Introduzione – L’estetica e il problema degli opposti


Le manifestazioni del pensiero estetico italiano tra il 1968 e il 2008 possono essere considerate come diverse soluzioni teoriche di un unico problema che ha profondamente agitato la società italiana di tale periodo e che può essere formulato in questi termini: come pensare il conflitto? che rapporto intercorre tra gli opposti? che cosa sono gli opposti? come si può configurare la loro conciliazione?
Questo problema emerge innanzitutto dalle tumultuose e complesse vicende che hanno fatto dell’Italia di questi quarant’anni uno straordinario laboratorio sociale e politico, trasformandola da un paese ancora profondamente legato alla tradizione in una potenza economica mondiale che contiene al suo interno zone con standard di vita tra i più elevati del mondo, dotate di una vivacità e di una ricettività culturale senza pari per la varietà degli interessi e della produzione editoriale.

Tale mutamento è tuttavia avvenuto attraverso esperienze che vanno dall’estrema e disperata conflittualità (come nel terrorismo degli anni Settanta) alla complicità nella spartizione del potere (come nel consociativismo degli anni Ottanta), dalla lotta accanitamente perseguita con le armi del diritto (come in “Mani Pulite” dei primi anni Novanta) all’appannarsi delle categorie politiche moderne (come nelle vicende politiche della seconda metà degli anni Novanta), dal sorgere di movimenti xenofobi, separatisti e strapaesani (rafforzati dalla pressione esercitata dall’immigrazione proveniente da paesi extraeuropei oppure entrati di recente a far parte dell’Unione Europea) al dilagare di forme di antipolitica sguaiate e incivili (favorite dalla diffusione di Internet). Ciò si è realizzato in un clima sociale segnato dalla persistenza e dall’espansione del fenomeno mafioso, del trasformismo e dell’intreccio tra politica ed affarismo, tutti dati che rendono quanto mai arduo se non impossibile l’individuazione di veri conflitti e di vere solidarietà. Né vanno dimenticate alcune inclinazioni insieme antiche e recentissime, radicate nella sensibilità barocca del popolo italiano e incoraggiate dalla svolta postmoderna della cultura artistica e letteraria, come il gusto della sorpresa, la passione per la trasversalità, la tendenza allo sfruttamento spettacolare del paradosso e dello scandalo.

Ne è derivato un clima socio-culturale insieme scintillante e torbido, sovraeccitato e inconcludente, ultradinamico e ripetitivo, in cui chi vuole rimanere fedele al passato si trova costretto a esibire novità eclatanti, mentre chi invece vuole introdurre effettivi cambiamenti deve cercare di renderli invisibili. Insomma nulla è come sembra: tuttavia sapere se qualcosa sia l’originale, la sua copia oppure alcunché di intermedio tra due termini antitetici, richiede il più grande impegno e l’uso della più sottile finezza intellettuale. Ne deriva che l’Italia non è un paese di pigri, né di rozzi: qui l”esercizio del sospetto” (che il filosofo francese Paul Ricoeur considera un retaggio del pensiero di Marx, di Nietzsche e di Freud) costituisce il criterio fondamentale per orientarsi in una realtà multiforme e vischiosa nella quale la raffinatezza di origine rinascimentale e manieristica s’incontra e si somma con la complessità della società postindutriale, dando luogo a personaggi concettuali e a prodotti culturali di alta qualità estetica ed efficacia pratica. Questo lato luminoso è tuttavia spesso intrecciato con un lato tenebroso, che affonda le sue radici nel passato, ma trae alimento anche dalla decomposizione della società borghese: il fatto che l’alleanza palese celi una lotta occulta e viceversa una aperto conflitto presupponga un tacito accordo, emerge sia dal cosiddetto “familismo amorale” che sotto l’apparenza dell’affetto persegue l’oppressione dei figli ed impedisce la loro emancipazione, sia da una volontà di potenza senza freni che si nutre di menzogne e tradimenti, di continui ricatti e di spudorate imposture.

 

L’estetica come “inconscio politico” della società

Ora può destare meraviglia questo sfondo socio-antropologico risulti più evidente alla riflessione estetica e non invece – come sarebbe più logico – alla riflessione morale, politica, sociologica o storica. In effetti in questo periodo la produzione estetica italiana sembra più ricca e vivace di altri approcci disciplinari. Nel determinare questa caratteristica hanno probabilmente giocato molti fattori. La filosofia morale è rimasta troppo influenzata dalla religione, non solo da quella cattolica, ma anche da quella protestante (specie se pensiamo all’influenza del rigorismo di Kant e dalla tradizione ermeneutica); ciò ha impedito una visione spregiudicata e realistica della situazione morale della nostra epoca. Quanto alla filosofia politica, essa è stata segnata da una certa timidezza derivata in gran parte dalla dipendenza dalle ideologie; la riflessione teorica non si è emancipata dalle categorie politiche tradizionali e dall’adesione a questo o a quel partito politico, quando non addirittura a questa o a quella fazione. Il pensiero sociologico e quello storico raramente hanno saputo liberarsi dalla morsa in cui li hanno stretti da un lato l’accademia e dall’altro l’opinione pubblica: in linea di massima, università e giornalismo non hanno favorito il sorgere di una teoria che fosse all’altezza delle profonde trasformazioni economiche, sociali ed umane in atto nell’Italia dal Sessantotto in poi.

Tali fattori hanno fatto sì che l’estetica colmasse le carenze di altri approcci disciplinari. Ma la fortuna dell’estetica italiana dipende anche da altre ragioni più sostanziali di carattere generale e particolare. È noto che nelle società occidentali più sviluppate la dimensione estetica ha acquistato un rilievo di primissimo piano annettendo campi tradizionalmente occupati da altre forme culturali e focalizzando sulla bellezza, sull’arte, sullo spettacolo e sulla comunicazione interessi che erano prima orientati verso l’etica e la politica (Ankersmith 1996). Inoltre è plausibile sostenere che l’estetica, fin dalla sua fondazione settecentesca, abbia giocato un ruolo essenziale nell’autorappresentazione della società borghese, al punto da costituire il suo “inconscio politico” (Eagleton 1990). Nel caso specifico dell’Italia, occorre tenere presente che le due riflessioni estetiche più rilevanti della prima metà del secolo, quella di Croce (1866-1952) e quella di Gentile (1875-1944) assegnavano all’arte un ruolo importantissimo nell’economia generale della vita spirituale: per il primo l’arte in quanto espressione svolge una funzione insieme propedeutica e pervasiva di tutte le attività umane, per il secondo non c’è realtà in cui non sia presente l’arte.

 

Gramscismo e organicismo

Le filosofie con cui si confronta polemicamente la riflessione estetica italiana del secondo dopoguerra non sono più quelle del neo-idealismo: negli anni Cinquanta la cultura estetica non è più dominata da Croce e da Gentile. La scena è occupata dal pensiero di Antonio Gramsci (1891-1937), i cui Quaderni del carcere scritti tra il 1929 e il 1935, sono pubblicati postumi a partire dal 1948, e dall’opera del filosofo torinese Luigi Pareyson (1918-1991), destinato a diventare nel decennio successivo un punto di riferimento centrale del cattolicesimo filosofico italiano. Ora a differenza di altre teorie che si rifanno al marxismo, Gramsci assegna all’arte, sia nella sue manifestazioni colte che in quelle popolari, una funzione di massima rilevanza nell’azione trasformatrice e innovatrice svolta dal partito comunista. Quanto a Pareyson, la sua Estetica. Teoria della formatività (1954) pur mantenendosi su di un piano metodologico e contenutistico rigorosamente disciplinare, ha un significato che può essere esteso a tutti i campi dell’esperienza, perché studia la formatività in tutta intera l’attività umana. L’importanza di questi due pensatori nel clima culturale degli anni Cinquanta consiste nel fatto che essi forniscono due soluzioni del problema del conflitto assai diverse tra loro, ma entrambe riportabili all’idealismo tedesco e perciò profondamente impregnate da una tonalità estetica.

La risposta di Gramsci si pone nel solco della dialettica hegelo-marxista, che intende la contraddizione come il motore dello sviluppo e del progresso sociale: la lotta degli opposti contradditori è considerata come il momento dinamico che conduce al superamento del conflitto. La versione gramsciana di tale teoria si caratterizza per la puntualizzazione dell’aspetto cosciente e consapevole del processo dialettico: a suo avviso, non c’è organizzazione politica senza intellettuali, cioè senza una elite di dirigenti specializzati nell’elaborazione concettuale e filosofica delle contraddizioni. La risposta di Pareyson invece trova il proprio radicamento nel pensiero di Goethe e di Schelling, considerati come fautori di un organicismo estetico in cui gli opposti sono pensati come polarità che si presuppongono e si sostengono reciprocamente. L’estetica di Pareyson sembra avere un rapporto di rivalità mimetica con il pensiero di Gramsci: la natura e l’arte prendono il posto della cultura e della storia, la produttività sta al posto della prassi e la formatività al posto dell’organizzazione, ma comune ai due pensatori è l’intenzione strategica di pensare il rapporto tra gli opposti (contradditori in Gramsci, polari in Pareyson) in modo costruttivo e vitale, positivamente orientato verso una totalità organica, sintesi di libertà e necessità, di cui l’intellettuale e l’artista costituiscono la coscienza. Tuttavia comune a entrambi è del resto l’eredità dell’idealismo tedesco, il cui sfondo metafisico è costituito dall’ organicismo: si ricorre infatti al concetto di “organicità” ogni qualvolta si vuole pensare il conflitto in modo energico, ma non distruttivo, ogni qual volta si vuole riconoscere il lavoro del negativo attribuendo al risultato della sua lotta una coloritura estetica finale (Schlanger 1971).

 

Le sei correnti dell’estetica italiana

L’estetica italiana più recente è caratterizzata nel suo complesso dalla ripulsa della dialettica e dell’organicismo. La svolta avviene tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, quando da un lato appare chiaro che né la dialettica né l’organicismo sono in grado di dar conto delle tumultuose lotte sociali e generazionali dell’epoca, dall’altro che la nozione di struttura ha in tutti i campi del sapere sostituito quella di storia e quella di organismo. Si apre un nuovo scenario che non può essere descritto in termini politici tradizionali come conflitto di sinistra e destra, di comunisti e cattolici, di progressisti e conservatori; ma nel quale l’estetica resta (non meno che in Croce e in Gentile) strettamente legata ad un enjeu politico; infatti, alcune importanti categorie estetiche tradizionali come il bello, l’ironia, il sublime, il tragico, la raffinatezza e l’acutezza vengono ripensate in modo da prospettare nuove soluzioni al problema del conflitto e al modo in cui possono essere pensati gli opposti. Norberto Bobbio (1909-2004) conclude il suo Profilo ideologico del Novecento osservando che le nuove poste in gioco del pensiero radicale sono la difesa dell’ambiente e la pace universale: ora se si vuole dare a questa considerazione un significato che va al di là dell’ideologia (cioè dell’ecologismo e del pacifismo), si scopre che la natura e la pace sono appunto temi per eccellenza dell’estetica. Infatti la nozione di bellezza è fin dall’antichità collegata con l’esperienza di una armonizzazione e conciliazione degli opposti, mentre la paura nei confronti di forze non controllabili dall’essere umano ha trovato nell’idea estetica del sublime una sua importante concettualizzazione. Accanto al bello e al sublime, un rilievo non minore hanno acquistato altre categorie estetiche come l’ironia, il tragico, la raffinatezza e l’acutezza: è infatti attraverso queste categorie che il campo estetico cerca di difendersi, di preservarsi e di rinnovarsi contro il dilagare della barbarie, del conformismo, dell’ignoranza, della rozzezza e della maleducazione (Dorfles 2008).

L’estetica italiana del periodo che prendiamo in esame presenta una grande ricchezza di autori e di opere: tuttavia essa è in massima parte riportabile a sei linee speculative fondamentali che costituiscono altrettante risposte al problema degli opposti. Tutte e sei si muovono verso direzioni diverse dalla dialettica e dall’organicismo, ma sono profondamente differenti tra loro: esse vanno verso la riscoperta del bello inteso come drastica riduzione della conflittualità, verso una presentazione ironica del rapporto degli opposti tra loro, verso l’esperienza di una opposizione massima non dominabile dal soggetto, verso un ripensamento della nozione di tragico, verso il compromesso estetico di un conflitto maggiore di quello simmetrico tanto dialettico quanto polare, verso la lotta per la rinascita del sapere e del gusto estetico dopo la catastrofe della comunicazione massmediatica. Ognuna di queste sei tendenze contiene un numero di pensatori maggiore di quelli qui citati: per evidenti ragioni di concisione e di chiarezza espositiva mi sono limitato a concentrare la mia attenzione su un numero più contenuto autori e di opere.

Questo studio è centrato su un unico problema di carattere teoretico, la questione del conflitto. Pertanto sono rimasti esclusi dalla sua analisi i numerosissimi e altamente qualificati studiosi che si sono dedicati alla storiografia dell’estetica. L’estetica italiana ha prodotto alcune centinaia di studi, spesso dotati di un’estrema erudizione e di una grande finezza filologica, che assai spesso hanno costituito il punto di partenza della riflessione teoreretica degli autori oggetto del presente studio. In questo settore il contributo più imponente è stato recato da Luigi Russo, che per trent’anni con instancabile alacrità e indomita energia intellettuale ha promosso e curato, attraverso le edizioni “Aestetica”, le attività del Centro Internazionale Studi di Estetica di Palermo e i convegni della Società Italiana di Estetica, la pubblicazione di decine di classici antichi e moderni e di moltissimi volumi collettivi o di autori singoli focalizzati sui più importanti problemi dell’estetica. La cultura italiana ha un enorme debito di riconoscenza nei confronti dei tanti traduttori e curatori che hanno dedicato anni della loro vita in modo del tutto disinteressato, per pura passione del sapere, all’edizione in italiano di opere di estetica, spesso difficilmente reperibili nelle lingue in cui sono state scritte. Né va dimenticato che anche i testi fondatori della disciplina sono state oggetto di un’attenzione che non ha uguali nelle altre nazioni: basti dire che noi disponiamo oggi di ben quattro differenti traduzioni italiane della Critica del giudizio di Kant, una delle quali dovuta ad uno dei più influenti professori di quest’epoca, Emilio Garroni (1925-2005) e un’altra ad un raffinatissimo filologo, Leonardo Amoroso.

Sono rimasti esclusi da questa monografia anche un vasto numero di studiosi che hanno concentrato il proprio lavoro su singole arti, come Pietro Montani per il cinema, Enrico Fubini per la musica, o su territori poco frequentati dalla tradizione, come Lucia Pizzo Russo per il disegno infantile e Grazia Marchianò per l’estetica orientale.

 

Radici storiche e socio-antropologiche

I sei orientamenti fondamentali dell’estetica italiana di questo periodo non rappresentano soltanto un contributo teoretico di grande valore allo sviluppo dell’estetica filosofica mondiale, ma forniscono delle chiavi ermeneutiche che consentono l’accesso a modelli psico-antropologici di lunga durata, profondamente radicati nella cultura e nella storia dell’Italia, che riemergono a distanza di secoli presentandosi sotto nuovi aspetti.

Nei teorici dell’armonia si avverte un’eco della spiritualità francescana così come nei pensatori ironici viene riattivato un atteggiamento burlesco, derisorio e beffardo nei confronti del mondo intero che ha profonde radici nella poesia e nella cultura italiana del basso Medioevo e del Rinascimento. Il pensiero tragico ha invece in Italia un retroterra storico molto più recente e limitato alle aree geografiche in cui il protestantesimo ha esercitato una influenza più o meno sotterranea. Il perfezionismo manieristico che si manifesta nei teorici della raffinatezza e dell’arguzia appartiene invece alla nostra più alta tradizione estetica. Tuttavia la strada più seguita dalla maggior parte degli estetici italiani di questo quarantennio è stata quella del sublime naturalistico e del vitalismo mortifero che lo accompagna: prima dell’opera buffa di Rossini, il pensiero della “vita nuda” ha il suo precedente archetipico nel personaggio del poema comico di Luigi Pulci, il Morgante, nel quale il semi-gigante Margutte, muore dal ridere. Quanto all’ultima tendenza che qui abbiamo esaminato, l’acutezza e l’ideale del filosofo come guerriero, essa ha in Italia un retroterra bimillenario, perché affonda le sue radici nell’unica corrente della filosofia greca antica, che abbia formato la classe dirigente romana e successivamente quella italiana per quasi un millennio: lo stoicismo.

Come si è detto, il problema teorico che le sei tendenze qui esaminate cercano di risolvere è quello del conflitto tra gli opposti. Non è un caso che tutti gli autori qui trattati abbiano vissuto la crisi socio-politica italiana del decennio 1968-78. Questa è l’esperienza storica recente che li accomuna: la differenza tra loro riguarda le differenti risposte che hanno dato al crollo di tutte le certezze politiche e culturali che quel decennio ha rappresentato. Un altro elemento che li accomuna è il fatto che nessuno di loro sia stato organico, nel senso gramsciano della parola, ad un progetto istituzionale o politico di qualsiasi tipo. Sono stati tutti dei r?nin, vale a dire dei samurai senza padrone o letteralmente “uomini onda”. A differenza dei famosi 47 r?nin dell’epopea giapponese, che erano rimasti legati da un progetto comune, che consisteva nel vendicarsi di chi aveva ucciso il loro signore, i pensatori italiani sono stati individualisti al punto di non leggersi o di fraintendersi completamente: è paradossale che autori che dicevano le stesse cose, pur conoscendosi talvolta personalmente e partecipando agli stessi convegni, non se siano accorti o non abbiano prestato attenzione ai discorsi degli altri. Tale aspetto caratterizza questa generazione di pensatori e segna una differenza profonda nei confronti della generazione precedente che invece era estremamente attenta ai testi dei colleghi e degli allievi. Valga per tutti il caso di Luigi Pareyson, che fu una figura organica della filosofia italiana negli anni Sessanta e attento studioso dei testi degli altri filosofi italiani suoi colleghi (Pareyson 1993 b, postumo).

Dal punto di vista geografico, la quasi totalità degli autori esaminati provengono da tre aree: il Piemonte, il Lombardo-Veneto e la Toscana, con un’importante appendice siciliana che risale all’influenza di Pirandello. Chi ha studiato altrove, si è successivamente spostato in una di queste aree. Non è facile dare una spiegazione a questo fenomeno. Dal punto di vista antropologico, il fatto che la tendenza naturalistica abbia raccolto il maggior numero di filosofi dipende dal carattere recente dell’urbanizzazione italiana: resta nei pensatori del sublime naturalistico qualcosa di rurale. Si avverte in questi autori lo scandalo del campagnolo che va in città e scopre che la civiltà è una sentina di vizi e di menzogne!

Dal punto di vista sociale, la maggioranza degli autori qui presi in esame ha appartenuto alla piccola-media borghesia, spesso provinciale, che ha avuto la fortuna di vivere in quella parentesi di mobilità sociale che sono stati gli anni Sessanta-Settanta, nella quale al prestigio del professore e dell’intellettuale ereditato dalla tradizione, si aggiungeva l’attrattiva del radical thinker, del pensatore alternativo sostenuto dai media, la cui massima personificazione era a quel tempo rappresentata da Herbert Marcuse. Nelle generazioni successive, tanto il prestigio del primo quanto l’attrattiva del secondo sono andati scomparendo, mentre è andato crescendo l’interesse per l’autore rimasto totalmente sconosciuto (come Andrea Emo) oppure rivalutato molti decenni dopo la sua morte (come Carlo Michelstaedter). Si tratta però di modelli tutt’altro che seducenti per i giovani!

Si spiega così il fatto che l’estetica italiana abbia nel corso degli ultimi anni allentato lo stretto rapporto che ha sempre intrattenuto con la letteratura, la storia e la politica e, per imitazione a quanto avviene nell’accademia americana, adottato uno stile di pensiero e di scrittura più vicino al sapere scientifico che a quello umanistico. Il libro di Maurizio Ferraris, Estetica razionale (1997) segna uno spartiacque, ed è tanto più significativo perché è opera di un autore, che per molti anni ha praticato la cosiddetta “filosofia continentale”, recando un contributo importante allo studio dell’ermeneutica e del decostruzionismo. Inoltre anche nell’estetica italiana, tradizionalmente influenzata dal pensiero francese e tedesco, è emersa una speciale attenzione nei confronti della filosofia analitica anglo-sassone. Questa svolta costituisce una conferma dei termini cronologici del presente studio, che riguarda esclusivamente i pensatori che hanno attraversato i burrascosi anni Settanta e si sono confrontati col crollo del rapporto tra sapere e potere di cui sono stati testimoni in quel decennio.

Questo rapporto non si è affatto ricostituito nei decenni successivi, ma gli studiosi che si sono formati successivamente ne sono stati poco consapevoli, perché hanno conosciuto situazioni accademiche completamente differenti. La soppressione dell’istituto della libera docenza (1970) che premiava innnanzitutto l’originalità dei contributi e considerava il filosofo come un maître à penser in senso lato, cioè uno studioso potenzialmente coinvolto in tutti i problemi della sua epoca, seguita dall’istituzione dei dottorati di ricerca (primi anni Ottanta) ha introdotto anche nella filosofia uno specialismo angusto e funzionale esclusivamente alla carriera accademica. I decenni Ottanta e Novanta hanno prodotto una quantità di lavori storiografici di alto livello su autori prevalentemente tedeschi e francesi, che essendo scritti in italiano, non sono stati letti quasi da nessuno. Il tarlo dello specialismo eccessivo che ha prodotto effetti assolutamente deleteri nelle scienze naturali (Lucio Russo 2008) è penetrato anche nella filosofia, facendo dimenticare che la filosofia è qualcosa di intermedio tra la letteratura e la scienza, che essa intrattiene un rapporto di coappartenenza essenziale con la lingua in cui è scritta e che essa implica una conoscenza teoreticamente orientata dell’intera storia della filosofia dai Greci fino ad oggi. La destabizzazione completa dell’università italiana cominciata nel 1996 e perseguita con incredibile ostinazione negli anni successivi (Lucio Russo 2003) ha portato all’attuale collasso, da cui si cerca di venire fuori adottando in modo acritico, confuso e tendenzioso modelli americani che si sono rivelati assolutamente perniciosi anche negli Stati Uniti e che in ogni caso nulla hanno che fare con la realtà culturale, sociale e politica italiana.

La globalizzazione del sapere secondo il modello dell’Impact Factor, secondo il quale il valore di una ricerca viene giudicata dal numero delle citazioni che riceve nelle riviste che sono socie dell’”Institute of Scientific Information” (ISI), la quale costituisce una gigantesca impresa commerciale del sapere (Figà Talamanca, 2000), ha dato il colpo di grazia definitivo. Il profondo malessere in cui è caduta la filosofia italiana, di cui l’estetica costituisce un settore, non si risolve facendo delle riviste in inglese, o cercando di essere pubblicati in quelle riconosciute dall’ISI o da qualche agenzia pseudomeritocratica nazionale, ma ricuperando il rapporto con una cultura nazionale condivisa, con la sua eredità storica e con i suoi problemi sociali attuali.
Le generazioni più giovani di studiosi dovranno rendersi conto che oggi si trovano ancora dinanzi allo stesso problema che ha assillato quanti hanno vissuto gli anni Settanta: la questione di come pensare il conflitto. Oggi esso si presenta in termini molto più duri e gravi di allora: sembra che l’ostilità nei confronti della libera ricerca abbia a poco a poco conquistato tutti i luoghi istituzionali del sapere, i quali ormai accuratamente e sistematicamente impediscono agli studenti di acquisire quell’insieme di conoscenze filosofiche e storiche basilari che consentono di criticare la situazione attuale.
Il progetto che sta alla base della rivista “Ágalma” è nato dieci anni fa per contrastare l’oscurantismo dilagante. “Ágalma” resterà fedele a questo progetto iniziale e non cederà a nessun ricatto da qualsiasi parte provenga.

Mario Perniola