Ottavio – Ma in che momento avrebbero potuto fare una simile scommessa?
Klossowski, Roberta stasera
Come può l’intimo dell’“emozione voluttuosa”, che anima il “non scambiabile” del fantasma individuale, di ciò che ossessiona e riporta sempre allo stesso, esser messo in circolo, non solo nella ristretta orbita del singolo, ma in forme tali da giungere a istituire un ‘mondo’, nel senso che Heidegger dava a questo termine nel suo saggio sull’Origine dell’opera d’arte, ossia l’emergere di nuove, condivise pratiche comunicative che implichino una ‘epocale’ trasformazione dell’esperienza?
La monnaie vivant, il testo intorno a cui ruotano i saggi di questo numero, è uno scritto di Pierre Klossowski apparso nel 1970. Testo denso, visionario, murato in se stesso, che pure a tratti lascia intuire l’inconfondibile stile di pensiero del suo autore, ha suscitato ben tre traduzioni in italiano: la prima di Clara Morena, apparsa nel 1977 su Il piccolo Hans, la seconda a cura di Rachele Chiurco per Mimesis nel 1989, e l’ultima, sempre per Mimesis, di Aldo Marroni nel 2008. Come se fosse un segno, questo, anche di quanto risulti complessa ogni sua lettura – che è poi, inevitabilmente, una trasposizione in un altro registro. Tra le numerose vie d’accesso al testo klossowskiano, una fra le meno tortuose potrebbe essere quella di intenderlo – diciamo così, in estrema sintesi – come la prefigurazione di una pratica volta ad accogliere e sostenere l’“emozione voluttuosa”, e l’erotismo come sfera che l’assume in quanto centro gravitazionale, non nel senso in cui, da Sade e Bataille in poi, si considera il dispendio erotico: come l’insostenibile, il non riconducibile ad alcuna logica ‘diurna’ di governo del quotidiano e della durata; ma al contrario come ciò che si rivela fondamento nascosto proprio di quella economia dello scambio su cui si regola e dispiega ogni vita sociale. Corrispondere a questa sostanza sarebbe fare del corpo “la condizione di possibilità di ogni commercio e di ogni scambio” (Chiurco). Se l’opera di Bataille costituisce così l’orizzonte insostituibile nel quale si situa La moneta vivente, Klossowski procede in un’altra direzione, parallela rispetto a quella scelta dall’amico. È l’insondabile matrice pulsionale a produrre l’oggetto-simulacro come corrispondenza sempre parziale, deviata, alle potenze che abitano l’individuale e che premono per essere espresse. Questa consapevolezza smarca rispetto alla narrazione antropologica dominante incentrata sul bisogno. “La gerarchia dei bisogni è la forma economica di repressione che le istituzioni eserciteranno sulle forze imponderabili della vita psichica. Grazie alla sua unità organico-morale, l’individuo dà forma alla sua vita impulsionale, nel suo ambiente, attraverso una serie di bisogni materiali e morali”, scrive Klossowski. Ora, se alla primitiva scansione: fabbrica (luogo di produzione dell’oggetto-merce) / famiglia o coppia (luogo di soddisfacimento del bisogno sessuale), si è sostituito, nell’economia finanziaria post-industriale, la messa a profitto delle oscillazioni del desiderio come ‘fantasmagoria’ del simulacrale, – non è certo nella colonizzazione dell’immaginario attuata dalle ultime versioni del tardo capitalismo che potrebbe trovare la sua patria l’utopia klossowskiana.
Niente è del tutto gratuito nella vita impulsionale, scrive Klossowski ne La monnaie vivant, “il libro più notevole della nostra epoca”, come ebbe a definirlo Foucault in quello stesso 1970 in cui apparve. Interpretare la lotta dell’emozione per conservarsi significa valutare, riconoscere un prezzo. Chi ne paga le spese è il soggetto-unitario, teatro della sfida, in cui si tenta una qualche precaria mediazione, in compromessi che rimodulano la mutevole sismica del corpo. Così, emerge in questo punto il dilemma: “o la perversione interna – dissoluzione dell’unità; oppure l’affermazione interna dell’unità – perversione esterna”. Quest’ultima implica il rifiuto di pagare il prezzo dell’“emozione voluttuosa”, al fine di salvaguardare la propria unità-integrità psico-fisica; ma pagherà cento volte questa rinuncia con il pervertimento nell’esteriore in cui questa unità è costretta a darsi da fare e arrancare, nella “mostruosità della ipertrofia dei ‘bisogni’”. Nella prima, invece, si otterrebbe “una concordanza tra il desiderio e la produzione di oggetti, entro un’economia razionalmente costituita in funzione dei suoi impulsi”. Al prezzo, di nuovo, dell’abbandono, da parte del soggetto, della fede nel nucleo originario da cui irradierebbe la propria unità, sigillo inconfondibile e orgoglio di gemmare e fruttificare in una dinastia – nel solco dell’insegnamento nietzscheano, per il quale, come aveva scritto lo stesso Klossowski un anno prima, “il corpo è il risultato del fortuito: è solo il luogo d’incontro di un insieme di impulsi individuati nell’intervallo costituito da una vita umana, impulsi che aspirano solo a disindividualizzarsi” (Nietzsche e il circolo vizioso).
Luigi A. Manfreda