Il numero 40 di Ágalma è dedicato al tema dell’inorganico – o meglio: all’illanguidirsi e confondersi delle linee di demarcazione tra organico, non-organico e inorganico. La riflessione sull’inorganico, che negli ultimi decenni ha acquisito un nuovo vigore, si inscrive nell’alveo più complessivo del ripensamento critico di ciò che potremmo definire, in termini molto generali, il soggettivismo moderno, che si caratterizza prima facie per un forte antropocentrismo. Meglio: il soggettivismo moderno, per le sue caratteristiche costitutive, non potrebbe essere che antropocentrico. Visto che la storia, con la sua corrente che “accumula senza tregua rovine su rovine”, procede in direzione opposta, tutto ciò che tende a ridimensionare l’antropocentrismo, o almeno a porlo in discussione, dev’essere considerato con favore e attenzione dal pensiero.
La mia esperienza del mondo deve necessariamente profilarsi nella relazione con una serie di ‘oggetti’ costituiti dal mio rappresentare, dal presentarmeli, porli-qui dinnanzi all’occhio, al theorein della coscienza? C’è davvero una materia inerte, in sé caotica, in perenne attesa della forma scaturita dal poietico, dai logoi del subjectum-fondamento? Una direttrice essenziale dell’arte del Novecento, che prende avvio dalle avanguardie e culmina negli Otages di Fautrier, ha ripetuto ostinatamente ‘no’ a questa domanda. In tensione con l’arte concettuale (ad es. di un Sol LeWitt o di Joseph Kosuth), e con ciò che essa ha rappresentato dal secondo dopoguerra sino ad oggi, quella linea non ha fatto che ribadire l’auto-generarsi e diramarsi, per così dire per propri, interni ordini, della materia. L’artista lascia fare al materiale, si affida a ciò che in esso si genera. Anche se poi tutto questo veniva spesso orientato in direzione di un recupero dell’immediato smarrito nel ripetitivo dell’esperienza quotidiana, come si vede ad es. in Dubuffet.
Come si declina tutto questo da un punto di vista gnoseologico? Come pensare il confine tra la mente e il mondo della materia? Molti studi che scaturiscono da domini diversi, dall’antropologia all’archeologia cognitiva, dalla biologia alle ricerche sull’intelligenza artificiale, convergono nel suggerire che ciò che chiamiamo genericamente ‘mente’ si configura e rimodella costantemente nel plasmare il materiale, attraverso forme che ‘trova’ in principi compositivi ad esso interni. Materiale che è da intendere in senso ampio, dall’inorganico della cosa che emerge trasfigurata dalle mani dell’artigiano alle concrete relazioni, ai ‘pesi e contrappesi’ e centri mobili di gravità che mi rendono parte di una qualche comunità. L’inerte dell’ente che si mostra nella prima percezione lascia spazio alla dynamis del suo virtuale come ad una sorta di insieme di tracciati impliciti che aprono ad una molteplicità di prassi, di trasformazioni – all’“attitudine a darsi nuove regole di organizzazione via via che il processo produttivo si sviluppa e ne evidenzia le possibilità” (Montani). Il conoscere dunque è da porre in intimo rapporto con il fare, in cui l’esperienza umana si mette in gioco evolvendo in esso.
L’orizzonte in cui diviene pensabile “estendere i confini della mente nel mondo” (Malafouris) indica implicite i circoli viziosi in cui si avvolge inevitabilmente la classica distinzione natura/cultura, che pone i suoi due termini in una ontologica distanza e in un sostanziale antagonismo. Ma insieme ai suoi noti circoli viziosi questa distinzione – che lascia i due versanti in una destinale differenza – genera anche il mito dell’integrità individuale come fine etico, che ancora oggi esercita la sua potenza. Monadica integrità, compimento del sé che appartiene alla medesima costellazione ideale che comprende il creare come geniale ‘salto’ in uno spazio vuoto scavato nel continuum dell’esperienza. Al contrario, si tratterebbe qui di ‘ritrovare’ ciò che è già inscritto, per così dire, nell’inorganico-materiale. E scoprire come questo si rifletta sulla mente e i suoi metodi. Di più: se “la plasticità della mente è incorporata e indissolubilmente racchiusa nella plasticità della cultura”, occorrerà “indagare il modo in cui l’intelligenza umana emerga dalle interazioni situate tra le persone e tra queste e le cose” (Malafouris).
Tutte questioni che ritroviamo – mutatis mutandis – nel tema dell’artificiale nel corpo, nel corpo misto. E nel ‘perturbante’ di scenari caratterizzati dal ‘lancio di dadi’ in cui consiste il possibile post-umano. Ma anche, dall’altra parte, dall’attrazione per un certo artificiale, sospeso nel cielo vuoto di un’origine che nega se stessa, nell’atemporale a cui rinviano le sue brillanti superfici interamente risolte nella loro svelatezza. Perniola ne ha parlato ne Il sex appeal dell’inorganico, nel senso dell’esperienza di una soglia che si attraversa e riattraversa costantemente, passaggio da uno stato all’altro in cui pure ‘ci si ritrova’, transito da un codice attivo alla sua negazione (principio stesso dell’erotismo), di una porosità dei due mondi a prima vista contrapposti e incomunicabili, l’organico e l’inorganico, che rinviene la sua sfera in un certo particolare sentire. “Ogni moda è in conflitto con l’organico”, scriveva Benjamin nelle pagine di appunti sui Passages parigini, “ogni moda accoppia il corpo vivente al mondo inorganico. Nei confronti del vivente la moda fa valere i diritti del cadavere”. Laddove nel nostro mutato contesto l’inorganico, che dovrebbe stare per così dire dalla parte della morte, assume e rivendica il suo essere interno alla vita – facendo segno in tal modo al movimento opposto e complementare. Questa piega del pensiero contemporaneo lascia scorgere in effetti un suo particolare, essenziale profilo se, posizionandosi a una certa distanza, si intuisce il suo confluire in quella corrente più ampia che richiede di pensare/esperire la morte in modo diverso rispetto all’idea – che si afferma sempre più in Occidente – ch’essa si risolva in puro nulla. A partire da certe pagine nietzscheane, o dalle Duinesi, in cui, come scrive Rilke in una lettera del tardo autunno del 1925 a von Hulewicz, si dà l’affermazione della vita e della morte “come una cosa unica”: “ammettere l’una senza l’altra è… una limitazione che finisce con l’escludere tutto l’infinito. La morte è il lato della vita non volto verso di noi, e che noi perciò non possiamo illuminare. Dobbiamo giungere dunque a quel grado massimo di consapevolezza che si trova a suo agio in entrambi i regni illimitati dell’essere, da tutti e due nutrito inesauribilmente…”. Temi che si ritroveranno, certo in tutt’altro registro, nelle celebri pagine di Essere e tempo dedicate al Sein-zum-Tode, all’essere per la morte. In ogni caso, si tratta di uno scenario che va pensato in termini nient’affatto ‘luttuosi’, tantomeno nichilistici. All’opposto: il gesto che lo apre ha per fine il suo riverberarsi su una vita vissuta finalmente all’altezza della intensità ch’essa stessa sembra richiederci.
Luigi A. Manfreda