Tutti devono essere uguali e avere le stesse reazioni di fronte a qualunque opera d’arte, movimento o idea, e se uno si rifiuta di unirsi al coro di approvazione verrà accusato di essere razzista o un misogino.
Questo è ciò che accade a una cultura quando non gliene frega più niente dell’arte.
Bret Easton Ellis, Bianco
Il campo di studio del numero 46 di Ágalma è molto vasto e molto controverso. Il dibattito sulla Cancel Culture in Italia è fermo al palo della cronaca giornalistica, strutturato manicheisticamente (i buoni a favore e i cattivi contro) e pesantemente influenzato da un’annosa dipendenza nei confronti delle correnti di pensiero (forse meglio di ottundimento del pensiero) che provengono dagli Stati Uniti. La strategia discorsiva tende a essere oscurantista e non problematica e, sino a ora, nel contesto italiano il dibattito critico langue, a parte pochissime eccezioni, penso soprattutto all’interessante volume, anche se a tratti confuso, come del resto il tema trattato, La correzione del mondo di Davide Piacenza (Einaudi 2023), che tenta di fare il punto su di una deriva ideologica che fa della lotta identitaria e della censura programmatica i propri cavalli di battaglia. La Cancel Culture si dipana su vari fronti e la confusione delle arene, come viene definita da Nathalie Heinich nel suo fondativo Quello che il militantismo fa alla ricerca (Mimesis 2023), diventa una precisa strategia per mettere all’angolo gli oppositori e coloro che tentano di far emergere le contraddizioni e gli aspetti problematici di una tendenza sempre più pervasiva. Il numero di Ágalma cerca di affrontare lo spinoso argomento ospitando interventi multidisciplinari e focalizzati su vari aspetti del tema, come la questione dell’appropriazione culturale nel cinema documentario, la rilettura e il giusto ricollocamento del pensiero foucaultiano, l’atteggiamento ambivalente di una cultura popolare americana indecisa tra l’esaltazione populista e la cancellazione autocensoria del proprio passato, la diffusione di un pensiero unico all’interno dell’accademia, la trasformazione della libertà espressiva dell’opera d’arte oramai penalizzata dalla pervasività del giudizio etico che ne guida il successo, la diffusione, il riconoscimento critico e poi l’influenza e la trasformazione della French Theory in altre forme di pensiero unico in cui a trionfare è una lettura genderizzata della società dove il rapporto manicheista tra dominatori e dominati diventa l’unica chiave di lettura possibile e auspicabile della storia umana. Quello che decade è la complessità e l’ambivalenza dell’essere umano, la pluralità delle esperienze e dei punti di vista; tutto viene appiattito da una lettura molto spesso rozza e univoca della realtà, imbellettata da una cosmesi linguistica di facciata e da un apparato teorico di cui il Capitale si è provvidenzialmente impossessato per arricchire le proprie casse, creando un’allarmante e preoccupante separazione tra la forma e la prassi; incancrenendosi sulle rappresentazioni la società ha perso pericolosamente di vista la realtà e i suoi meccanismi politici di trasformazione. Perché sicuramente l’aspetto che rende il panorama ancora più confuso è il fatto che il wokismo, in tutte le sue ampie e controverse accezioni (di cui la Cancel Culture è un’espressione), come scrive Heinich, rende. Quindi sul treno del profitto sono saltate a piè pari tutte le grandi piattaforme dell’intrattenimento, tutti i social, tutti i magnati dell’internet-pensiero, pronti a monetizzare la creazione di un mondo inclusivo, in cui tutte le identità sono ugualmente rappresentate e rispettate, ma che per l’appunto si gioca solo sulla sfera della rappresentazione immaginaria. Il caso eclatante di un abietto prodotto del capitalismo di massa come Barbie (G. Gerwig, 2023) dovrebbe far pensare coloro che tendono purtroppo surrettiziamente ad accostare progressismo e wokismo, senza rendersi conto di essere caduti nella rete, fuor di metafora, ovviamente. Le questioni in campo sono molto numerose e nel volume in oggetto abbiamo cercato di farle emergere in maniera problematica, provando a innescare un dibattito che ci facesse uscire dalla chiusura identitaria che castra ogni possibile discorso e finisce invece per calcificarsi all’interno di un discorso politico puramente astratto e privo di quella flessibilità a cui aspiravano le grandi critiche identitarie di matrice sessuale nate a partire dalla fine degli anni Sessanta da pensatori come Michel Foucault, Mario Mieli e Guy Hocquenghem. In questo modo a prevalere non è l’umanità pensata nella sua inafferrabile, stratificata e molteplice produzione di sé, ma una società ingenua che, nascosta dietro al velleitario sollievo del singolo, produce un discorso pericolosamente disciplinare e fondamentalmente disinteressato all’umanità in senso collettivo. Non è certo quello di cui abbiamo bisogno adesso e in questo numero cerchiamo di identificare le ragioni di questo rifiuto e di questo necessario atto di resistenza.
Ivelise Perniola