Dario Russo – Schizzo fluido. Ondulazioni del design


In un recente lavoro sulla grafica digitale, mi capitava di segnalare l’emersione di una scrittura dinamica e fluida, aliena dal rigido dogmatismo del design svizzero-tedesco di stampo modernista (Scuola svizzera o International Typographic Style): una Free Graphics (Russo 2006). E osservavo che la stessa fluidità abbraccia vari ambiti di progetto, scivolando dall’architettura al product design, dal visual al testo, sullo sfondo di una Modernità liquida, non più solida come un tempo, ma ormai “liquefatta” fin nei suoi stessi meccanismi di funzionamento (Bauman 2002). Vale la pena aggiungere qualche altra notazione. Infatti nella terza fase della rivoluzione industriale, quella “post-industriale” in cui viviamo, sembra che non vi siano pedane inamovibili, e neppure appigli sicuri; bisogna adeguarsi velocemente ai processi di cambiamento – più mutevoli del fiume di Eraclito – e cogliere come tutto ciò sia collegato alla tecnologia digitale. Alla riduzione geometrica dell’”estetica meccanica” (una delle fondamenta su cui si basava la “modernità solida” del Movimento moderno), segue un’estetica fluida, che corrisponde ai processi post-fordisti e post-industriali del digitale: decisamente agili.

Intorno a noi pullulano oggi oggetti gommosi, sinuosi e iridescenti. Il futurologo Bruce Sterling li chiama blobject: “oggetti modellati al computer e ricavati industrialmente da una sostanza collosa soffiata: creazioni di plastica arrotondate, irregolari, gibbose, spesso translucide. Per quanto siano semplicemente dei prodotti, i blobject tendono a essere polposi, pseudo-vivi e seduttivi: gommosi, facilmente afferrabili, flessibili, palpabili, tutti da accarezzare e da coccolare” (Sterling 2004, p. 67). Allo stesso modo, sul piano – sempre più sfaccettato – della comunicazione visiva, circolano caratteri, non più tipografici ma digitali, altrettanto fluidi, spesso incompatibili con le classificazioni ortodosse (“romani”, “lineari”, “egiziani” e via dicendo). Questi “tipi” digitali sono naturalmente meno leggibili di quelli tradizionali, ma la loro ragione d’essere, a parte il piacere di vederli guizzare sulla pagina (quando non fluttuano su schermi e display), non è quella di migliorare la leggibilità del testo (la funzionalità pratica), ma di esprimere il messaggio attraverso una performance di carattere figurativo, accrescendo quindi la funzionalità simbolica.

Un esempio lampante è il Blurdi Neville Brody (1992), dalle forme piuttosto “galleggianti”. La FontShop International , che lo produce, lo definisce “amorfo”, mentre Lewis Blackwell (1998, p. 182) si chiede se sia lecito considerarlo «un bastone geometrico, per quanto con l’aspetto indistinto», vale a dire un lineare “annacquato”, come se sulla carta fosse stato versato del liquido per confonderne le forme e fluidificarne la struttura. Rimarcando l’aderenza del Blur allo “spirito del tempo”, Claudio Castellacci e Patrizia Sanvitale (2004, p. 230) invitano a considerare la velocità con cui le immagini si susseguono sullo schermo della TV o del computer, la «rapidità con cui, sui video degli aeroporti o delle stazioni, si leggono le informazioni riguardo gli arrivi e le partenze, o ancora l’indifferenza che si riserva allo schermo di un bancomat in cui l’importante è il contenuto (operazione in corso, il saldo del conto) e non il contenitore. […] Ecco, appunto, la ragione della sfocatura del carattere Blur che avrebbe fatto, sì, inorridire Garamond, ma che oggi affascina i ragazzini per i quali il massimo dell’interesse è lo schermo di un telefono cellulare su cui inviare e leggere messaggi sms».

D’altra parte, anche per focalizzare meglio la condizione odierna, è interessante notare che l’attuale scenario, se non altro sul piano formale, sembra ripercorrere una sorta di dejà vu, come si legge nel volume di Eco A passo di gambero1. Fin dall’Ottocento, infatti, le forme fluide sono emerse sullo scenario incerto e multiforme del design, e ciò ha avuto spesso a che vedere con la messa a punto di una nuova tecnica. È il caso del Liberty (Art NouveauJugendstilModern Style o come dir si voglia). Afferma Sterling: «L’Art Nouveau ha prodotto a suo tempo una cascata di oggetti d’arte eleganti, curvilinei, fatti a mano. Non si erano mai viste cose dalla forma così strana e serpentina (…) I vasi attorti a spirale e le specchiere a goccia dell’Art Nouveau possono sembrare adatti a personaggi in piume d’airone e diademi. Eppure i blobject ne sono i legittimi eredi: anzi ne sono i vendicatori. Sono quasi altrettanto ondulati, flessibili e isterici”2. Al filone Art Nouveau appartengono oggetti dalle forme davvero sinuose, avvolgenti e organiche, tra un soffuso simbolismo (dal neo-gotico al Japonism) e una stilizzazione smaliziata delle forme floreali più lussureggianti. Campione di questo stile è senza dubbio Henry van de Velde: progettista poliedrico, irriducibile paladino del Kunstwollen, in polemica con la Typisierung (tipizzazione) di Hermann Muthesius, e designer di mobili e di oggetti, nonché di architetture e d’interni veramente raffinati, animati dalla mirabolante linea à coup de fouet (a colpo di frusta): “continua, fluida, avvolgente, oppure impennata in un repentino zig-zag (…) la linea Liberty annullò di colpo l’elementare geometrismo dello spazio euclideo e la rigida ortogonalità di quello cartesiano (…) per trascinare la percezione in un sinuoso viluppo di piani e superfici” (Vitta 2001, p. 89). In qualche modo, è come se la materia inorganica prendesse vita per dispiegarsi (organicamente) in un irrinunciabile Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale) fino ad abbracciare ogni area figurativa, non solo nel senso che si dirama dappertutto (horror vacui), ma anche perché avviluppa ogni angolo in flessuose spirali e inebrianti vortici figurativi: dalle strutture architettoniche agli oggetti di design, fino ai piatti verdi per i pomodori rossi e ai vestiti di Madame van de Velde nella sua sfavillante dimora a Uccle.

Certo, forma anzitutto, anzi Formwill (volontà di forma), come caldeggiava Van de Velde. Ma tutto ciò avrebbe potuto concretarsi, così bello e aereo come a Uccle, senza l’impiego consapevole dei “nuovi” materiali (le leghe metalliche) e di un modo inedito di piegare il legno? Una tecnica – bagni di vapore con successivo irrigidimento del legno entro casseforme metalliche – introdotta per la prima volta dal grande ebanista-designer prussiano Michael Thonet, che a partire dal 1850 riesce a realizzare mobili dalle forme fluide, eleganti e moderne, nonché producibili in (grande) serie e perfettamente coerenti con la logica industriale. Si tratta, in breve, di un fruttuoso mélange di tecnica ed estetica, secondo il motto – «Arte e tecnica: una nuova unità» – che Walter Gropius (2001, p. 59) arriverà a formulare nel secolo successivo. Come ha osservato Renato De Fusco (2002, p. 66), «se l’apporto di Thonet fosse stato puramente tecnico, egli si sarebbe limitato ad applicare i suoi procedimenti a modelli storicistici (come fece all’inizio) e non avrebbe per ragioni estetiche, economiche, di produttività industriale, raggiunto quei risultati anche formali che caratterizzano il suo stile (…). Viceversa lo stile di Thonet vive forme ed esigenze produttive del suo tempo, anticipa nuovi orientamenti del gusto, l’Art Nouveau in particolare, e soprattutto risulta ancora attuale».

Di lì a poco, si assiste alla nascita del manifesto moderno, al delinearsi di quello che è stato definito il “museo della strada”, quando, nelle piazze delle grandi metropoli europee e statunitensi, i cartelloni pubblicitari cominciano a mettere in mostra la merce, in uno scenario – vaporoso e frizzante – che fa da sfondo alla spettacolare modernità del flâneur parigino celebrato da Baudelaire (1992) e codificato da Benjamin (2000). Gli artisti che li disegnano, chiamati per l’appunto “artisti commerciali”, sono grafici ante litteram: alcuni più attenti alla trasmissione del messaggio attraverso una modalità espositiva sempre più incisiva (Jules Chéret, Henry de Toulouse-Lautrec, Leonetto Cappiello); altri più incentrati sul valore simbolico e sulla pregnanza espressiva dell’affiche (si pensi alle ibridazioni iconico-testuali che prendono vita nei raffinati disegni di Alphonse Mucha). Tutti, più o meno, fanno tesoro di una nuova tecnica – la cromolitografia – che permette all’artista di disegnare direttamente su una matrice piana (in genere di pietra), anziché attraverso i precedenti processi silografici che ne ingessavano le possibilità espressive e implicavano una resa grafica meno rifinita. I caratteri, allo stesso modo, cominciano a essere tracciati in relazione al disegno, divenendo parte del disegno stesso e partecipando quindi agli stessi intrecci figurativi. Ancora oggi, inconsapevolmente o nostalgicamente, capita d’imbattersi in alcune reminiscenze tipografiche Liberty, ovviamente riformulate in termini elettronici3. Ma il manifesto che meglio rappresenta la grafica Liberty è forse quello di Jan Toorop per una marca di olio di arachidi, tale da scuotere la cerchia dei Preraffaelliti, che non avrebbero mai accettato alcuna ingerenza tra l’arte e uno dei prodotti più “degenerati” della già “degenerante” industria: la pubblicità (Tatarkiewicz 2004, pp. 54-58).

Nondimeno, di lì a qualche anno, sull’altra sponda dell’oceano, le forme fluide riemergeranno enfaticamente fino a caratterizzare buona parte del design statunitense. Alludiamo alla fioritura dello Styling, che furoreggia negli States tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta, con forme sinuose e avvolgenti: non più gli intrecci vorticosi della poetica figurativa Liberty, ma le fogge “a goccia” o “a lacrima” dello Streamlining americano. Ed ecco ancora un formidabile mix di funzionalità pratica e funzionalità simbolica: se la linea aerodinamica (alias forma a goccia) nasceva da esigenze di carattere pratico-economico (ridurre l’attrito e la turbolenza dei veicoli per contenere le spese di carburante), poco dopo finiva per caratterizzare anche gli oggetti “statici”, come un temperamatite o un telefono, divenendo emblema della velocità, e con essa della modernità tout court4. Come osserva Gillo Dorfles (1996, pp. 133-4), mentre il Movimento moderno (International Style) intimava l’abolizione di ogni decorazione nell’architettura e nel design, esistevano analogie «tra una scultura di Arp dalla forma particolarmente sinuosa ed un oggetto industriale come una macchina da scrivere (…). Queste strutture ondulate, convesse con una superficie perfettamente liscia, avevano una certa rispondenza nella cultura coeva».

Nel 1940 il MoMA (Museum of Modern Art di New York) indice un concorso sull’Organic Design in Home Furniture. Si distinguono Charles Eames ed Eero Saarinen. A partire dagli anni Quaranta, si diffonderanno in America arredi dalle sagome “plastiche”, intendendo qui l’esibizione espressiva della forma e l’utilizzo inedito dei materiali plastici. È il caso delle Tulip Chairs di Saarinen (intorno al Tulip Table) o della Panton Chair di Verner Panton (una “scultura funzionale”), entrambe prodotte dalla Knoll International e dalla Herman Miller negli anni Cinquanta: vere e proprie “conchiglie ergonomiche” o «calici tridimensionali [che] con l’eliminazione dell’angolo retto conducevano dal mondo formale delle sedie curvate bidimensionali di Breuer e Aalto nella nuova sfera del ‘mobile-scultura’, la cui tecnologia si fondava su acquisizioni recentissime»5. Negli anni Sessanta e Settanta, quando si afferma l’Italian design, verranno indagate a fondo le possibilità tecnico-funzionali della plastica e le sue valenze simbolico-espressive: dalla sedia Selene (di Vico Magistretti per Edra, 1969), sobria e misurata, alle ampollose creazioni Pop, come il divano Bocca (dello Studio 65 per Edra, 1970) e il divano-seduta Pratone (del Gruppo Sturm per Gufram, 1971). Da qui, tutta una ricerca formale incentrata sul valore iconico del segno, fino a quella che Fulvio Carmagnola ha definito l’“economia del simbolico” – la nostra – dove la spettacolarizzazione delle merci è diventata «parte integrante di un processo di valorizzazione economica dei beni» (Carmagnola 2002, p. 108).

Sempre negli anni Sessanta, il Leitmotiv della fluidità si rivela sorprendentemente nei cosiddetti manifesti psichedelici della California sovversiva, hippy e “allucinata” di quegli anni. Fuori di metafora, imbottiti di droghe allucinogene (LSD), i designer californiani (in primis Victor Moscoso e Wes Wilson) realizzano una grafica molto suggestiva: decisamente impattante ma poco leggibile, perché fortemente caratterizzata da viluppi ancor più vorticosi di quelli Liberty e accentuati da un contrasto cromatico shockante. Come afferma John Barnicoat, «il largo pubblico comincia a sviluppare una particolare sensibilità che lo porta a vedere senza leggere (…). Si tratta per lo più di un’attitudine della mente: i messaggi penetrano attraverso i sensi»6. La tecnica impiegata è la fotocomposizione, che, a differenza della precedente stampa rilievografica, permette adesso tutta la libertà operativa dei mezzi fotografici: un nuovo procedimento di stampa “a freddo” cui seguirà il pixel (tecnologia elettronica) e il conseguente declino del carattere in metallo. E proprio i caratteri o meglio i lettering psichedelici rivelano già tutta la forza espressiva e la fluidità della grafica digitale odierna.

È il caso di sottolineare la specificazione “odierna” perché gli esordi della grafica e soprattutto della scrittura digitale, che si diffonde a macchia d’olio con l’introduzione del Macintosh (1984), sono stati piuttosto “rigidi”, cioè rigidamente basati sulla griglia dei pixel. Si pensi ai caratteri “frammentati” (o per punti-quadratini) degli anni Ottanta: una “tipografia” (digitale) fortemente geometrica e, in questo senso, vicina alla tipografia neoplastica di Theo Van Doesburg degli anni Venti. E ciò risulta subito lampante se solo si confronta l’alfabeto “elementare” (vale a dire “ortogonale”) di quest’ultimo con Emigre Ten di Zuzana Licko, straordinaria interprete della scrittura digitale. Emblematico, a tal proposito, è l’articolo della stessa Licko e di Rudy VanderLans intitolato The New Primitives per rimarcare la necessità, propria di quegli anni, di progettare nuove forme testuali a partire dai mezzi elettronici a disposizione. Se l’“estetica meccanica” promuoveva la creazione di un habitat basato su una morfologia elementare (tratti ortogonali, colori primari) coerente con i mezzi di produzione (meccanici) degli anni Venti, la tecnica digitale, vincolata da sistemi (elettronici) che producevano caratteri per punti, avrebbe subito nel giro di qualche anno un’evoluzione tale da permettere l’emersione di caratteri fluidi: camaleontici, ibridi e fortemente iconici.

Agili parallelismi tra architettura, design e grafica costellano le conclusioni di Free Graphics, dove s’incrociano architetti come Frank O. Gehry, Peter Eisnman e Zaha Hadid, designer come Philippe Starck, Ron Arad e Ross Lovegrove e grafici come Neville Brody, David Carson e Stephan Sagmeister (cfr. Russo 2006, pp. 86-105). In questa sede, è appena il caso di precisare che l’opera di Arad, dalle forme fluido-scultorie, include nelle corrispondenze tra i vari ambiti del figurativo anche l’arte e l’artigianato, mettendo in chiaro come il design odierno (postindustriale e postfordista) non possa più essere considerato alieno dall’artigianato7; «l’autoproduzione – con le sue implicazioni manuali – si configura come un possibile modello di impresa che segna il superamento del paradigma fordista e si presta particolarmente ai vantaggi del modello di produzione flessibile, alla rete di rapporti tra le imprese e all’utilizzo degli strumenti della new economy» (Ferrara 2001, p. 257).

Un altro esempio si può leggere nel n. 457 di “Abitare” (gennaio 2006), che, insieme alle mirabolanti architetture che hanno ospitato i Giochi Invernali di Torino 2006, presenta un sistema di pittogrammi ancor più fluido delle performance sulla pista di ghiaccio (Terrazzi 2006, p. 59). Ci potrebbe essere una distanza maggiore di quella che c’è tra questi e i celebri pittogrammi dei Giochi olimpici di Monaco (1972)? Quelli di oggi, dal sapore pittorico più che “pittografico”: curve avvolgenti e colori fluorescenti che guizzano su fondo nero; quelli di ieri, basati su una griglia geometrica che assicura la puntuale modularità di ogni parte (Pasca, Russo 2005, pp. 45-47, 92-95).

Ma non solo architettura, design, arte, ogni pratica figurativa, anche il cinema (se non altro nel genere fantasy) offre a suo modo gli stessi scenari fluidi, blobject e creature blob: ne La fabbrica di cioccolato di Tim Burton, «le tecnologie perdono ridondante autonomia (…) e sono essenzialmente utilizzate a ‘smaterializzare’ (ovvero rendere fantastici) i corpi, gli ambienti, le azioni» (Villa 2006, p. 101). In particolare, gli Umpa-lumpa, gli omini che lavorano nella fabbrica, possono essere letti come un’allegoria dell’odierna produzione (post-)industriale: una personificazione dei blobject di Sterling. Tra questi e gli Umpa-lumpa esistono infatti non poche analogie. I blobject vivono del loro potere fascinatorio, fondato sulle immagini che vi sono connesse per associazione simbolico-visiva; gli Umpa-lumpa provengono da una foresta tropicale senza tempo e senza luogo: il mitico Eden, radicato nel nostro immaginario. I blobject sono “ludici”, hanno lo scopo di piacere, e svolgono una funzione “simbolica” che tende a sovrastare la loro stessa usabilità; gli Umpa-lumpa dedicano la loro esistenza alla cioccolata (della quale vanno pazzi) venerandola giocosamente. Gli Umpa-lumpa sono tutti uguali, “prodotti in serie” (naturalmente in “piccola serie”) e pure molto versatili, per certi versi metamorfici; vengono ingaggiati come operai (funzionalità pratica), ma compiono di quando in quando performance inaspettate: oltre che segretarie e psicanalisti, sono ottimi ballerini, cantanti e rock star (funzionalità simbolica). Con le macchine a controllo numerico accade questo e altro… Hanno un che di scenico, spettacolare e comunicativo.

Sono soprattutto espressivi, con tratti somatici molto marcati, una capigliatura sui generis e un look tecno-esotico. Sono anche simpatici e socievoli: qualità che permettono ai blobject di sviluppare particolari valenze affettive. Sanno essere anche irriverenti e molto “urticanti” con chi non si sintonizza sulla loro lunghezza d’onda8. Puniscono il “funzionalismo” dei piccoli anti-eroi del film che tradiscono un scopo ben preciso: l’ingordo, piccolo “panzer”, intento a ingurgitare ogni sorta di leccornia; l’ambiziosa “superdonna” (o “superbimba”), che vuole solo vincere tout prix; la capricciosissima miss “io-voglio”, pronta sempre a pretendere; il metodico, ipertecnologico cow-child, che finisce vittima della sua smania di onnipotenza. Ma il personaggio più emblematico in questo senso è forse il padre di Mr. Walker, che incarna il razionalismo funzionalistico nei suoi aspetti più rigorosi: con tanto di censure e proibizioni; dopo avere costretto il piccolo Walker a non mangiare la cioccolata, deve ammettere al giorno d’oggi tutta l’insensatezza di quelle restrizioni: i denti di Mr. Walker, da anni “imbevuti” di cioccolata, sono ancora perfettamente sani.

In definitiva, attraverso le strutture di Hadid, gli oggetti polisemici di Starck, le forme scultoree di Arad, i caratteri liquidi di Brody, i film fluido-fantastici…, ci piace concludere che lo Zeitgeist (digitale) parla fluente.

di Dario Russo

 

Note

1 «Sembra quasi che la storia, affannata per i balzi fatti nei due millenni precedenti, si riavvoltoli su se stessa, tornando ai fasti confortevoli della Tradizione» (Eco 2006, p. 7).
2 Sterling 2004, p. 71. Tuttavia, tra le opere Art Nouveau e i blobject, c’è la terza fase della rivoluzione industriale (o meglio l’industria in senso lato): al contrario dei primi, i secondi “non sono contestatori dell’industrialismo, sono conquistatori postindustriali”.
3 Tra i più noti: Alfred Drake, Arnold Boecklin, Auriol, Bradley Hand, Davida, Eckmannschrift, Sigfried…
4 Cfr. Heskett 1990, p. 126. Cfr. anche Russo 2004, pp. 15-28, dove si argomenta come la tecnica sia intimamente connessa alle dinamiche sociali, e quindi estetiche e culturali in senso ampio, influenzandole e venendone a sua volta influenzata (approccio socio-costruttivista).
5 Mang 1982, p. 144. Osserva Haslam (1990, p. 175): «La levità e le superfici dalle curve morbide dei mobili di Eames fanno venire in mente certi pezzi art nouveau».
6 Barnicoat 1998, p. 64. E continua: «In questo senso, il poster Hippy è usato per creare un ambiente: un’altra manifestazione di arte totale alla maniera Art Nouveau». Ribadisce K. Mang (1982, p. 6): «l’arte hippy degli anni sessanta e alcune componenti del postmodernismo odierno hanno radici nelle arti decorative e nell’architettura del periodo attorno al 1900; il linguaggio visivo e stilistico dei movimenti più recenti deve molto all’art nouveau».
7 «Perché non si debba considerare l’oggetto artigianale come un “analogon” di quello industriale» (nel quadro produttivo degli anni Sessanta), Gillo Dorfles teneva a precisare che «una delle prime condizioni necessarie per considerare un elemento come rientrante nel settore che ci accingiamo ad esaminare è che esso sia prodotto attraverso mezzi industriali e meccanici, ossia mediante l’intervento – non solo fortuito, occasionale e parziale – ma esclusivo della macchina» (Dorfles 1963, p. 10).
8 Cfr. Maldonado 2001, p. 83: «oggetti banali, divertenti, un po’ spavaldi e irriverenti, ma soprattutto, e sempre, “conversevoli”».

 

Bibliografia

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