Fabrizio Scrivano – “Ne uccide più la lingua che la spada”: sprezzatura e disprezzo nel pensiero (comico) italiano


Fabrizio Scrivano

“Ne uccide più la lingua che la spada”: sprezzatura e disprezzo nel pensiero (comico) italiano

 

 

πολλοὶ ἔπεσαν ἐν στόματι μαχαίρας καὶ οὐχ ὡς οἱ πεπτωκότες διὰ γλῶσσαν

Siracide, 28,18

usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri
ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi

Castiglione, Il Cortegiano, I, 26

Per lo contrario ci sono ancora degli uomini superiori i quali
disprezzando il disprezzo, si guardano però dai danni, perché questi son cose reali,
e il disprezzo appresso a poco ci nuoce tanto quanto noi lo stimiamo

Leopardi, Zibaldone, 8 giugno 1820: 117

 

 

 

 

 

Il rapporto con il comico in Italia e nella sua letteratura ha una storia complicata, come ovunque e sempre la comicità ha e ha avuto la capacità di complicare le cose, sia nella formazione di una cultura sia della sua immagine, e soprattutto in quei transiti della comunicazione su cui si basa la relazione sociale. Come dice il titolo di questo intervento, uno degli aspetti che con una certa continuità si affaccia nel dibattito pubblico è l’equilibrio, o l’ambiguità, tra la simulazione della conoscenza e il rifiuto dell’altro, tra sprezzatura e disprezzo.
Il termine sprezzatura nel pensiero di Baldassare Castiglione, esposto nel Libro del Cortegiano (1538), prende un significato strategico, segnando un importante capitolo dell’etica della prudenza; e però allo stesso tempo segna un punto a favore dello stile personale da tenersi in società; che non sono due cose, etica e stile, davvero coincidenti.
Perché, da una parte, la sprezzatura della persona saggia, che sa di non dover troppo ostentare il proprio sapere serve a non esporsi, a non irritare il proprio interlocutore, ad essere influente senza essere invadente. La sprezzatura di Castiglione, aiuta a non farsi notare, a rimanere nell’ombra, a non esporsi pericolosamente; ed è anche un gesto cortese verso gli altri, di discrezione, e di omaggio, di sottomissione. Non si tratta di modestia, no di certo: si tratta di una delle forme con cui esercitare la massima delle virtù, la prudenza. La verità è un oggetto delicato, si sa, si rompe facilmente ed è ancor più facilmente soggetta al rifiuto: da qui la responsabilità del saggio. Quindi, se non vuoi che la tua opinione sia rifiutata a prescindere dalla sua ragionevolezza e fondatezza, se non vuoi che appaia frutto di saccenteria, allora sarà meglio dissimulare la tua sapienza: i professorini son sempre stati antipatici. Vista in quest’ottica, la sprezzatura è una pratica retorica, non un sentimento, pensata come condizione preliminare entro la quale porre la relazione discorsiva. Del resto come si parla a un Principe, e a ogni altro che sia abituato a sentirsi o abbia la necessità di apparire sempre e comunque dalla parte della ragione e superiore a tutti? Senza indisporlo, senza farlo agire per stizza, e senza rischiare di perdere la testa? Evidentemente non si tratta solo di prammatica.
Dall’altra parte la sprezzatura è stile, che presuppone moderazione nell’esporre le proprie capacità e qualità, ma spesso con una mera intenzione di renderle più stupefacenti. Castiglione stesso, nel dialogo, fa capire che l’abilità non dichiarata rende maggiore la sorpresa, l’ammirazione, quando essa va ad effetto, realizza l’intenzione, il celato proposito: “Da questo [usar sprezzatura] credo io che derivi assai la grazia; perché́ delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia” (Castiglione I, 25). Perché la saggezza, la competenza ha l’apparenza della disinvoltura, l’aura della spontaneità, forse anche accenna ad una naturale disposizione, a una qualità senz’arte. L’apparenza di modestia evita l’affettazione, e la pedanteria, e dispone il soggetto con cui ci si relaziona all’attesa e all’accettazione della sfida, del confronto, in ultimo all’ascolto.
Per questo, se ci tenessimo a mantenere teso il filo del ragionamento di Castiglione, che introduce questa ambiguità tra virtù e prassi di un costume (la sprezzatura) che allude al mantenimento della (falsa) modestia, dovremmo forse spostarci più avanti nel dialogo, quando entra in scena e si discute il comico: e in particolare quando, apparentemente sulla scia della più antica riflessione di Marco Tullio Cicerone sviluppata nel De oratore, si discute se il saper far ridere si ottenga con l’arte oppure sia una disposizione naturale, senza ovviamente dare una risposta netta. Avvertito che la provocazione del riso può essere strumento di svago e di offesa allo stesso tempo, Castiglione può scrutare quanto l’utilizzazione del comico, nelle sue varie forme, possa insinuarsi nelle pratiche di formazione delle opinioni e delle certezze; possa sfruttare debolezze o pareggiare asperità, possa aprire canali o chiudere porte.
Ne risulterebbe che il ragionamento sulla natura del comico segna un percorso inverso da quello sulla sprezzatura, ma pieno di similarità o isomorfismi. Se lo stile disinvolto è uno strumento della politica, lo statuto incerto del comico rende possibile la sua efficacia politica.
Se potessimo andare a cercare una possibile fonte di questo strano matrimonio, basterebbe rivolgersi a un trattato di una ventina d’anni precedente, il De sermone (1509, ma scritto nel 1499) di Giovanni Pontano. Testo che non è mai davvero entrato nel pieno possesso della nostra cultura, privo insomma di canonizzazione, eppure esempio di una intelligenza mostruosa e di un raffinato possesso di quanto ogni discorso sia un’equilibrata gestione del mostrare e nascondere, del rendere palese attraverso l’allusione e rendere comprensibile tramite la negazione dell’evidenza. Non è un caso che questo trattato, ricco di esempi in forma di novelle e parabole e casi esemplari, spesso tratte dalle storie antiche e altrettanto spesso dalle cronache contemporanee, molto presto si concentri e monopolizzi sulle forme del comico. E anche il De sermone non è un libro dedicato all’elocuzione bensì all’efficacia pratica e politica della conversazione. Il motto e il ludus sono il suo argomento principale, sì, ma non per l’intrattenimento o per l’abbellimento della conversazione (elegantia): è l’aspetto operativo con la sua capacità di stimolo o di inibizione ad essere sviscerato, come strumento principale nelle relazioni di potere, diplomatiche, politiche o solamente sociali, addirittura familiari.
Già dai tempi di Giovanni Boccaccio abbiamo vivissime (anche nel senso di incarnate) rappresentazioni di quanto nella forma del motto la parola sia soprattutto un gesto: il motto in parte dice, cioè esprime un significato, rivela un senso, mostra un’intelligenza, esibisce un’acutezza intellettuale. Ma nulla sarebbe questa potenza di significato se tale modalità di conversazione non fosse immediatamente anche un gesto, un’azione, un movimento del corpo che instaura una relazione prossemica con l’interlocutore. Il sesto libro del Decameron (circa 1349), dedicato ai motti, propone una serie variata di possibilità di motteggiamento, perché, come spiega la rubrica, “si ragiona di chi con alcuno leggiadro motto, tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno”. La parola che trae d’impaccio e che si realizza in una situazione concreta e pratica è quella del motto: che è anche certamente dotata di una sua comicità, quasi sempre. Un ridere però in bilico tra la sorpresa piacevole di una trovata ingegnosa e un ridere semplicemente offensivo e derisorio. Accingendosi a raccontare la terza novella di quella sesta giornata, Lauretta mette le mani avanti: “vi voglio ricordare essere la natura de’ motti cotale, che essi come la pecora morde deono così mordere l’uditore, e non come ‘l cane; per ciò che, se come il cane mordesse il motto, non sarebbe motto ma villania”. Tuttavia: “È il vero che, se per risposta si dice, e il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima stato morso, non par da riprendere, come, se ciò avvenuto non fosse, sarebbe; e per ciò è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia” (Boccaccio VI, 3). Occhio per occhio, dente per dente, sottintende Lauretta, che infatti si accinge a raccontare una novella dal finale mordace, in cui il cane, che prima ferì, a sua volta morso è costretto a ripiegare con la coda tra le gambe. Il motto però, come mostra la novella successiva, che ha come protagonista il ghiotto Chichibio, il quale non resiste a divorare la coscia di una gru, ha anche il potere di stemperare l’ira, volgendola in riso. Diverse modalità d’uso del motto, che in pratica è libero di agire ma è sempre vincolato alla circostanza in cui agisce ed opera. Forse la nona novella della giornata, più delle altre, mostra quanto il dire e il fare siano contigui nel campo del motto. La racconta Emilia, la regina della giornata, e riguarda Guido Cavalcanti, che molestato da una brigata di sbruffoni che lo avevano preso a mal partito, si cava d’impaccio con una doppia arguzia. Betto e compagni sono ostili a Cavalcanti perché la sua fama di filosofo, incompresa dai più, viene ritenuta una mera scusa per fare mostra di ateismo: trovatolo quindi in giro per la città davanti a certe grandi tombe, lo circondano e Betto lo accusa apertamente:

– Guido tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto? A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: – Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace; – e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se nandò (Boccaccio VI, 9).

La compagnia rimane interdetta dal gesto atletico e dall’arcano motto, contemporaneamente. E come spiega Betto, che per quanto ignorante è uomo sagace, Cavalcanti ha voluto offenderli indicando quelle tombe che ha scavalcato con agilità come la loro dimora, cioè a dire che la loro ignoranza li pone alla stregua dei morti. Quindi in questo il caso, il motto e il gesto si ritrovano uniti in un’unica azione, a chiarire definitivamente quanto nel sistema delle relazioni sociali il motto sia da intendersi come un atto pratico. Ma di più c’è che il motto si propone come un terreno in cui la distanza tra conoscenza e ignoranza si ricompone, o anzi può ricomporsi, a patto di riconoscerlo (cosa non sempre possibile).
E non si dovrà sottovalutare il fatto che il motto, nella opzione boccacciana, è oggetto di narrazione: cioè si esplica e si esemplifica tramite casi concreti, come a ricomporre un breve trattato (qui e là fatto emergere dalle premesse e dai commenti di narratori e ascoltatori) sull’arte di far sì che nella mente dell’interlocutore, spontaneamente, il motteggiatore riesca a far emergere la verità (di circostanza): non viene detta in modo diretto, viene fatta formulare a chi ne è destinatario.
Dunque, il motto svela e cela allo stesso tempo, svela celando e cela svelando (e muovendo a un giudizio la cui prima soglia è il riso sia per chi conversa sia per chi è spettatore/lettore). Cosa che ci riconduce a Castiglione, e alla sua disciplina di sprezzatura tra stile ed etica, che comporta un nuovo equilibrio sul piano della conversazione: qui sinonimo di relazione intelligente, di relazione sociale ma anche di (parola impossibile al tempo) comunicazione. E il passaggio in Castiglione, soprattutto nel porsi come strumento della prudenza, non poteva passare inosservato e apparentemente rilanciato verso un confine estremo e pericoloso: ne è protagonista Torquato Accetto, cent’anni dopo, con il breve trattato Della dissimulazione onesta (1641). Ci sono moltissime situazioni in cui tacere il vero porta vantaggio e conforto, argomenta Accetto. Prima di tutto, dissimulare permette di astenersi da comportamenti assai viziosi, che sono il simulare e il frodare: dire il falso e ingannare. E poi, quando la vita ci ha offerto esperienze negative, ripara dal rancore, che è fonte di dolore, e ancora ci ripara dalla superbia, che è il contrario della prudenza. La dissimulazione, ancora, è un’arma che protegge dai simulatori, e quindi permette di non cadere nelle loro trappole. Ma non va creduto che la dissimulazione sia semplicemente un comportamento astuto: è un abito dello spirito molto profondo, che ha anche una valenza interiore, tanto che si può dissimular anche a se stessi, benché solo per breve tempo. E comunque protegge dalle passioni, come l’amore e l’ira, perché allena a sopportare la gelosia e le ingiurie. Insomma, la dissimulazione aiuta a trasformare la mala sorte, i soprusi, le ingiustizie, in qualcosa di diverso dalla loro essenza malvagia: trasforma l’esperienza in conoscenza, o se si preferisce in consapevolezza. Chiaramente non si può credere sino in fondo al messaggio positivo (nel senso fotografico) impresso in questo testo, che si chiude con un ringraziamento alla dissimulazione in questo modo (Accetto XXV)

Vorrei che mi fosse permesso di manifestare l’obbligo che
ho
a’ benefici che mi hai fatti; ma invece
di renderti grazie, offen
derei le tue leggi non
dissimulando quan
to per ragione ho
dissimulato

Un ultimo scherzo che, rivoltando l’intero significato del libro, è esso stesso dissimulazione, e quindi allude a una serie indefinita di silenzi e quieti. Per Accetto, il dissimulare possiede due facce, portatrici di ambiguità: da una parte è invocata, la dissimulazione, come sospensione temporanea della verità (silenzio e celamento); dall’altra è descritta come potente strumento di autocontrollo (imperturbabilità e autostima). Una via a metà tra il sociale e l’esistenziale, che nel lettore non può che generare un’ulteriore meraviglia (o sospetto).
Il quadro sin qui delineato, fa oscillare la discussione intorno al tema dell’ambiguità: sia la sprezzatura, sia la dissimulazione, sia il comico e il motto, partecipano a questo precipizio del significato, nel quale il senso rischia sempre di precipitare. Più o meno negli stessi anni di Accetto (appena due anni prima), Matteo Peregrini aveva pubblicato un trattato Delle acutezze, che altrimenti spiriti, vivezze, e concetti volgarmente si appellano (1639), nel quale produceva la strana operazione di spostare e forse limitare il campo del comico alla mera reazione del riso, svuotandolo di ogni potenza conoscitiva. Campo invece destinato all’acutezza (diremmo anche arguzia), nella quale è solo l’intelletto ad essere compiaciuto. Nel riso, infatti, è implicato il corpo, che rilascia un vento, un fiato che libera la compressione, e che permette l’accettazione momentanea dell’ambiguità implicita nell’operazione comica (Peregrini segue nella sostanza le indicazioni del medico Girolamo Fracastoro). Questa parziale accettazione, che permette di far rientrare nel comico ogni tipo di argomento, anche serio e grave, tragico e turpe, anche politicamente scorretto, e che può discendere fino all’accettazione della volgarità, però pare essere una fonte di scredito, di vacuità dell’azione comica. Che infatti è soggetta, nella precettistica peregriniana, a molte limitazioni d’uso, benché sia necessaria almeno e soltanto nelle occasioni conviviali e nella commedia. Ma il lettore potrà anche interpretare a rovescio l’idea espressa da Peregrini: cioè che nel distinguere il momento mentale da quello corporeo, tra riso e ingegno, il campo del comico in realtà si allarghi. E infatti sembra soprattutto interessato a dare spazio all’idea di meraviglia, che spiega per l’appunto negli stessi termini fisiologici da cui scaturirebbe il riso: con l’acutezza si produce un medesimo stato di spaesamento di fronte all’oggetto, solo che il fiato non esce e anzi rimane compresso, e tutta l’energia si libera in una risposta intellettuale di compiacimento. Insomma, nell’argomentazione di Peregrini si potrebbe leggere un tentativo celato (o dissimulato) di riunire, arditamente, comicità e bellezza.
Cercò di porre fine a queste oscillazioni del senso Daniello Bartoli, in alcune pagine dell’opera De’ simboli trasportati al morale (1677, i due primi libri; il terzo 1680). “Simboli (così m’è piaciuto chiamarli), cioè di corpi a’ quali serva per anima che gli avvivi, e li trasformi, la Proporzione ch’è in essi con le materie morali delle quali ho preso a raggionare” (Bartoli 1677: 4v-5). Troviamo la spiegazione di cosa sia il simbolo nell’Introduzione. La prima persona non è un biografema, ma una dichiarazione di intenti. La parola Proporzione rimanda esplicitamente al secondo capitolo della Poetica di Aristotele, nel quale si sostiene che l’oggetto può essere imitato come migliore o peggiore di quanto non sia: “In eadem vero differentia et Tragoedia et Comoedia separata est, haec enim peiores: illa meliores imitari vult, quam ij, qui nunc sunt” (“In questa differenza sta anche il divario tra la tragedia e la commedia, giacché l’una tende ad imitare persone migliori, l’altra peggiori di quelle esistenti”, come si può leggere nella traduzione di Antonio Riccobono (Aristotele 1587: 2). Tutta l’opera di Bartoli, che conta ben 3 libri e 45 simbolizzazioni, è in buona parte una sorta di bilanciere del lecito e dell’inopportuno, che tende a riformulare e a segnalare le deviazioni morali di un intero lessico metaforico e figurale. E in particolare la quarta del primo libro, I denti del cinghiale di Adone. Il motteggiar da giuoco che lacera altrui da vero, sembra voler rovesciare i principali punti di riferimento di un mondo che avrebbe affidato alla convivialità la propria intelligenza: il suo intento, che prende le forme di un gioco serratissimo in cui controbattere analogia su analogia, metafora su metafora, figura su figura, sembra quello di mostrare l’aspetto ferino e selvaggio di ciò che, nella tradizione della letteratura cortigiana, si è cercato di far passare per civile e mansueto.
Bartoli opera dentro la materia verbale che egli sapeva appartenere all’immaginario dell’uomo di lettere e del savio suoi contemporanei. Si avvale dello stesso sistema lessicale da lui messo in dubbio, disperdendolo in un labirinto semantico da cui si esce necessariamente attrezzati e convinti di un lessico moralizzato del tutto nuovo, costringendolo a mostrare i propri paradossi e facendolo tracollare nelle proprie doppiezze. Leggiamo Bartoli:

Tutto ciò vagliami averlo detto per disposizione a mostrar vero: tanto essere il morir ferito d’una punta di lingua quanto d’uno strazio di denti; e così poter ben mettere un uomo in terra e sotterra un brieve detto pungente e velenoso, come il morderlo e il lacerarlo dicendone a lungo ogni gran male. Anzi, se v’ha cosa in che l’un modo si dissomigli dall’altro, questa essere il riuscir più insanabile la puntura di un sottil detto che gli squarci d’una grossa mormorazione. Peroché il qualificar motteggiando le vite e i fatti altrui, ha questa infelice felicità: che dice più in meno, si ode con più diletto e in quanto meno parole si stringe, più si tiene alla mente e, a guisa della moneta piccola, più agevolmente si spende e corre per più mani; né l’autore ne soggiace all’infamia di mormoratore, anzi all’opposto ne sale in pregio e acquista nome di spirito ingegnoso e piacevole. E se talvolta gli è bisogno scusarsi, scusasi coll’aver detto una grazia. Ma disgraziati gli effetti che da queste grazie provengono a chi son fatte (Bartoli 1677: 70-71).

Un’argomentazione ironica e parodistica che coglie e stritola due aspetti fondamentali della discussione sull’elocuzione: da una parte l’ambito della metafora (brevità e rapidità) e dall’altra l’ambito del genere (grazia e ridicolo). Bartoli taglia così il legame tra il favellare comico e l’ingegno, tramite una vera e propria sprezzatura. Se la posizione moralizzatrice di Bartoli esprime un’insofferenza, questa è rivolta certamente verso ogni piega del significato, considerata solo come campo dell’ambiguità invece che della complessità. Da qui la necessità di enfatizzare il lato maligno del riso, quale strumento che legalizzerebbe (e dissimulerebbe) la pratica del disprezzo.
Del resto, che il disprezzare fosse divenuta una sottile pratica della comunicazione era stato avvertito da altri scrittori e intellettuali del Seicento. Ne darò due esempi tratti dalla Crestomazia italiana della prosa (1827), inseriti nella sezione di “Filosofia pratica”, perché ci interessa, a questo punto e per concludere, comprendere la percezione che Giacomo Leopardi ebbe di questo argomento e anche la maniera con cui volle documentarlo. Il primo è un passo di Paolo Segneri, tratto da Il Cristiano istruito nella sua legge (1686), nel quale il predicatore gesuita, ragionando per paradosso morale, scopre (nel senso che denuda) la pratica della diffamazione. La metafora è quella della ferita:

Nella cicatrice di un cavallo nascono agevolmente i peli che la ricopruono; ma non così nella cicatrice di un uomo […] ogni ferita che sopravvengale nella riputazione, lascia il suo segno; ed un tal segno oh quanto dipoi è difficile che si dilegui […]; dì pur male del tuo nemico; perché quantunque un dì si scoprisse ch’egli è innocente, tuttavia rimarrà sempre in esso, se non la piaga, almeno la cicatrice (Leopardi 1827: 496).

Un brano che Leopardi accosta a un’osservazione arguta di Pietro Sforza Pallavicino, recuperandola dall’Introduzione alla sua antisarpiana Istoria del Concilio di Trento (1656):

La più efficace maniera di riportar lode dai più, è scrivere con biasimo dei più. Questo avviene perché ciascuno volentieri ode che la specie sia imperfetta, acciocché l’imperfezione non sia vergogna del suo individuo. E con maggior diletto ascoltiamo questi biasimi nelle parole, contra coloro che più esaltiamo co’ fatti; cioè contra coloro a’ quali diamo o podestà sopra noi, o venerazione come a più degni di noi: parendoci che l’abbassargli per una via, sia un riscuoterci di quella maggioranza che porgiamo loro per un’altra. Lo scrittor satirico adunque è più adulatore d’ogni altro: perché adula più persone. E siccome ciascuno agevolmente stima per vero ciò che vorrebbe esser vero; così tanto l’adulatore, quanto il satirico, eziandio nel dir l’incredibile trova credenza (Leopardi 1827: 493).

Leopardi quindi ritrovava nei testi una non tanto curiosa congiunzione tra disprezzo e comicità, basata in sostanza sulla dissimulazione (disonesta).
Non stupisce o non dovrebbe stupire, quindi, che tra i tanti brani di Baldassar Castiglione antologizzati nella Crestomazia Leopardi ne recuperasse uno che, a proposito della Natura del ridicolo (titolo imposto nell’antologia d’autore), metteva in mostra come il vituperare gli altri fosse un buon mezzo per divertirne altri ancora:

Il loco, e quasi il fonte, onde nascono i ridiculi, consiste in una certa deformità. Perché solamente si ride di quelle cose che hanno in sé disconvenienza, e par che stiano male, senza però star male. Io non so altrimenti dichiararlo: ma se voi da voi stessi pensate, vedrete che, quasi sempre, quel di che si ride, è una cosa che non si conviene, e pur non sta male (Leopardi 1827: 198).

Pur nell’assenza di una volontà maligna (come invece presupponevano i ragionamenti di Segneri e Pallavicino), il passo di Castiglione fermato da Leopardi confermava l’idea che alla base dell’urto comico ci fosse un disprezzo implicito (seppur moderato dalla ragione). Un compiacersi ineffabile, secondo Castiglione, che invece Leopardi si adoperò a spiegare, anche praticandolo, in moltissime occasioni.
Cercheremo di recuperare brevemente questo percorso accidentato e non univoco, esplorato anzi da Leopardi nella sua intima contraddittorietà. Ma prima è necessario anche segnare il sospetto che il concetto di sprezzatura gli suscitava; nella Crestomazia stessa riportava estesamente, sì, il brano di Castiglione in cui viene spiegato il concetto di sprezzatura (e che si è già riferito all’inizio di questo saggio), includendovi anche l’affermazione secondo cui “Questa virtù [è] contraria all’affettazione”, ma altrove sembrava averlo liquidato e sminuito nella sua efficacia: “Anche la stessa negligenza e noncuranza e sprezzatura e la stessa inaffettazione può essere affettata, risaltare ec. Anche la semplicità la naturalezza la spontaneità” (Leopardi 2019: 50). Ci troviamo a pagina 50 dello Zibaldone, quindi presumibilmente nel 1819, in un periodo molto precoce della sua produzione letteraria (ma non delle sue letture, evidentemente). Rifiuto che mette in rilievo quanto Leopardi fosse sensibile all’idea che le pratiche umane potessero facilmente rivoltarsi nel proprio contrario.
Da qui l’aggregarsi in Leopardi di questo vasto campo semantico che include la dissimulazione, il comico e il riso, la questione della stima e del disprezzo. Un campo che prende forma in un saggio incompleto e rimasto a lungo inedito, il Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani (scritto probabilmente nel 1824). Qui Leopardi si chiede come mai a differenza dei cittadini del nord Europa, dove la civil conversazione ha mantenuto sveglio il bisogno di astenersi dal dileggio seguendo almeno le pallide regole del bon ton, in Italia si sia dato libero sfogo alla pratica della denigrazione. Il buon tono concede, se non il rispetto, riparo almeno dall’accrescersi della disistima del prossimo e di se medesimi. Permette di non essere costantemente aggrediti nell’amor proprio e proprio tale presidio favorirebbe una convivenza civile. Al presente, tra gli italiani questo stato è pura chimera secondo Leopardi: ormai privi di costumi, gli italiani non hanno che abitudini (la distinzione non è solo linguistica) prodotte dall’assuefazione e quindi inconsapevoli. Una oscurità del sé, sia individuale sia sociale, che sostanzialmente deriva dall’aver anteposto ad ogni azione, scelta, sentimento, umore, la realizzazione e conferma (per altro illusoria) del proprio giudizio, del proprio interesse su ogni altro: e non solo per un’affermazione del sé bensì anche per il piacere di sentir gratificato l’amor proprio tramite l’accentuazione del disprezzo sugli altri e sentir condiviso questo generale disprezzo. Una visione apocalittica che Leopardi si guarda bene dal produrre in modo diretto e positivo. Un esempio del procedere sottile e ironico dell’argomentazione di Leopardi risulta evidente a proposito di una sorprendente affermazione: quella secondo cui gli italiani sarebbero filosofi più di ogni altro popolo. Ma non nel senso di essere meditativi e in cerca della verità, non di essere razionali e stimatori dell’intelletto. “Se le dette nazioni son più filosofe degli italiani nell’intelletto, gl’italiani son più filosofi del maggior filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni” (Leopardi 2018: 37), scrive Leopardi, facendo trionfare un pensiero antanaclastico di eccellenza. C’è, infatti, filosofo e filosofo: uno è il cultore del sapere l’altro lo scaltro nei giudizi pratici. Una lunga scorribanda nel lessico contemporaneo permetteva a Leopardi di operare questa dissociazione terminologica. Un solo esempio tratto da una prosa di Gasparo Gozzi contenuta nell’Osservatore veneto (1761/62), che Leopardi avrebbe ripreso (pur con qualche vistoso aggiustamento) nella Crestomazia: “Ognuno secondo il suo temperamento, ed umore, chiama filosofia quello ch’egli fa, e non si dà altra briga […] e in breve non c’è condizion d’uomo veruno, […] che non si stimi filosofo da sé, o non si chiami talora con questo prelibato nome” (Gozzi 1794: 140).
Lo gnomismo (il giudicare solo da sé medesimi, senza riscontri) caratterizzerebbe il carattere e lo stile della convivenza tra gli italiani, che assuefatti, o forse predisposti, a questo comportamento, sarebbero diventati freddi e anestetizzati.

È tanto mirabile e simile a paradosso, quanto vero, che non v’ha né individuo né popolo sì vicino alla freddezza, all’indifferenza, all’insensibilità e ad un grado così alto e profondo e costante di freddezza, insensibilità e indifferenza, come quelli che per natura sono più vivaci, più sensibili, più caldi. Collocati questi tali o popoli o individui in uno stato e in circostanze o politiche qualunque, in cui niuna cosa conferisca all’immaginazione e all’illusione, anzi tutto contribuisca al disinganno, questo disinganno per la vivacità stessa della loro natura e in ragione diretta di essa vivacità è completo, totale, fortissimo, profondissimo. L’indifferenza che ne risulta è perfetta, radicatissima, costantissima; l’inattività, se si può così dire, efficacissima; la noncuranza effettivissima; la freddezza è vero ghiaccio, come accade nel gran caldo, che i vapori sono da esso elevati a tanta altezza che quivi stringendosi nel più duro gelo, precipitano ridotti in gragnuola (Leopardi 2018: 77-78).

Così dunque, sembra decretare Leopardi, lo stato degli italiani è simile a una landa deserta e di ghiaccio (uno scenario presente anche in alcune Operette morali) in cui si è rinunciato a qualsiasi sodalizio tra conoscenza ed etica, tra stile e ragione. La sprezzatura, il sapiente e regolato stile di saper celare il proprio sapere, in Leopardi si ribalta con irrisione in una ostinata ignoranza che solo fa emergere, come se fosse una boa di salvezza, la pratica del disprezzo.

 

Bibliografia

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Pontano, G., 1509, De sermone, Napoli, S. Mayr, trad. it. con testo latino a fronte a cura di A. Mantovani, 2002, Roma, Carocci; trad. franc. con testo latino a cura di F. Bistagne, 2008, Paris, Champion.
Segneri, P., 1686, Il Cristiano istruito nella sua legge: ragionamenti morali, Firenze, S.A.S., ha avuto numerose edizioni fino al 1800, ultima ed. int. 1934, Padova, Gregoriana; le cinque novelle contenute in quest’opera sono state riproposte a cura di Q. Marini, 1993, Novelle morali eloquentissime, Roma, Magnanti.
Sforza Pallavicino, P., 1656-1657, Istoria del Concilio di Trento, Roma, Bernabò dal Verme, ed. a cura di M. Scotti, 1968, Torino, Utet.