Ivelise Perniola – Non riconciliati e offesi: il cinema contro di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet


Ce qui fait le peintre, c’est la distance
(Paul Cézanne)

 

Jean-Marie Straub e Danièle Huillet sono, insieme a Chris Marker, gli ultimi irriducibili e incorruttibili della settima arte; restii a qualsiasi compromesso, orgogliosi della loro inattaccabile alterità, chiusi in una torre d’avorio, al riparo dalla volgarità e dal cinico mondo dei ‘cinematografari’, vivono in un universo a parte, nel quale è difficile penetrare. Straub e Huillet rappresentano un modo di pensare che è lontano anni luce dalla nostra contemporaneità. Essi lanciano acuminati strali contro il degrado dell’uomo tecnologico, contro la dilagante falsificazione dei corpi e delle merci, contro il mercato globale, contro il  falso sviluppo pilotato dai nuovi fascisti del capitalismo avanzato. Da circa quaranta anni gli Straub perseguono con pervicace coerenza la poetica tutta personale di un cinema scevro da ogni sensazionalismo, da ogni spettacolarità gratuita e caratterizzato da una serietà e una misura che non ha eguali. Da trent’anni vivono in Italia e attendono la patente (da sempre inspiegabilmente negatagli) di cineasti italiani. Il gran rifiuto che il cinema italiano oppone agli Straub non fa altro che accrescere il loro isolamento e la loro libertà da qualsiasi vincolo; ciò che sembra un limite diventa, nel loro caso, il punto di forza di un cinema che non ha né padroni, né patria.

Gli Straub sono gli ultimi combattenti del cinema, gli ultimi a credere ancora nelle possibilità eversive e rivoluzionarie di un mezzo sempre più vicino al mercato e sempre più lontano dall’arte. Ciò che tuttora stupisce è la straordinaria coerenza che contraddistingue il loro cinema,  sin da Machorka-Muff (1962), tratto da Heinrich Böll, fino al più recente Sicilia! (1998), tratto da Conversazioni in Sicilia di Elio Vittorini, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet hanno continuato a muoversi sulle linee di un cinema di chiara derivazione letteraria e di impeccabile severità formale. Le sperimentazioni con il suono e il metodo di direzione degli attori sono altrettanti capisaldi di una filmografia che può essere letta sotto la luce di un progressivo e continuo lavoro su se stessi e sul mezzo cinematografico. Conoscere il cinema degli Straub significa imparare a seguire un percorso che necessita fedeltà e dedizione, significa capire meccanismi che il mondo nel quale viviamo tende ad allontanare da noi, significa entrare in una ragione aliena dal ragionare comune, ma che fa della propria razionalità il punto di forza.

Qualche accenno biografico volto a illuminare l’ambiente nel quale i due cineasti si sono formati ci sembra d’obbligo. Jean-Marie Straub nasce a Metz, in Lorena, l’8 gennaio 1933. Dopo la liberazione frequenta il liceo prima dai Gesuiti, poi in una scuola statale. Fra il 1950 e il 1954 dirige un cineclub a Metz e nello stesso tempo continua i suoi studi universitari, prima a Strasburgo e poi a Nancy. Alla fine del 1954 si trasferisce a Parigi, dove incontra Danièle Huillet. Diventa assistente di Jacques Rivette per Le coup du berger. Nel giugno del 1958 abbandona la Francia per l’Olanda, per poi trasferirsi in Germania. Viene condannato in contumacia ad un anno di prigione per essersi rifiutato di fare il servizio militare durante la guerra d’Algeria. Rimane a Monaco sino al 1969, quindi si trasferisce a Roma insieme a Danièle  Huillet.

Danièle Huillet nasce a Parigi il 1 maggio 1936. Cresciuta in campagna fino all’adolescenza, ritorna a Parigi nel 1948, dove studia al liceo Jules Ferry. Frequenta l’Institut des Hautes Etudes Cinématographiques, ma si rifiuta di scrivere sul film Manège di Yves Allégret, che ritiene non degno di una prova d’esame.

Analizzando il cinema di Straub e Huillet si notano alcune costanti, che denotano la presenza di una forte etica-poetica dai contorni facilmente definibili. Karl Marx e Bertolt Brecht  sono i primi e più ovvi riferimenti. È stato dato grande rilievo al rapporto che lega Brecht ai due cineasti: l’influenza brechtiana più evidente è data dalla scelta di distanziare emotivamente lo spettatore, attraverso una recitazione fortemente meccanica e un totale rifiuto alla fedeltà storica dei fatti rappresentati. Tale scelta porta ad esempio gli interpreti di Othon (1969), tragedia di Pierre Corneille ambientata nell’antica Roma, a parlare in lingue differenti e con lo sfondo rumoroso del traffico della metropoli contemporanea. L’anacronismo, così sfacciatamente ostentato, trasforma i film di Straub-Huillet in altrettante piccole parabole metastoriche. Il passato si attualizza in un presente che trascende da ogni lezione e che continua a ricadere nei medesimi errori e in altri ben più gravi. I punti cruciali del rapporto Straub-Brecht si articolano attraverso tre opere capitali nella filmografia del regista francese: Nicht Versohnt (1964, Non riconciliati, o Solo violenza aiuta dove violenza regna), Geschichtsunterricht (1972, Lezioni di Storia) e Einleitung zu Arnold Schönberg “Begleitmusik zu einer Lichtspielscene”(1972, Introduzione alla “Musica per una scena di film” di Arnold Schšnberg). In tutti i tre film citati vi è un diretto ed esplicito riferimento al drammaturgo tedesco; il sottotitolo di Nicht Versohnt è una citazione dalla Santa Giovanna di Brecht ed è immediatamente seguito da un’altra importante affermazione brechtiana: “L’attore, invece di voler dare l’impressione di improvvisare, dovrebbe mostrare piuttosto cosa è la verità: citare”.

Nel cinema di Straub e Huillet, l’attore cita un testo a sua volta citato dai due  registi: la citazione altrui depaupera la scrittura della sua carica emotiva, del vissuto storico e personale. Ciò che rimane, dall’autore al regista e dal regista all’attore, è il pensiero puro e distillato. Il risultato di tale operazione di depurazione (che lega il metodo di  Straub e Huillet a quello del grande maestro Robert Bresson) è un cinema straordinariamente essenziale, che arriva diritto allo scopo, senza perdersi in inutili concessioni di rimpolpamento narrativo.

Dalla Verfremdung brechtiana  alla Entfremdung marxista il passo è breve. Come scrive in un interessante intervento Jane Madsen: “Straub, in alcune interviste, ha definito sia Moses und Aron (1974-75, Mosè e Aronne) che Geschichtsunterricht  delle “riflessioni marxiste”. Per Straub e Huillet la riflessione è importante, così, dire che Moses und Aron  non è altro se non una riflessione storica, non è né falsa modestia né denigrazione, ma significa suggerire che il film deve essere letto prima di tutto e principalmente come una riflessione storica, al di là di altre facili interpretazioni”1. La Storia diventa, seguendo l’insegnamento di Marx, un modo di considerare il presente come il primo gradino verso il cambiamento radicale della società. Tuttavia, l’ottimismo pragmatico che ha caratterizzato le prime opere di Straub e Huillet sembra aver lasciato il posto ad un pessimismo teorico che non lascia via di scampo. Il capitalismo ha vinto su tutti i fronti e la distruzione del mondo da parte dell’uomo stesso sembra quanto mai imminente. L’intera opera di Straub e Huillet potrebbe essere letta all’insegna di una illuminante affermazione di Marx: “Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno a loro piacimento; essi non la fanno secondo circostanze scelte da essi stessi, ma sotto circostanze direttamente incontrate, date e trasmesse dal passato”2.

Il suono, la musica e la recitazione sono solo alcuni degli elementi che rendono il cinema di Straub e Huillet lontano anni luce dalla comune produzione. L’emissione vocale degli attori si sposa perfettamente con lo scandire del ritmo musicale. La voce umana, il rumore e la musica creano un insieme inseparabile e sovente indiscernibile. Le parole si legano tra loro come in una cantilena (pensiamo in particolare a Othon e a Sicilia!); lo spettatore incomincia a percepire le diverse lingue e i dialetti come note musicali, liberandosi dalla necessità della decodifica. Siamo del parere che i film di Straub e Huillet vadano visti almeno due volte: la prima per cogliere i suoni, la seconda per capire le parole. La preparazione attoriale è una delle fasi salienti del lavoro dei due registi. Sia Sicilia! che l’ultimo lavoro (nel momento in cui scriviamo in piena fase di montaggio) Operai, contadini, personaggi, costellazioni e testi, tratto da Donne di Messina di Elio Vittorini, hanno avuto più di cinque mesi di prove, culminati in una rappresentazione teatrale a Buti (Pisa). “Il lavoro teatrale rappresenta il momento di elaborazione del materiale testuale che poi viene trasferito nell’opera cinematografica, realizzata in parallelo, con i medesimi interpreti”3. Il nuovo metodo di lavoro di Straub e Huillet apre inedite prospettive nella teoria dei legami tra cinema e teatro; un campo ancora poco analizzato e che al giorno d’oggi, contrariamente ad ogni previsione, vede nuovi inaspettati sviluppi. Ci sembra quanto mai interessante scoprire il modo in cui la prova teatrale diventa propedeutica alla ripresa cinematografica.  È possibile, inoltre, parlare di una rinascita del teatro come fonte elaborativa di teoria e di prassi cinematografica? L’analisi del recente lavoro degli Straub potrebbe fornire una parziale risposta  a tali interrogativi.

Accanto al teatro, la letteratura si presenta come il polo centrale intorno al quale ruota tutta la filmografia degli Straub. Sebbene essi minimizzino il rapporto che li lega con la parola scritta, è tuttavia innegabile che quasi la totalità dei loro film è tratta da opere letterarie. Heinrich Böll, Pierre Corneille, Bertolt Brecht, Franco Fortini, Stephane Mallarmé, Cesare Pavese, Marguerite Duras, Franz Kafka, Friedrich Hölderlin e Elio Vittorini, sono solo alcuni degli autori cari a Straub e Huillet. Il riferimento ad un’opera letteraria permette di trasformare il vissuto altrui in vissuto universale, creando un secondo grado della scrittura cinematografica che libera il testo del suo hic et nunc per renderlo universalmente leggibile e assimilabile. L’autore cinematografico sparisce così dietro l’autore letterario, attraverso una operazione di progressiva cancellazione della propria identità storico-biografica.

A distanza di quarant’anni dal film d’esordio Machorka-Muff, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet continuano a lottare contro il nemico storico della sinistra più integralista: il capitalismo. Nel nuovo millennio il capitalismo si identifica con il mercato globale, Internet, sperimentazione genetica e biotecnologie. Come in un cerchio perfetto la solitudine anacronistica di Straub e Huillet  si trova a coincidere con le rivolte dei giovani di Seattle e con le lotte contro le multinazionali alimentari del “contadino” francese Bovè. Tutto torna, tutto ruota; Gli Straub richiamano spesso il fatto che l’ultima parola di Sicilia!  fosse  “dinamite”;  siamo seduti sopra un bomba ad orologeria e lo sappiamo benissimo, ma continuiamo a vivere edonisticamente in un vortice di autodistruzione, fin quando: “il culto del progresso e dello sviluppo non ci condurranno ad una catastrofe!”4. A noi rimane la consolazione di attendere la catastrofe insieme al cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet.

 

 

Note

1. J. Madsen, Cutting Through the Seventies to Find the Thirties: A Consideration of “Fortini-Cani” as Marxist Reflection, in T. O’Regan & B. Shoesmith, eds., History on/and/in Film, Perth, History & Film Association of Australia, 1987, pp.159-165.

2. K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1964.

3. G. Manzella, Straub, sguardi migranti, “Il Manifesto”, martedi 6 giugno 2000.

4. F. Bonnaud, Purs et tendres: rencontre avec Jean-Marie Straub et Danièle Huillet, “Les Inrockuptibles”, n. 212, septembre 1999.

 

 

Filmografia

1962 Machorka-Muff, cortometraggio, da Heinrich Böll.

1964-65 Nicht versönt oder Es hilft  nur Gewalt, wo Gewalt herrscht (Non riconciliati, o solo violenza aiuta dove violenza regna), mediometraggio, da Heinrich Böll.

1967-68 Cronik der Anna Magdalena Bach (Cronaca di Anna Maddalena Bach), da Philip-Emmanuel Bach e dalle lettere di Johann Sebastian Bach.

1969 Der Bräutigam, die Komödiantin und der Zuhälter (Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano), cortometraggio, da Ferdinand Bruckner e San Juan de la Cruz.

1969 Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer ou peut-etre qu’un jour Rome se permettra de choisir à son tour, noto come Othon, da Pierre Corneille.

1972 Geschichtsunterricht (Lezioni di storia), da Bertolt Brecht.

1972 Einleitung zu Arnold Schönberg “Begleitmusik zu einer Lichtspielscene” (Introduzione alla “Musica per una scena di film” di Arnold Schönberg), cortometraggio.

1974-75 Moses und  Aron (Mosè e Aronne), dall’omonima opera di Arnold Schönberg.

1976 Fortini-Cani, da  I cani del Sinai di Franco Fortini.

1977 Toute rèvolution est un coup de dès (Ogni rivoluzione è un colpo di dadi), cortometraggio, da Stéphane Mallarmé.

1978 Dalla nube alla resistenza, da Cesare Pavese.

1980-81 Trop tôt, trop tard (Troppo presto, troppo tardi), da una lettera di Friedrich Engels a Kautsky e dalla postfazione al libro di Mahmoud Hussein Lotte di classe in egitto (1969).

1982 En recherchant, cortometraggio, da  Oh, Ernesto di Marguerite Duras.

1983 Klassenverhältnisse (Rapporti di classe), da Amerika di Franz Kafka.

1986 Der Tod des Empedokles oder Wann dann der Erde Grün von neuem Eucherglänz (La morte di Empedocle, o Quando allora il verde della terra di nuovo brillerà per voi), da Friedrich Hölderlin.

1988 Schwarze Sünde (Peccato nero), mediometraggio, da Friedrich Hölderlin.

1990 Cézanne, mediometraggio, da Joachim Gasquet.

1991-92 Antigone, da Sofocle/Hölderlin/Brecht.

1994 Lothringen!, cortometraggio, da Maurice Barrès.

1996 Von heute auf Morgen, da Arnold Schönberg.

1998-99 Sicilia!, da Elio Vittorini.

 

 

Riferimenti bibliografici

Adriano Aprà, (a cura di), Jean-Marie Straub – Danièle Huillet. Testi Cinematografici, Roma, Editori Riuniti, 1992.

Peter W. Jansen / Wolfram Schütte, Herzog, Kluge, Straub, München, Carl Hanser Verlag, 1976.

Franco Pecori, Il laboratorio di J.-M. Straub e D. Huillet, Venezia, La Biennale, 1975.

Richard Roud, J.-M. Straub, New York, Viking, 1972.

Intervista a Jean-Marie Straub e Danièle Huillet

D. La vostra opera è stata spesso definita “saggistica”. Lo studioso americano Phillip Lopate, professore alla Hofstra University, ritiene che un film, per essere considerato saggistico, debba attenersi a cinque punti: 1) il film saggio deve avere parole, recitate, scritte o intertitolate, purché siano parole; questo esclude dal suo campo l’era del muto e i flussi di immagini; 2) il testo deve rappresentare una singola voce; perciò un collage di citazioni non è un film saggio; 3) il testo deve mostrare lo sforzo di tirar fuori alcune ragionate linee di discorso su di un problema; in altre parole è indispensabile un tema definito e chiaro; 4) il testo deve fornire più che semplici informazioni: esso deve sostenere un forte e personale punto di vista; 5) il linguaggio del testo deve essere il più eloquente, ben scritto e interessante possibile. Ritenete questi cinque punti conformi alla vostra opera cinematografica? Accetereste un’eventuale classificazione della vostra opera sotto l’etichetta di film-saggio?

R. Saggistica… la definizione di quell’americano lì, insomma, è appena divertente.Insomma, non vorrei essere cattivo, ma un ragionamento, una mentalità così, è quella del novanta per cento degli intellettuali americani, lui ragiona semplicemente come i funzionari della CIA, ragionano così anche se non sono tutti impiegati della CIA, ma il ragionamento è sempre lo stesso anche con buone intenzioni, ma l’Inferno è sempre un pavimento di buone intenzioni. Ma lasciamo stare… Se abbiamo fatto dei film saggistici? Ce ne sono pochi, ci sarebbe, primo Fortini-Cani,  che è un film italiano, questo corrisponderebbe più o meno a quella definizione tremenda e infantile. L’altro sarebbe la seconda parte di un film che si chiama Troppo presto, troppo tardi, questa seconda parte dura un’ora e un quarto (il Fortini dura un’ora e venti), è sull’Egitto, la prima parte invece non è saggistica per nulla, è girata in Francia e dura mezz’ora, la seconda di un’ora e un quarto, la parte egiziana, potrebbe essere chiamata saggistica. Poi c’è un film di quattordici minuti e trenta secondi che si chiama Introduzione alla “Musica d’accompagnamento per una scena di film” di Arnold Schönberg, che è del ’72. Mentre il film egiziano è del 1981. Il Fortini, ci siamo divertiti, quando era finito, a dire che è un film che fa il giro di una questione, che gira dall’interno all’esterno… è proprio un film che fa il giro di una questione, in questo senso possiamo accettare una parte della definizione di Philip Lopate. Tutti gli altri film che abbiamo fatto non sono saggistici per nulla, sono opere di finzione, sono opere con personaggi, hanno sempre un ventaglio molto aperto di personaggi opposti, diversi e di situazioni di finzione diverse, completamente opposte, come un ventaglio che tentiamo sempre di aprire al massimo; si potrebbero  chiamare, in maniera pretenziosa, qualche volta, film di poesia, come diceva Pasolini… ma non vedo perché… sono dei film classici, di finzione… a parte questi tre.

D. Tutti i vostri film sono tratti da opere letterarie o teatrali. Non avete mai pensato di scrivere una sceneggiatura originale? Come vi relazionate alla problematica dell’adattamento?

R. Non è vero che tutti i nostri film sono tratti da opere letterarie o teatrali. Per esempio, Troppo presto, troppo tardi non ha nulla a che fare con un’opera letteraria o con un testo teatrale. Cronaca di Anna Magdalena Bach in realtà era il nostro primo progetto, ma abbiamo dovuto aspettare dieci anni per poterlo realizzare, era un progetto del 1954 e l’abbiamo potuto finalmente girare nel 1967 e non ha niente a che fare con un’opera letteraria o teatrale.  E poi perché dovremmo aver pensato di scrivere una sceneggiatura originale? L’abbiamo fatto appunto per Cronaca di Anna Magdalena Bach; non esiste nessun diario, nessun giornale neanche letterario di Anna Magdalena Bach. Lei racconta una storia d’amore che abbiamo ricavato da documenti. È un’invenzione nostra. La  stessa cosa vale per il titolo che ho citato Troppo presto, troppo tardi. Un altro film del quale abbiamo inventato noi il racconto, la storia, la costruzione, si chiama Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano, che è del 1969 e dura 22 minuti, e anche se c’è in mezzo un blocco teatrale, tutto il resto intorno… il prima e il dopo è invenzione nostra. Poi non vedo perché si dovrebbero inventare delle sceneggiature originali, una sceneggiatura originale viene sempre scritta insieme ad uno sceneggiatore, nel novantanove per cento dei casi, questo vale per il cinema hollywoodiano, vale per il cinema sovietico, per il cinema giapponese, anche per Mizoguchi, vale per Renoir, vale per Jacques Rivette… scrivono delle sceneggiature con una o due persone, più spesso una. La differenza tra noi e queste persone è che loro sono in vita, noi preferiamo scrivere una sceneggiatura con una persona già morta. Il dialogo è molto più profondo, originale, ricco con uno  morto  che con uno vivo. Perché uno morto non può più permettersi di nuotare nei clichés. Non ne ha più bisogno. Poi, il problema dell’adattamento, per finire con questa seconda domanda… l’adattamento! Prendiamo una parte sola del nostro lavoro, i film tratti da romanzi sono cinque: primo, dal romanzo di Heinrich Böll, degli anni Cinquanta, abbiamo tratto un film che si chiama Non riconciliati o Solo violenza aiuta dove violenza regna, è un tipo, come lei lo chiama, di adattamento; il secondo era un romanzo di Brecht, che si chiama Gli affari del signor Giulio Cesare, che ha scritto durante il nazismo, in Svezia e un po’ negli Stati Uniti. Abbiamo preso trenta pagine di questo romanzo per farne un film di novanta minuti. E il romanzo è lungo trecento pagine, è un tipo di adattamento, come si dice, completamente diverso dall’altro film. Poi, un terzo film è tratto da un  romanzo di Kafka; il nostro film si intitola Rapporti di Classe e il romanzo di Kafka si chiamava Amerika, ma lui non voleva chiamarlo così, hanno approfittato del fatto che era già morto per battezzarlo Amerika, ma in realtà Kafka voleva chiamarlo Lo scomparso. E questo è un terzo tipo di adattamento completamente diverso dai due precedenti. Il quarto è un altro romanzo, il quarto è un film di trenta minuti che si intitola Lothringen!, che è la parola tedesca per Lorena, con il punto esclamativo, come Sicilia!, e questo film ha come base dieci pagine di un romanzo di trecento pagine, dal titolo Colette Baudoche, che era di uno scrittore, più o meno di destra, del primo dopoguerra in Europa, o anche un po’ prima. Il quinto film tratto da un romanzo è un altro sistema, metodo di adattamento ancora diverso, si chiama Sicilia!  In realtà non abbiamo mai adattato un testo letterario, questo lo fa l’industria, lo fanno i produttori per creare un plot. Loro prendono un plot, noi prendiamo dei dialoghi, è completamente diverso. Loro invece lasciano da parte i dialoghi e scrivono dei cosiddetti dialoghi per il cinema, adattano, nel senso stretto un plot, che naturalmente viene completamente falsificato. Noi non l’abbiamo mai fatto, non ci interessa. Un romanzo è letteratura come tale. Ci interessa perché in un romanzo troviamo delle domande o delle risposte che ci siamo già fatti dieci anni prima o tre anni prima o trent’anni prima. È un incontro! Poi si deve dire che il cineasta, tra i più originali se non il più originale della storia del cinema, che si chiamava Carl Theodor Dreyer, non ha mai inventato un soggetto originale, ha sempre preso i suoi soggetti altrove. Allora non vedo perché condannarsi ad una sceneggiatura cosiddetta originale per fare un film meno originale di quello che può essere partendo da una cosa che esisteva prima.

D. Sicilia! prima di diventare un film su pellicola è stata una rappresentazione teatrale, svoltasi a Buti, in provincia di Pisa, nella Pasqua del 1998. Il passaggio dal teatro al cinema è stato utile? Si può parlare, a proposito di quest’esperienza, di un laboratorio pre-cinematografico aperto al pubblico? Quali sono i vantaggi che il teatro vi offre rispetto al cinema?

R. Cosa vuol dire è stato utile, in quale senso?

D. Se vi è servito per mettere a fuoco meglio il tipo di film che volevate realizzare.

R. No, la risposta è chiaramente no! Avevo messo su carta nell’estate del ’92 i dialoghi di questo film e poi Danièle li ha tirati fuori un anno prima di fare il film, cioè sei anni dopo. Abbiamo detto insieme subito: questo film si può fare, solo se abbiamo la possibilità di trovare da qualche parte gente, siano attori  professionisti o non-professionisti, che ci possano regalare quasi ogni giorno due, tre, quattro ore anche il sabato e la domenica, minimo due ore, durante quasi tre mesi, per lavorare e scoprire il testo insieme a loro. In questo caso abbiamo detto si fa lì… c’era una proposta del teatro di Buti da quasi sette anni e noi non sapevamo cosa fare per loro e poi abbiamo scoperto che non avevano una troupe teatrale fissa ma che gli attori venivano da fuori. Allora abbiamo detto, facciamo la cosa per voi… quattro rappresentazioni teatrali, non una… quattro! La facciamo con attori del luogo, cioè intorno a Pontedera, Pisa, Buti, Lucca, ma che siano siciliani di origine assolutamente e tra una cinquantina ne abbiamo scelti dieci. Ci è servito per preparare gli attori al film, il che non vuol dire che… la risposta alla sua domanda è comunque contraria. Noi abbiamo usato quella piattaforma teatrale per tre mesi di prove con queste persone e abbiamo tentato di fare una cosa che fosse veramente teatrale, senza mai pensare al nostro cinema. Abbiamo fatto quattro rappresentazioni teatrali in uno spazio veramente teatrale e non come fa il novanta per cento dei registi teatrali famosi attualmente (da quasi quarant’anni), che vogliono imitare il cinema perché hanno paura del teatro, una paura panica, tremenda e di qualsiasi testo che scelgono tentano di fare del cattivo cinema. Noi non abbiamo bisogno di provare che siamo capaci di fare anche un po’ di cinema e abbiamo fatto del teatro. Io ho detto loro: “Questo si fa così, non ci si muove, sarà teatro quasi greco!”. Il testo di Vittorini non è un testo di teatro greco, è il testo di un romanzo, che d’altronde non esiste come dialoghi, perché non ci sono dialoghi nel romanzo, sono tutti interrotti dopo mezza frase, due parole, da riflessioni psicologiche; per esempio, il colmo è alla fine con la madre lui dice: “Mentre la guardavo pensavo… benedetta puttana” e poi il testo della madre continua, ma tutto il dialogo è così e invece noi ne abbiamo fatto un dialogo teatrale, per fare queste rappresentazioni teatrali e pensando che dopodiché gli attori sarebbero stati pronti per fare delle riprese fuori, in Sicilia o anche in Toscana, pronti ad approfondire ancora questo testo, inquadratura dopo inquadratura, invece della continuità del palcoscenico e della scena  teatrale. È tutto, non vedo come funziona la domanda… non era un laboratorio pre-cinematografico, era un lavoro teatrale che serviva per preparare degli attori a stare davanti alla macchina da presa per fare un film completamente diverso, che io ritengo così cinematografico come era il lavoro teatrale, specificatamente teatrale. Poi d’altronde quel metodo lì lo avevamo già sperimentato ma con un misto di attori non-professionisti e professionisti provenienti dal teatro stesso e da fuori, con il nostro film precedente che si chiama Antigone, che è il testo di Brecht dell’Antigone con traduzione di Hölderlin da Sofocle, ma ripresa da Brecht nel 1944. E lì abbiamo fatto la stessa esperienza, ma a Berlino, con il teatro della Schaubühne. Era la seconda volta che facevamo questa esperienza, ma anche lì a Berlino abbiamo fatto una cosa puramente teatrale e non un cattivo film sul palcoscenico. Il film l’abbiamo fatto dopo, come Sicilia!.

D. Tempo fa, in un’intervista ha dichiarato: “Le metafore mi fanno orrore”. Crede veramente alla possibilità di un’arte fuor di metafora?

R. La frase “Le metafore mi fanno orrore” non so da dove viene. In un’intervista mia? È vero che sin dal primo film non ci siamo mai fidati delle metafore. Abbiamo sempre tentato, nei nostri film, di evitarle. Però si deve precisare che quella frase non è mia, se dovessimo citare letteralmente viene dal diario di Franz Kafka e l’abbiamo letta dopo aver fatto il nostro film dal cosiddetto romanzo Amerika. Dopo l’83, quando il film era montato e uscito, ho cominciato a leggere un po’ il diario di Kafka e ho letto lì dentro la frase letterale che sarebbe stata: “Le metafore sono una delle tante cose che mi farebbero disperare di scrivere”, cioè lì abbiamo scoperto che avevamo qualcosa in comune con Kafka. Vorrei capire, perché la metafora fa parte dell’arte? La metafora non dovrebbe far parte dell’arte. La verità dell’arte, come la verità in generale, come diceva Brecht, è sempre concreta. La metafora non è mai concreta. La metafora è una fuga accanto. Un tentativo di dare l’illusione  che uno fa l’artista. La metafora, per me, per quanto riguarda l’arte è affine alla pornografia. Di una pornografia che sembra nobile, ma che malgrado tutto è pornografia. Nel senso che Lenin diceva che la politica borghese non è nient’altro che pornografia.

D. Schönberg disse: “Non aspettatevi che la forma nasca prima del pensiero; essa infatti arriverà contemporaneamente”. Qual è il rapporto tra la forma e il pensiero nella vostra opera? Siete dell’idea che un pensiero forte tragga più vigore da una forma volutamente debole?

R. Schönberg non diceva proprio così, letteralmente diceva: “Non aspettate la forma prima del pensiero, ma essa sarà lì contemporaneamente”, non “arriverà”, ma “sarà”, “arriverà” è un altro modo di annegare la cosa. Penso che questo valga per qualsiasi persona che si occupi di questa cosiddetta arte o che lavora sul campo estetico. Perché non c’è pensiero, non c’è anima senza corpo, lo diceva anche Tommaso d’Aquino e lo hanno ripetuto poi tanti altri. Un pensiero non esiste sul campo artistico o estetico prima che abbia trovato la sua forma. Un pensiero, in fin dei conti, non è nient’altro che la sua forma. Non capisco per nulla quello che lei ha aggiunto: “Siete dell’idea che un pensiero forte tragga più vigore da una forma volutamente debole…”, semmai sarebbe il contrario, un pensiero forte se ha trovato solo una forma debole (perché volutamente? sarebbe del masochismo) non esiste come pensiero forte. Più la forma è forte, più il pensiero sarà forte e più il pensiero può essere forte, più la forma dovrebbe essere forte.

D. Il legame che il vostro cinema instaura con il linguaggio verbale è estremamente forte. Non avete mai pensato che il vostro rapporto con il linguaggio non sia altro che la riconferma estetica del mezzo di espressione privilegiato dalla borghesia? Jean Dubuffet nel suo saggio Asfissiante Cultura ritiene proprio che il linguaggio sia la forma più subdola di dominio ideologico. Come mai, voi, da sempre antagonisti del Potere, fate del mezzo di espressione da esso dominato, la chiave più rilevante della vostra opera?

R. Per prima cosa noi non usiamo  il linguaggio che Dubuffet  chiama “verbale”. Noi rubiamo alla pagina scritta, cioè al signor Gutenberg, delle cose stampate e scritte. E tentiamo con queste cose stampate e scritte che ci sembrano essere abbastanza corte, di trovare delle nostre esperienze comuni o diverse, delle risposte, delle domande che corrispondono alla nostra vita e alle nostre esperienze, trasformiamo quel linguaggio scritto, stampato in linguaggio verbale; il nostro sogno è sempre stato quello di espropriare la pagina scritta per ritrovare una specie di cultura che non era per nulla borghese, era la cultura dei contadini che si ritrovavano, di generazione in generazione, intorno al fuoco, a casa o fuori, e si raccontavano storie o cantavano. È la cultura popolare che ci interessa e quella non è mai stata borghese. Per quanto riguarda la musica di Bach se uno ascolta bene sentirà lì dentro almeno due o tre secoli di cultura contadina. D’altronde la borghesia non ha più un linguaggio, è afasica da un bel po’. Il linguaggio della borghesia, Pasolini lo sapeva già prima di morire, è un italiano che non esiste. Il linguaggio della televisione è un linguaggio che nessuno capisce, che nessuno ha mai parlato. Una volta, vent’anni fa, siamo andati da un vecchio contadino che conoscevamo, che ormai è morto, sull’isola d’Elba, lui aveva il televisore acceso e dopo mezz’ora mi ha detto: “capite questo linguaggio?”, parlavano, parlavano, c’era del teatro di boulevard, gli abbiamo detto “Francamente non capiamo nulla, non seguiamo”. Aveva ragione!  Perché quel linguaggio è fine a se stesso, gira a vuoto, è un linguaggio anch’esso puramente pornografico, non ha più nulla a che fare con l’amore, i sentimenti, l’odio eccetera. E se quello è quello della borghesia siamo d’accordo!

D.Sicilia! è dominato dalla figura del ritorno. Vi è forse traccia di una nostalgia verso qualcosa? Vivete il presente con rimpianto o con aspettativa? Qual è il vostro rapporto con la progressiva smaterializzazione del testo e con la svalutazione del potere mimetico dell’immagine?

R. Sì, viviamo nel presente, ma  aspettando che crolli il capitalismo.

D.H. Il problema è che non crollerà solo lui!

J.-M.S. Farà crollare tante cose insieme a lui… la sua mentalità è stata sempre: dopo di me il diluvio! Che cos’è il potere mimetico delle immagini? Il cinema dei caroselli? Dal momento che non esiste più il cinema tedesco di prima del 1933, né il cinema sovietico, né il cinema hollywoodiano, il discorso vale per il novanta per cento dei film anche famosi!

D. Un critico di “Le Monde” definisce Sicilia! “II più grande film antifascista della storia del cinema”. Riconoscete questa intenzione? Sostenete che ogni scelta di stile sia anche una scelta morale? Non trovate che questa posizione sia ormai un po’ superata?

R. La responsabilità di quello di “Le Monde” la lascerei a lui, non è mia. La risposta è chiaramente sì, certo. Ogni scelta di stile, come la chiama lei, è anche una scelta morale, più, più che morale, non solo morale, ma morale e politica, politica e morale, questo è chiaro. Anzi quando si prepara un découpage si deve sapere esattamente da quale parte uno sta rispetto ai personaggi, a quale distanza, eccetera. Già lì è una scelta morale. Poi c’è la responsabilità politica e morale di fronte a quelli che vedranno la pellicola finita, il prodotto finito. Ma adesso vorrei una risposta chiara da parte sua sull’ultima frase della domanda: “non trovate che questa posizione sia ormai un po’ superata?” Che cosa vuol dire?

D. Vuol dire che in fondo questa idea dello stile come scelta morale è un’idea che parte dalla Nouvelle Vague… ne parla Godard negli anni Sessanta quando diceva che ogni carrello è una questione morale. Ormai dalla Nouvelle Vague molte cose sono cambiate, adesso le immagini sono totalmente manipolabili, e quindi di conseguenza anche il rapporto tra la forma che viene scelta e la sua motivazione morale…

R. Il novanta per cento dei nostri colleghi sono diventati totalmente irresponsabili senza saperlo… irresponsabili. Il Godard ha sempre ragione, come il Duce, basta!

D. Qual è il rapporto che intrattenete con la memoria? Il vostro è un cinema della memoria o dell’oblio? bisogna saper dimenticare per sopravvivere, come sostiene Resnais?

R. L’oblio è proprio tutto lo sforzo che fa la società industriale  e quella del progresso, del più bell’inganno della storia dell’umanità. Il progresso, diceva Benjamin, non è la fuga in avanti, nella crescita, nello sviluppo, è il salto della tigre nel passato! Tutto lo sforzo del sistema è quello di far dimenticare alla gente che c’era qualcosa prima, cioè l’oblio, come lo chiama lei. Ed è chiaro, perché vogliono far credere alla gente che viviamo nel migliore dei mondi possibili e per questo bisogna dimenticare che…

D.H. Una volta c’erano dei fiumi nei quali si poteva nuotare.

J.-M.S. O che c’era dell’aria che si poteva respirare o che c’erano degli alberi che non crepavano, eccetera. I vietnamiti, se hanno vinto la guerra contro la più grande potenza capitalistica e militare del mondo, che si chiama Stati Uniti, è perché loro ad ogni situazione erano capaci di dire: “Ah, questo era così trent’anni fa, trecento anni fa, qui siamo in una situazione che è diversa da un certo lato, ma che assomiglia da altri”; loro avevano il senso della memoria che nessun popolo ha mai potuto ottenere dopo. Era la ragione della loro forza e del fatto che hanno, quasi senza mezzi, vinto la guerra contro quelli che avevano i mezzi più disumani della storia dell’umanità… ma ormai siamo oltre. Per sopravvivere il piccolo borghese contemporaneo deve far finta di dimenticare, se è quello che dice Resnais, d’accordo. È chiaro che è difficile non dimenticare, perché, come diceva Pavese, dappertutto c’è una pozza di sangue nella quale mettiamo i piedi.

D. In Sicilia! si rileva un distacco apparente dalla Storia ed un progressivo avvicinamento verso una dimensione più personale, intimistica. È una svolta temporanea, una falsa impressione o, di nuovo, una scelta politica?

R. Anche dei signori un po’ più conosciuti, come Marx o Engels, mentre diventavano vecchi andavano a cercare nel passato quello che era diverso e quello  che non era diverso rispetto al presente.

D.H. In questa domanda… non vedo che cosa si intenda per intimismo, che cos’è l’intimismo? Il rapporto  tra la madre e il figlio? Dov’è l’intimismo nella storia del venditore di aranci? Dov’è nella storia del poliziotto per il quale ogni morto di fame è un uomo pericoloso? O dov’è  l’intimismo dell’arrotino che sogna  i cannoni? Quanto al film precedente, che sembrava una storia di cosidetto boulevard, non è che un’apparenza, perché la moda è una cosa che uccide e che uccide anche in politica, si potrebbe dire che il razzismo verso gli ebrei era anch’esso una specie di moda, non solo, ma anche.

J.-M.S. Le mode cambiano e dall’oggi all’indomani  Schönberg è stato dichiarato indesiderabile  all’Accademia delle Arti di Berlino, dove era con  colleghi stimati, dal direttore (“Mi dispiace signor Schönberg… le devo far sapere che il nostro ministro presidente non desidera più la sua presenza”). Dall’oggi al domani è diventato indesiderabile.

D.H. La privatizzazione che si fa dappertutto in Europa adesso, che è cominciata con la Francia e con l’Inghilterra, è anche una specie di moda.

J.-M.S. Alla catastrofe siamo arrivati… alla catastrofe!

D.H. Schönberg era cosciente, perché diceva che sotto l’aspetto di una cosa piccola, privata, poi si giungeva a problemi gravissimi. La storia di una coppia, dunque, non significa che non sia anche una storia politica.

J.-M.S. Del resto, il nucleo centrale di Sicilia! racconta una storia d’amore: la storia di una figlia di contadino  che era moglie di un ferroviere e incontra un grande amore, arriva un viandante, era finita la guerra, a piedi nudi non si sa da dove, e diventa il grande amore, poi lui si fa ammazzare dalle guardie regie.

D.H. Che i ferrovieri avevano lasciato passare, perché non avevano scioperato.

J.-M.S. In quel momento… lei sposa tutta la miseria del mondo. Non è una metafora.

D. Ritenete che per la comprensione dei vostri film sia necessaria una preparazione culturale anteriore? Non pensate di utilizzare un linguaggio destinato a pochi eletti?

R. D.H. No, credo piuttosto che la preparazione culturale anteriore spesso non è altro se non una montagna di clichès. D’altronde, la gente che abbiamo preso per  fare Sicilia!, la madre, per esempio, è una che sa appena leggere e che sa appena scrivere,  quando si riceve una sua lettera, si vede subito dalla busta che è una quasi-analfabeta, eppure ha scoperto un testo di Vittorini che non aveva mai letto. Quello che si chiama cultura popolare e che nessuno fa perché è troppo difficile e troppo lungo. Questa gente è molto più aperta perché non ha l’arroganza di sapere che cos’è la cultura, che cos’è la letteratura, che cos’è l’arte, che cos’è il cinema. Invece, dobbiamo dire, che gli studenti, per essere gentili diciamo una buona metà, sono arroganti perché pretendono di sapere delle cose che invece non sanno, non hanno preparazione. Stockhausen quando ha visto il nostro primo film è rimasto colpito, perché lui era veramente un musicista, e lavorava veramente con la materia musicale e ha scoperto nel film delle cose vicine. questa è una forma di cultura che però è rara. Lui lavorava veramente nel campo estetico. Quando i film passano, o meglio passavano, perché ormai… passano troppo tardi per la gente che lavora il giorno successivo e anche quelli che registrano vedono poi i film in condizioni non normali… ma prima quando li facevano alle dieci di sera, abbiamo ricevuto testimonianze di gente che non sapeva chi fosse Brecht e che avevano visto Lezioni di Storia in Germania e che poi hanno scritto alla televisione, e quelli della televisione si sono meravigliati perché non ricevevano mai lettere così, chiedendo ma chi è quello  lì che ha scritto questa storia, e non sapevano nulla né di Brecht, né di noi. La televisione era allora un mezzo di informazione, ormai lo è molto meno.

D. Il vostro punto di vista sulla società italiana si è dimostrato sovente molto acuto, grazie al vostro essere esterni e nello stesso tempo interni alla realtà italiana. Notate delle linee di sviluppo, delle tendenze in atto? O ritenete che la filosofia del Gattopardo, cambiare tutto per non cambiare nulla, sia uno dei tratti caratteristici dell’indole italiana?

R. È chiaro che cambiare tutto è sempre una forma di fuga in avanti per non cambiare nulla, non c’è dubbio, e questa è una forma di pigrizia mentale, che diciamolo francamente, potrebbe essere in parte tipicamente italiana. Quando D’Alema dice: “da questa  guerra usciremo più forti…” e poi parla dell’Italia che deve diventare moderna, questo è mostruoso… mostruoso, non si può dire altro!!!

 

a cura di Ivelise Perniola