Quanto più si riflette sul legame tra l’estetica e gli studi culturali, sotto la cui insegna sta il programma di questa rivista, tanto più si scopre l’esistenza di una fitta trama di relazioni che attraversano entrambi i termini di tale incontro. Si dissolve così la prima impressione che considera l’estetica come una disciplina filosofica dai contorni relativamente precisi e gli studi culturali come un approccio caratterizzato da un effettivo superamento del punto di vista estetico. E per esempio assai significativo che la monumentale Encyclopedia of Aesthetics, diretta da Michael Kelly, recentemente pubblicata in quattro grossi volumi da Oxford University Press, alla cui stesura hanno contribuito più di cinquecento studiosi di varie specialità, sia ispirata da una metodologia secondo la quale l’estetica è sempre stata un meeting place, un luogo d’incontro di numerose discipline e di varie tradizioni culturali.
La svolta culturale, che un numero sempre più cospicuo di ricercatori considera una caratteristica dello sviluppo attuale dell’estetica, costituirebbe così un tratto che la accompagna fin dalla sua origine settecentesca e che non è priva di relazione con le complicate vicende che in Occidente hanno accompagnato la riflessione sul bello e sull’arte. Come è noto, infatti, questi due oggetti dell’estetica solo nel Settecento coincidono, intrattenendo rapporti assai controversi con una terza questione filosofica, strettamente connessa con la costituzione autonoma della disciplina, che verte intorno alla possibilità e ai caratteri della conoscenza sensibile. Se poi si pensa che questi tre oggetti per così dire tradizionali dell’estetica (il bello, l’arte e la conoscenza sensibile) sono a loro volta il punto d’incrocio di molte e disparate problematiche, ci si rende facilmente conto che l’estetica costituisce un evento unico della cultura occidentale moderna, che non ha uguali in nessun’altra cultura del mondo, ed è ignota anche all’Occidente premodermo. Basta pensare che la stessa nozione di arte (chiamata nell’antichità con due parole che hanno poco che fare l’una con l’altra, cioè téchne ed ars) diventa un concetto unitario col quale sono pensabili le varie arti solo nel Rinascimento, per rendersi conto quanto multiforme e stratificata sia questa disciplina.
Da ciò risulta innanzitutto l’inadeguatezza di ogni metodologia riduzionistica: l’estetica è sempre stata molto di più che un’appendice della critica d’arte o della filosofia teoretica, per non parlare di chi vuole rimpicciolirla in una meni faccenda edonistica. A questi oggetti tradizionali della ricerca estetica, l’Encyclopedia di Kelly (di cui forniamo un resoconto in altra parte di questa rivista) aggiunge tuttavia ancora un altro tema: la cultura. I vantaggi strategici di questa scelta metodologica sono molteplici. Innanzitutto viene focalizzato il rapporto tra le origini dell’estetica e la formazione della sfera pubblica discorsiva nell’età moderna: il fatto che criticism sia stata nel Settecento la parola adoperata in Inghilterra per estetica, evidenzia l’aspetto non conformista dell’approccio anglosassone alla società e alle arti. Questo termine manifesta il diritto di ciascuno a esprimere una valutazione e un apprezzamento indipendenti dai canoni ufficiali e dalle gerarchie convenzionali; l’estetica tende così a tingersi di un colore alternativo che non è sempre evidente nella tradizione continentale. Liberare l’estetica dalla pedanteria è altrettanto importante quanto emanciparla dalla frivolezza. In secondo luogo, l’estetica intesa come critica della cultura incontra quell’indirizzo degli studi storici che è orientato verso la riscoperta dei modi di sentire e delle sensibilità del passato.
Oggetto dell’indagine storica non è perciò soltanto ciò che è realmente accaduto, ma anche ciò che avrebbe potuto accadere; a questa storia virtuale noi possiamo accedere non solo mediante prodotti finiti come le teorie, i romanzi e le opere d’arte, ma anche attraverso documenti e testimonianze volontarie e involontarie che ci rivelano emozioni e affetti talora non codificati in forme culturali ben definite. Nasce così un’estetica storica dell’esperienza sommersa che integra e completa i risultati cui si può giungere attraverso l’indagine psicoanalitica o attraverso la metodologia decostruttiva. E evidente che in questo contesto la particolarità e la singolarità acquistano un rilievo mai avuto precedentemente nella filosofia e nelle scienze umane: le reti dell’universale e del generale restano infatti in superficie e non arrivano a pescare nelle profondità del sentire individuale e collettivo, specie quando questo si scosta dalla norma o dalla consuetudine. Infine, se l’estetica è un discorso sulle culture, sarà possibile trasformarla da forma di conoscenza tipicamente eurocentrica e occidentale in un sapere che implica una prospettiva globale. E questo l’aspetto più appariscente e più eccitante della svolta culturale dell’estetica, la quale sembra aprire orizzonti vastissimi a una disciplina ritenuta spesso, e non completamente a torto, un po’ stantia.
Entrano così in scena le estetiche africana black, caraibica, cinese, giapponese, indiana, islamica, latino-americana e precolombiana, alle quali, guardando la carta geografica e consultando i libri di storia, se ne potrebbero aggiungere molte altre. Tuttavia questo aspetto della svolta culturale è anche il più problematico. Non soltanto per le note difficoltà implicite nell’approccio comparativistico: per esempio, il fatto che il pensiero occidentale tende ad attribuire all’esperienza estetica un’autonomia rispetto alla morale e alla religione che le altre culture per lo più non le riconoscono; oppure tende ad assegnare alla soggettività e alla singolarità dell’artista un’importanza molto maggiore delle altre culture. Queste diversità inducono infatti a porre un interrogativo che riguarda la stessa nozione di cultura e che può essere così formulato: in che misura tale nozione è esportabile al di fuori dell’Occidente? La categoria di cultura è applicabile a società che non pensano se stesse come culture? In altre parole nel progetto dell’estetica di una cultura non-occidentale non è soltanto l’idea di estetica a essere discutibile, ma anche quella di cultura. Ma le sorprese che riserva la svolta culturale dell’estetica non finiscono qui. Infatti, a partire dal momento in cui attribuiamo alla riflessione delle società su se stesse un’importanza decisiva, anche la pretesa unità del punto di vista occidentale si frantuma in una molteplicità di prospettive differenti. Per esempio, Kultur in tedesco suona in modo molto differente che culture in inglese: nella parola tedesca c’è un richiamo a ciò che è autentico, vero e profondo in contrapposizione alla Zitvilisation, alle buone maniere superficiali del processo di incivilimento. Le parole russe kul’tura, kul’turnyi e kul’turnost sono strettamente connesse alle vicende politiche e sociali della Russia.
Quanto all’Italia mi chiedo se si possa prescindere dalla connessione tra la nozione di cultura e l’eredità antica, per tutto ciò che essa contiene di classico e di pagano, di moderato e di eccessivo, di razionale e di delirante. Insomma la svolta culturale porta a decostruire non solo la pretesa unità della cultura occidentale o europea, ma anche quella delle singole culture nazionali. Ritornano così in evidenza molti filoni secolari del sentire e del pensare, che i processi di nazionalizzazione operanti in ogni paese nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento hanno occultato e rimosso. Nell’editoriale del numero 1 di “Àgalma” pubblicato dall’editore Castelvecchi nel giugno 2000, chi scrive metteva in guardia contro le pretese totalizzanti della filosofia e delle scienze umane. Può perciò lasciare perplessi il fatto che tali pretese sembrino ritornare proprio sotto l’insegna dell’incontro tra estetica e studi culturali. L’idea stessa di una “Enciclopedia di estetica” sembra la spia di un’ambizione sistematica. Michael Kelly si difende da questa obiezione distinguendo il punto di vista comprehensive, cioè non unilaterale, non settario, da quello sistematico e totalizzante. In effetti solo una piccola parte dei collaboratori sono filosofi e indubbiamente rientra negli interessi dell’estetica presentarsi come relativamente autonoma dalla filosofia (come rientra negli interessi della filosofia prendere le distanze da chi vuole ridurla a storia della filosofia).
Tuttavia l’aspetto che solleva perplessità è un altro: esso emerge molto chiaramente dalla voce Cultural Studies di Jan Hunter, in cui si mette in evidenza la continuità tra l’ideale di vita estetica delineato da Schiller alla fine del Settecento e il programma dei Cultural Studies delineato dal Birmingham Centre for Contemporary Cultural Studies, e segnatamente da Raymond Wilhiams negli anni Sessanta: ciò che accomuna l’estetica schilleriana e gli studi culturali sarebbe un’idea organica della società, pensata come una totalità dotata di completezza e di immediatezza. Il progetto estetico di una vita armonica condizionerebbe il programma degli studi culturali, la cui intenzione di fondo sarebbe la ricerca ingenuamente umanistica di un’esistenza che rimuove ogni conflitto e ogni differenza: “the whole way of life”, propugnato da Williams, si rivelerebbe così la riedizione dell”‘anima bella” settecentesca, la famosa figura di uno spirito interamente conciliato con se stesso e con il mondo, che è stata ridicolizzata da Hegel e da Nietzsche. Nemmeno gli sviluppi “sottoculturali” di questo orientamento degli studi sociali riuscirebbero ad andare oltre le premesse dell’estetica umanistica: gli stili di vita delle sottoculture giovanili sarebbero un’incorporazione della dimensione estetica nell’esperienza vissuta e spontanea delle nuove generazioni. Sicché i Cultural Studies si ridurrebbero a una importazione di temi sociologici nell’estetica ovvero all’esportazione ditemi estetici nel campo dell’antropologia, della sociologia e della storia. Se le cose fossero in questi termini, la pretesa svolta culturale dell’estetica non sarebbe affatto una svolta, ma soltanto un’ulteriore riproposizione di qualcosa già interamente contenuto nell’Illuminismo e nel preromanticismo settecentesco.
A perturbare questa scena idillica è tuttavia intervenuta la filosofia, in primo luogo con i pensatori del conflitto di area germanica (Marx, Nietzsche, Heidegger, Freud e Wittgenstein) e in secondo luogo con i teorici dello strutturalismo e il poststrutturalismo francese, che hanno sottoposto a una critica radicale le pretese conciliative, armonizzanti e umanistiche dell’estetica settecentesca. Per chi è passato attraverso i tormentati sentieri che essi hanno aperto, nessun ritorno indietro alle ingenuità vitalistiche e organicistiche è più possibile. Se veramente si sta aprendo una nuova fase di Studi culturali europei, nei quali la dimensione estetica gioca un ruolo essenziale, essi potranno dire qualcosa di adeguato alla complessità del mondo contemporaneo, solo liberandosi dall’ideologia culturalistica come da quella estetica.