). Essi ne sono consapevoli. Per loro, la deglutinazione di padre Fernandes Sardinha da parte degli indios fu la “scena inaugurale della cultura brasiliana, la vera fondazione della nazionalità”. Ma la storia successiva del Brasile fu scritta non solo dal mangiatore, ma anche da coloro che erano stati mangiati e che più tardi massacrarono e fecero sparire i mangiatori.

 

Il ritratto in bianco e nero

La razza costituisce senza dubbio uno degli argomenti persistenti nei discorsi comparativi tra il Brasile e gli Stati Uniti. I nazionalisti brasiliani generalmente mettono in evidenza come la storia dell’incrocio razziale dimostri la tolleranza e la democrazia del Brasile in contrasto con la segregazione e la separazione degli Stati Uniti. Sebbene tale visione auto-celebrativa deve essere accettata con le dovute cautele, i brasiliani non prescindono dal concetto di razza nelle loro analisi su se stessi. Caetano chiaramente adotta il paragone tra le due nazioni in Circuladô Vivo (1993). Egli interpreta “Black or White” di Michael Jackson (“It don’t matter if you’re/ Black or White”), seguito dai suoi “americani”: “Para os Americanos branco é branco, preto é preto/ (e a mulata não é tal)”. La dicotomia razziale americana è estesa a quella sessuale e economica: “Bicha é Bicha, macho é macho/ mulher é mulher e dinheiro é dinheiro”. Ma queste determinazioni nordamericane semplicemente non funzionano in Brasile, dove

a indefinição é o regime
E dançamos com uma graça cujo segreto nem eu mesmo sei
Entre a delícia e a desgraça,
Entre o monstruoso e o sublime.

Tuttavia gli “americanos” sono anche radicalmente indefiniti:

Americanos pobres na noite da Louisiana.
Touristas ingleses assaltados em Copacapana.
Os pivetes ainda pensam que eles eram americanos
Turistas espanhóis presos, no aterro do Flamengo
Por engano
Americanos ricos já não passeiam por Havana.

Per “Americanos”, le bande di strada di Rio de Janeiro intendono tutti i turisti bianchi e la distanza tra la Louisiana e Havana è insormontabile. La categoria nazional-razziale di “americanos” è talmente ambigua e traditrice che gli “Americanos não são Americanos”. Ma i brasiliani non sono americani?
Caetano non si limita a lodare la “grazia” brasiliana come farebbero i luso-tropicalisti, ma critica anche la miseria e la povertà che essa nasconde. Sebbene sia meno esplicito per quanto riguarda le leggi e la suddivisione delle zone urbane, il Brasile, secondo Caetano, continua ad essere spaventosamente razzista. Tra le canzoni che hanno descritto il conflitto razziale in Brasile, nessuna lo ha fatto meglio di “Haiti”, una collaborazione tra Caetano e Gil in Tropicália 2. La strofa di apertura si occupa di un tumulto avvenuto nel Pelourinho, una zona povera (e quasi completamente nera) ma altamente turistica della città di Salvador.

… a fila de soldatos, quase todos pretos
Dando porrada na nuca de malandros pretos
De ladrões mulatos e outros quase brancos
Tratados como pretos
Só pra mostrar aos outros quase pretos
(Que são quase todos pretos)
Como é que pretos, pobres e mulatos
E quase brancos, quase pretos de tão pobres são tratados….
Ninguem é cidadão”.

È difficile vedere quali parole modifichino l’avverbio ripetuto “quase” in questa melodia rap dall’aria sinistra. La cosa importante è che mentre il colore della pelle è indefinito in Brasile, il pregiudizio razziale e l’ingiustizia esistono.

 

Manhattan/Manhatã

Verso la fine degli anni Ottanta, Caetano spostò la sua base a Manhattan. Nonostante ritenga gli Stati Uniti come un’inversione del Brasile (seguendo così la tradizione intellettuale brasiliana), egli tratta New York a parte. Quando visitò questa “capitale sassone dell’impero mondiale”, si sentì più rilassato che nei paesi iberici e europei, Italia compresa. Nessun altro luogo poteva dargli quella sensazione “di trovarsi nel territorio americano”, che avvertiva a Rio, São Paulo, Bahia e Santo Amaro (il suo luogo di nascita nello stato di Bahia). Per Caetano, Manhattan costituisce il nesso per unire il paese senza nome con il nome senza paese. A Manhattan trova la “realtà fatalmente meticcia”, a cui era abituato in Brasile. Scopre che il poeta romantico brasiliano Sousândrade (Sousa de Andrade) chiamò quest’isola “Manhatã” nel suo “Inferno de Wall Street”. Questa nuova parola sembra provenire dalla lingua tupi (i Tupi furono il principale gruppo indigeno del sud-ovest del Brasile prima della colonizzazione e simbolo del Brasile pre-cabraliano). Il toponimo, alla maniera di Proust, riporta alla luce lo strato arcaico della memoria finito sotto i grattacieli. Nonostante vi siano moltissime canzoni su Manhattan, “Manhatã” di Caetano sembra l’unica che rievochi il panorama prima dell’arrivo degli anglosassoni con una sola parola, ossia “canoa”:

Uma canoa canoa
Varando a manhã de norte a sul
Deusa da lenda na proa
Levanta uma tocha na mão
Todos os homens do mundo
Voltaram seus olhos naquel direção
Sente-se o gusto do vento
Cantando nos vidros o nome doce da cunhã: Manhattan, Manhattan…(“Manhatã”, Livro 1997).

La parola cunhã (ragazza) deriva dal tupi e fa ritmo con Manhattan/Manhatã. I grattacieli sembrano capanne, la Statua della Libertà sembra un totem della tribù. L’“America” perciò è ancora segretamente posseduta dagli indigeni. Nella sua lettura alternativa di Manhattan/Manhatã, Caetano vede l’“America” arcaica, prima della divisione tra gli Stati Uniti e il resto.
Attingendo alle poetiche di Oswald de Andrade e altri modernisti, Caetano ha adoperato il tropo “indio” per evocare l’Ur-America. L’anima dell’indigeno è onnipresente anche dopo il massacro europeo, che sopravvive nella materia, nei sensi e nei gesti:

Um indio preservado em pleno corpo fisico
Em todo sólido, todo gás, todo líquido
Em atomos, palavras, alma, cor, 
Em gesto, em cheiro, em sombra,
Em luz, em som magnifico… (“Um indio”, Bicho, 1977).

Questo “indigenismo” è ben lontano dal regionalismo e folclorismo del romanticismo del diciannovesimo secolo (cfr. Iracema di José di Alencar, in cui il nome del ruolo femminile è composto secondo l’anagramma “America”; l’opera I Guarani di Carlos Gomes mostrato in anteprima alla Scala), ma è stato sequestrato dalla cultura di massa contemporanea. L’indio di Caetano è: “impávido como Muhamed Ali… tranqüilo e infatível como Bruce Lee”. Questa caratterizzazione è un altro esempio della mescolanza tropicalista dell’arcaico con il contemporaneo, del mistico con il camp, del soprannaturale con il materiale.

Una ragazza tupi si trascina lungo Manhattan nella canoa – questa visione smentisce lo schema culturale dell’“America e il resto”, sovrapposto alla dicotomia politica dello stesso genere (l’impero mondiale di modello americano). L’ultimo capitolo di Verità tropicale critica Lo scontro delle civiltà di Huntington in quanto questo bestseller limita l’Occidente ai paesi bianchi benestanti. Lo schema di Huntington è una variante del vecchio tema dell’imperialismo. Il modello di Huntington sfocia nella teoria semplicistica dell’“imperialismo culturale”, secondo il quale l’americanismo invade unilateralmente i territori culturalmente passivi. Questo discorso troppo rozzo perde di vista le potenzialità della fluidità culturale e dell’incrocio razziale, le cene antropofaghe e le cerimonie. Non esistono frontiere culturali fisse e definite, come sostiene Huntington. La critica dell’impero mondiale da parte di Caetano è evidente nella già menzionata canzone “Americanos”. Si canta che gli “americanos são muito estatísticos” e che il loro sguardo riesce a penetrare in ciò che vedono, ma non nella loro profondità. A causa di questo carattere estroverso, sono riusciti a dominare l’economia mondiale: “E assim ganham-se, barbanham-se, perdem-se, / Concedem-se, conquistam-se direitos”.

Nel conferire una centralità alla zona temperata nella sua mappatura della civilizzazione, Huntington non capisce il “ruolo sottile” della zona tropicale che rinnoverà la filosofia, l’etica e la sensibilità nata nella zona temperata. Il tropicalismo mette in evidenza la singolarità del Brasile, l’eterna indefinizione tra “l’alleato naturale degli Stati Uniti nella sua strategia internazionale”. Ci conduce inoltre alla tensione tra l’immensità geografica e la solitudine linguistica del Brasile. Anziché sottomettersi alla cultura americana, i tropicalisti la “mangiano” e deliberatamente non la digeriscono per creare un’alternativa che nessun altro potrebbe fare. Il tropicalismo è un’“inevitabile fantasia” che consente di fluttuare e danzare con grazia e disgrazia sotto la pressione della zona temperata. Esso insinua la responsabilità del destino dell’uomo tropicale.

di Shuhei Hosokawa

(Traduzione dall’inglese e dal portoghese di Sarah F. Maclaren)

 

 

Note

1 “Se hai un’idea incredibile / è meglio fare una canzone”.

 

 

Bibliografia

Calado, C., 1997, Tropicália. A História de uma Revolução Musical, São Paulo, Editora 34.
De Campos, A., a cura, 1968, Balanço da Bossa e Outras Bossas, São Paulo, Perspecitva.
Favaretto, C., 1995, Tropicália Alegoria Alegria, São Paulo, Ateliê.
Fonseca, H., 1993, Caetano. Esse Cara, Rio de Janeiro, Editora.
Veloso, C., 1997, Verdade Tropical, São Paulo, Companhia des Letras; trad. it., 2003, Verità tropicale, Milano, Feltrinelli.