Sin dall’apparizione delle celebri pagine freudiane sulla Gradiva di Jensen e sul Mosé di Michelangelo, o sulla vita di Leonardo, i rapporti tra mondo dell’arte e le diverse teorie di matrice psicoanalitica sono stati com’è noto piuttosto burrascosi – ancora oggi, dopo tante dispute, la legittimità di una possibile applicazione delle ermeneutiche psicoanalitiche ai fenomeni artistici resta una vexata quaestio. Se da un lato sono note le resistenze da parte degli artisti e dei critici d’arte a risolvere lo scarto che la creatività artistica produce nei linguaggi quotidiani nelle differenti chiavi interpretative fornite dal discorso psicoanalitico, è pur vero che l’inventiva degli artisti ha sempre più utilizzato modelli espressivi e tecniche che le sono state fornite dal discorso psicoanalitico (si pensi ad esempio a Magritte o Dalì, oppure, nell’ambito del cinema, a Buñuel). Resta che, durante il ventesimo secolo, metodo e problematiche tipiche della psicoanalisi hanno trasformato in profondità l’intera cultura occidentale, influenzando in particolare proprio il campo dell’arte e dell’estetica figurativa, come mostrano, fra le altre, le opere di Arnheim, Panofsky o Gombrich. La stessa psicologia analitica junghiana ha contributo in maniera rilevante alla promozione di studi volti ad approfondire la natura dell’esperienza artistica e delle sue componenti pulsionali inconsce.
Lo sguardo psicoanalitico può rivolgersi all’autore, alle fasi della sua vita, o all’opera stessa. Se nella prima metà del Novecento si è privilegiata la prima sfera, nei decenni a noi più vicini ha prevalso la seconda, senza che ciò implichi, ovviamente, un definitivo tramonto dell’una o dell’altra. Questo è accaduto, dopo l’affermarsi dello strutturalismo nell’Europa del dopoguerra, con l’indebolirsi, o meglio con la decostruzione dell’idea stessa di autore, che si svolgeva in parallelo alla progressiva messa a fuoco di quella particolare ‘autonomia’ insita nel prodursi dell’opera. “Che importa chi parla, qualcuno ha detto, che importa chi parla”, così Beckett citato da Foucault. A partire, dunque, da una sempre maggiore consapevolezza degli autori stessi. “Il pittore non è nulla nella storia della pittura”, ha affermato Balthus verso la fine della sua vita, “è solo una mano, uno strumento che comunica, conduce, procede talvolta alla cieca, agendo come un trasmettitore del sogno, di ciò che è ancora ignorato, illeggibile e segreto”.
Non che il legame ‘a troppe voci’ tra opera e vita dell’artista, a prima vista insondabile, o comunque non riducibile a strutture di senso ben riconoscibili, abbia smesso di attrarci. Più un’opera d’arte ci colpisce, e più ci coglie il desiderio di conoscere la vita del suo autore, anche nella sua quotidianità, come se un particolare, un dettaglio potesse tradire qualcosa del segreto di quel prodursi, e illuminare improvvisamente la scena. Come se solo lì si dessero delle tracce (dei residui lasciati dal passaggio dell’opera) in cui si riveli – o meglio: si confermi, si attesti – quel necessario-destinale che abbiamo intuito al lavoro nell’opera stessa. La psicoanalisi è stata, in un primo tempo, il tentativo di fornire una grammatica di quel lavoro animato da una spinta centrifuga, o meglio da una specie di forza di gravità che spinge a risalire in superficie, che è poi l’esteriore dei linguaggi, quell’area increspata, sempre in movimento che sfugge a ogni agrimensore.
E tuttavia, è proprio la familiare griglia interiore/esteriore a risultare sempre più inadeguata a render conto del processo artistico. In primo luogo perché l’autore, almeno in Occidente, quando non decide di ritrarsi nell’anonimo, ha rinunciato a considerare la forma espressiva, il particolare codice, la struttura che raccorda catene di significanti, come strumento, materiale al servizio d’una individuale, irriducibile volontà di potenza creatrice. Nelle viscere, nel vulcano che vede al lavoro Efesto tra le fiamme, c’è ancora linguaggio, e combinarsi storico, transeunte di forme: l’Unheimliche, il perturbante per eccellenza. Nessun tipo ideale, nessun canone ermeneutico cristallizzato in un atemporale può reggere in tale spazio. Proprio questo scenario, probabilmente, è alla radice dell’arte espansa, dell’attuale ipertrofica espansione della sfera del fare artistico volta a smangiare, a negare sempre di nuovo i propri confini (ad es. accentuando, a partire dalla pop art, il suo carattere di merce, di oggetto per consumatori). Come se fosse al lavoro, in questa revoca continua dei limiti, sospinti ripetutamente ancora altrove, un lutto indicibile, di cui ci si vergogna: per un fantasma che pure non si può piangere, perché rinvia propriamente a un vuoto, a un’assenza. Poiché rinvia ad una identità, per così dire, già da sempre perduta, e irrecuperabile – perdita che tuttavia non cessa di replicarsi, e che per una sorta di reazione iperbolica suscita una negazione (di sé) che non contempla punti d’arresto.
Luigi A. Manfreda